Capitolo 22 - Quiete e Tempesta
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
-Dante Alighieri
La neve ricopriva Londra, donandole un'aria d'altri tempi. Il sole era già sorto, ma le nuvole grigie oscuravano il cielo. Una nuvoletta di fumo le annebbiò la vista e senza nemmeno attendere che essa scomparisse, la ragazza fece un altro tiro da quella sigaretta.
Il rumore del traffico della metropoli faceva da sottofondo ai suoi pensieri. Non aveva dormito molto durante quelle notti, perché ogni volta che provava a chiudere gli occhi, le immagini di ciò che aveva fatto, due giorni prima, con quel professore, dall'altra parte di quel muro, le tornavano in mente.
Le mani che assaporavano la sua pelle con il tatto, le iridi azzurre che sembravano leggerle l'anima e quelle sensazioni al limite del paradisiaco che le faceva provare.
In che cosa si era andata a cacciare?
Aveva già i suoi problemi, le sue emozioni confuse, come le era venuto in mente di infilarsi in quella situazione con un uomo adulto, pensando che ne sarebbe uscita completamente indenne. Scosse la testa, camminando fino al bidone della spazzatura che si trovava sul ciglio del marciapiede e spegnendo la sigaretta sulla sua superficie, per poi gettarla via.
In quei due giorni avevano avuto un incontro con un'altra azienda e poi uno con i segretari al parlamento. Il weekend stava arrivando, portando a termine quella settimana, che era stata molto diversa per tutti. Era venerdì e il programma prevedeva che tutti si sarebbero recati a Oxford, per visitare la città e l'università.
Damian aveva organizzato tutta quella giornata, sostenuto dal suo collega, che non vedeva l'ora di poter vedere la cittadina con i suoi occhi. E anche gli studenti si erano mostrati molto interessati all'iniziativa.
«Oh, eccoti» Hailey la raggiunse fuori dall'hotel, stringendosi nel suo cappotto per cercare di sfuggire al freddo. «Avevi dimenticato il cellulare in camera» le disse, porgendoglielo e facendole mordere l'interno guancia. «É già la seconda volta. Se continui così sicuramente finirai per perderlo» concluse, guardandola in modo ovvio.
«Già, l'avevo dimenticato» commentò lei, facendolo scivolare nella tasca della giacca. La verità era che l'aveva lasciato apposta in camera, così come aveva fatto il giorno prima. Voleva evitare di dover rispondere ad altre possibili chiamate dei suoi genitori e se non ce l'aveva con sé, sarebbe stato più semplice ignorare il tutto e impedire di farsi rovinare le giornate.
«Alla fine, cosa ti sei messa oggi? Quando sei uscita dal bagno avevi già il cappotto e poi sei scappata giù» indagò Hailey, che da quando si era svegliata le aveva chiesto consiglio su cosa indossare, volendo confrontarsi con lei.
«Uhm... un vecchio vestito» rispose evasiva, cercando di tenere più chiuso possibile quel lungo cappotto.
«Non hai le calze? Come fai a non avere freddo?» quando Hailey ci si metteva riusciva ad essere davvero invadente con la sua curiosità ed Ember aveva bisogno di stare lontano da tutto quell'indagare, perché, per quanto le piacesse il rischio, non era pazza e sapeva che avrebbe dovuto stare molto più attenta con le persone che la circondavano, rispetto a quando si trovava in America.
«Sabato e domenica li abbiamo liberi, li potremmo passare a fare shopping, ti va?» cambiò completamente discorso, spostandolo su un argomento che sapeva l'avrebbe distratta. Gli occhi dell'amica si illuminarono e la sua bocca si aprì in un sorriso felice.
«Speravo che me lo dicessi tu e non dovessi trascinarti, controvoglia, per negozi tutto il giorno» le rispose, esaltata come una bambina davanti ai regali di Natale.
La loro conversazione venne interrotta dal resto del gruppo e dalla voce del professore Kaplan. «Ci siamo tutti?» chiese, osservando gli studenti e accertandosi che non mancasse nessuno. «Bene, il treno parte tra un'ora, quindi muoviamoci se non vogliamo perderlo» ordinò poi, facendo segno di seguirlo.
Damian ed Ember si scambiarono uno sguardo, parlandosi in silenzio, come avevano fatto durante quei due giorni. Non avevano più avuto occasione di ritagliarsi un momento di intimità in tutta sicurezza, lontano da qualsiasi occhio indiscreto.
Ma era stato un bene, perché entrambi avevano avuto tempo per riflettere. Anche se le loro idee erano ancora confuse, almeno avevano potuto pensare a cosa diavolo stavano combinando.
Il professore, per più di un mese, era stato convinto che lei e Carter avessero una relazione. Mentre in realtà non era così. O meglio, avevano una relazione, ma non del tipo esclusivo che si aspettava lui. E quando si era ritrovato a pensare che, allora, almeno un problema su mille era stato risolto, per un attimo non si era riconosciuto.
Era vero che quei due non erano fidanzati, ma era anche vero che il ragazzo provava qualcosa per lei e gliene aveva parlato più volte. Quindi, come poteva pensare che quel problema fosse risolto? Andare a letto con lei continuava ad essere sbagliato.
Eppure, una vocina nel suo cervello gli suggeriva che l'egoismo era la scelta giusta, per quella volta. Che colpa ne aveva lui se proprio quella ragazza era entrata nella sua vita? Che colpa ne aveva se lei riusciva a farlo stare così bene?
Quando era con Ember, il tempo sembrava essere solo un qualcosa di relativo, non c'era più il suo passato a tormentarlo, il presente opprimente si faceva da parte e quell'assaggio di felicità gli lasciava il suo dolce sapore in bocca.
Rinunciare definitivamente a tutto ciò non era certo facile.
La sua vita privata era un disastro ormai da anni ed era certo del fatto che non fosse stato lui il primo della coppia ad essere infedele. Quindi perché preoccuparsi davanti a quella fede? Quando essa non era altro che un semplice anello ormai senza alcun valore.
Se avessero fatto attenzione, se nessuno fosse mai venuto a sapere di loro, avrebbero potuto continuare a fare sesso. Finché si trattava solo di quello, di mero piacere fisico, non sarebbero andati incontro ad altre complicazioni.
Era a questo che aveva pensato durante quei due giorni e mentre guardava quegli occhi scuri, nella sua testa si diceva che, sì, avrebbe potuto funzionare.
Sarebbe stato il loro piccolo, grande segreto.
Ember, dal canto suo, si era tormentata cercando di comprendere quelle emozioni che la perseguitavano e le impedivano di dormire sonni tranquilli. Non sapeva rispondersi riguardo a cosa avesse provato quella notte, quando lui le aveva girato il volto per far sì che lo guardasse negli occhi.
Quella sensazione di ansia, era stato un meccanismo di difesa per un qualcosa che l'aveva colpita in modo decisamente inaspettato. Il suo piano iniziale era quello di sedurlo ancora una volta e poi chiudere tutto, così sarebbe stata lei quella ad avere l'ultima parola.
Perché voleva vendicarsi per quando le aveva fatto chiedere scusa, riportandola a quando aveva dieci anni, comportandosi come suo padre e umiliandola. Ma, come alla fine succedeva anche con i suoi genitori, ci ricascava sempre.
Diceva che sarebbe stata l'ultima volta e poi eccola che si rimetteva in quelle stesse situazioni in cui finiva per farsi del male. Infatti, quella mattina aveva scelto con cura i suoi vestiti e ora stava facendo di tutto per evitare che qualcuno scoprisse cosa ci fosse sotto quel cappotto.
Non sapeva se tutto ciò sarebbe andato a finire male, come accadeva con i suoi, ma si diceva che le sarebbe andato bene scoprirlo con il tempo.
Durante il viaggio in treno, passò il tempo parlando con Hailey, di ragazzi e serie tv. Mentre Damian riguardava il programma della prossima settimana, assieme al suo collega. Quando arrivarono alla stazione di Oxford, lo sguardo del professore era illuminato da una nuova luce.
Era felice di essere lì, in quella città che gli stava tanto a cuore. Si sentiva a casa come mai prima e non vedeva l'ora di poter mostrare tutto ai suoi studenti. Li fece fermare nel piazzale appena fuori dalla stazione, sfoggiando un sorriso contento.
«Vi porto nel mio bar preferito a fare colazione e poi andiamo a visitare l'università. Okay?» disse, guardandosi attorno. I ragazzi annuirono, pronti a seguirlo, non vedendo l'ora di sentirgli raccontare tutto ciò che sapeva su quel posto.
Il professore Turner era riuscito a farsi prendere in simpatia da tutti i suoi studenti, perciò ognuno di loro lo aveva voluto presente in quel viaggio ed era entusiasta di passare quella giornata nel luogo dal quale proveniva.
Oxford era una cittadina caratteristica inglese, conosciuta come: "la città delle guglie sognanti" per via di quello stile gotico con cui gli edifici erano costruiti. Camminando per le vie tranquille, sembrava di stare dentro ad un'opera classica, immersi completamente in un'atmosfera d'altri tempi.
L'architettura antica si mescolava armoniosamente con i locali di nuova concezione. Il luogo dove Damian amava fermarsi ogni mattina per fare colazione, si trovava proprio davanti alla famosa biblioteca palladiana a cupola. Vaults & Garden, questo era il nome del locale, caratterizzato da un giardino esterno e degli interni dall'aria medievale, formati da soffitti a volta e tavolate in legno.
Venivano serviti piatti tipici inglesi e tutti, affamati, si affrettarono ad ordinare. Damian e Gabriel stavano conversando con alcuni studenti, mentre, dalla parte opposta di quel tavolo, Ember si stava gustando il suo avocado toast. Ma entrambi continuavano a lanciarsi occhiate furtive.
Damian si stava chiedendo perché non si fosse tolta il cappotto e il sospetto che avesse qualcosa in mente stava iniziando a insinuarsi dentro di lui. Poi lei gli rivolse un sorriso e qualsiasi pensiero nella sua testa si spense, concentrandosi solo su quelle labbra.
«Ti ho vista» la informò la sua amica, parlandole con una mano davanti alla bocca, così che nessuno potesse capire cosa stava dicendo. Ember si voltò verso di lei, con sguardo annoiato.
«La vuoi smettere con queste tue teorie complottiste» le disse, pulendosi le mani sul tovagliolo.
«Non sono teorie. Io lo vedo davvero come vi guardate, non lo immagino nella mia testa» puntualizzò. Ember alzò gli occhi al cielo, doveva continuare a negare quelle sue insinuazioni, per evitare che esse potessero diventare qualcosa di concreto nella sua testa. Anche se si fidava dei suoi amici, nessuno avrebbe dovuto sapere di ciò che era successo tra lei e il professore.
«Finiscila, è sexy e io lo guardo. Questo non è vietato dallo stupido regolamento dell'università» rispose, sorridendole infastidita.
«Finché ti limiti a quello» commentò Hailey, terminando la sua colazione.
Quando uscirono dal bar, una leggera pioggerellina mista a neve stava cadendo dal cielo, il che gli fece subito affrettare il passo per entrare nell'edificio principale dell'università. Varcarono i cancelli, attraversarono il giardino e poi, finalmente, si ritrovarono all'interno di quell'enorme stabile, all'asciutto.
Lo stile classico e gotico si rifletteva perfettamente anche lì dentro. Archi a volta, colonne, una scala di colori sul beige e affreschi sparsi su alcune parti del soffitto. Ember fu certa che quello fosse uno dei luoghi più belli che avesse mai visto in vita sua.
«Damian?» una voce maschile richiamò il suo nome, attirando l'attenzione di tutti. «Damian Turner? Ma cosa ci fai qui?» ripetè ancora, avvicinandosi a lui. Era un professore, lo si poteva riconoscere facilmente dal suo look e dalla valigetta che teneva in mano. «Non eri in America?» gli chiese.
«Sì, infatti. Sono qui con alcuni miei studenti per un piccolo viaggio» spiegò. «Ragazzi, lui è un mio vecchio collega, il professore Clarke. Uno stimato insegnante di storia» lo presentò. «Mentre, lui è Gabriel Kaplan, il mio attuale collega, che insegna economia» continuò poi, facendo conoscere i due uomini.
Parlarono per qualche minuto, confrontandosi sulle due università e salutandosi poi calorosamente. «Scusate, ma credo che oggi dovrò fermarmi molte altre volte» disse Damian, facendoli ridere. «Allora, vi porto a visitare l'aula nella quale insegnavo e poi i vari dipartimenti» li informò, facendogli cenno di seguirlo.
L'università era molto silenziosa e quasi nessuno, oltre a loro, si trovava in mezzo a quei corridoi. Tutto l'opposto di quello a cui erano abituati ad Harvard, dove c'erano sempre una miriade di persone che correvano da una parte all'altra o che affollavano i vari ambienti.
Oltre una doppia porta in legno chiaro, si trovava l'aula nella quale Damian insegnava prima di essere trasferito. Dalla forma ad anfiteatro greco, con lunghi banchi uniti, disposti su più file e molteplici finestre laterali che illuminavano l'ambiente. La cattedra era più grande rispetto a quella che aveva ad Harvard, abbinata con il resto dello stile architettonico.
Passò un'ora, durante la quale il professore mostrò loro altre parti di quella storica università, li presentò ad altri tre colleghi e poi li riportò nel cortile principale. «Pranzate pure dove più preferite, fatevi un giro della città e poi ci rivediamo nel tardo pomeriggio davanti alla stazione. Più tardi vi manderò un messaggio sul gruppo con l'orario preciso» disse Kaplan.
«Mangi con me o vado con loro?» si rivolse poi a Damian, indicando un gruppetto di studenti che lo stava aspettando.
«No, vai pure. Io volevo passare a salutare il rettore» gli disse, lanciando un'occhiata verso l'entrata dell'università. Ed ecco che, finalmente, l'occasione che serviva ad Ember era arrivata. Lo osservò, voltando il viso mentre si allontanava assieme ad Hailey.
Il professore ricambiò quello sguardo, cercando di capire cosa le stesse passando per la testa. La ragazza gli sorrise sorniona, spostando poi i suoi occhi verso l'edificio che dominava il giardino. E fu allora che lui capì cosa avesse in mente. Scosse la testa, sgranando gli occhi e fissandola severo.
Quello era forse il posto più pericoloso per restare solo loro due assieme, senza nessun altro. Tutti lo conoscevano, occhi indiscreti si potevano trovare dappertutto. E per quanto l'idea potesse essere allettante, per quanto stuzzicasse la sua parte più avventurosa, era decisamente da evitare.
Peccato che Ember non fosse in grado di far prevalere la sua razionalità. Anzi, nemmeno era certa di averne una. Perciò, mentre Damian si incamminava dentro l'università, lei arrestava i suoi passi, proprio fuori da quel giardino, facendo aggrottare le sopracciglia ad Hailey.
«Ma che stai facendo?» domandò confusa, vedendola fermarsi di scatto.
«Oh... io, devo andare un attimo al bagno» disse, inventando una scusa.
«Okay, ti aspetto qui allora» le rispose, recuperando il cellulare.
«No, vai pure con loro» indicò alcune compagne che si stavano guardando in giro per capire dove poter pranzare. «Io ci metterò un po'» aggiunse.
Hailey incrociò le braccia al petto. «Ember, cosa devi fare in realtà?» chiese, ormai poco convinta.
«Devo chiamare Carter» inventò una nuova scusa, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi.
«E lo devi fare di nascosto?» indagò ancora, con un sopracciglio alzato.
«Va bene, se vuoi sentire come facciamo sesso al telefono, vieni pure con me!» esclamò, con voce forse un po' troppo alta. Hailey spalancò la bocca, alzando le mani.
«Oh, no, grazie. Ci vediamo dopo» le disse, voltandosi e raggiungendo le altre ragazze. Ember sorrise soddisfatta, incamminandosi dentro quell'università. Ora non le restava che trovare Damian, quel posto era enorme, non sarebbe stato facile.
Aveva sentito che sarebbe andato a salutare il rettore, ma di certo non poteva presentarsi lì da loro. Pensò che, però, avrebbe potuto attendere fuori da quell'ufficio, magari dietro l'angolo del corridoio, senza farsi vedere, per poi seguirlo una volta terminata la sua conversazione.
Sì, era esattamente così che avrebbe fatto.
Chiese ad un ragazzo di passaggio quale fosse la strada più veloce per arrivare alla sua meta, raggiungendola poi in tutta fretta. Attese pazientemente, cercando di essere il più disinvolta possibile, mentre leggeva alcune targhe esposte in quel corridoio. E quando sentì la porta dell'ufficio aprirsi, si nascose subito dietro il muro che copriva le scale.
«Mi ha fatto davvero piacere vederti, Damian» udì chiaramente la voce del rettore. «Sono felice che le cose in America vadano bene. Non vediamo l'ora di poterti riavere tra noi, così che tu possa far elevare ancora di più il nome della nostra università» aggiunse, mentre gli stringeva la mano.
«La ringrazio» disse semplicemente lui, ricambiando quella stretta.
«E, ricorda, quella sedia è lì che aspetta te» lo fermò, prima che potesse allontanarsi, indicando l'interno del suo ufficio e alludendo al fatto che, se avesse dovuto lasciare il suo posto a qualcuno, sarebbe stato propio lui.
Damian sorrise, annuendo e ringraziandolo ancora, prima di congedarsi definitivamente.
«Buongiorno, professore» saltò su Ember, nell'esatto momento in cui lui svoltò per imboccare le scale sulle quali lei lo stava aspettando. Sussultò per lo spavento, chiudendo gli occhi e sospirando.
«Ember, cosa diavolo ci fai qui?» chiese, guardandosi attorno allarmato. Ma non sembrava esserci nessuno oltre a loro su quel piano, in quel momento.
«Volevo fare un giro un po' più approfondito di questa stupenda università» rispose, con quel sorrisetto serafico dipinto sulle labbra carnose. «Avresti voglia di farmi da guida?» tornò a dargli del tu, come le aveva detto, perché ormai era certa anche lei che fossero soli.
«Sai quanto è pericoloso quello che mi stai proponendo? Sarebbe pericoloso ad Harvard, dove ancora non mi conosce nessuno al di fuori del dipartimento Kennedy. Immaginati qua, dove c'è una mia foto appesa proprio all'ingresso» spiegò, cercando di farle capire che, qualsiasi cosa avesse in mente, sarebbe stata una follia.
«Non ho capito di cosa ti preoccupi, il professore Kaplan è a pranzo da solo con degli studenti e non si sta facendo tutti questi problemi» gli fece notare.
«L'unica differenza è che lui non ci va a letto con quegli studenti» lo disse a bassa voce, ricomponendosi poi subito dopo, mentre si sistemava la giacca. Ember sorrise, divertita da quell'affermazione. Un sorriso che però durò poco, quando altre voci si fecero spazio nel corridoio dal quale Damian era arrivato.
«Cazzo» disse lui, poggiandole una mano sull'avambraccio e trascinandola dietro di sé, giù per quelle scale. Terminati i gradini, Damian guardò velocemente a destra e poi a sinistra, scegliendo di proseguire nella prima direzione. Oltrepassarono la sua vecchia aula, ritrovandosi poi davanti ad una porta scura.
Frugò nelle tasche del cappotto che indossava, estraendo un mazzo di chiavi. Velocemente individuò quella giusta, per poi infilarla nella serratura e farla scattare. Aprì quella porta, spingendola dentro e seguendola subito dopo.
«Che cos'è questo posto?» chiese lei curiosa, guardandosi attorno mentre lui richiudeva a chiave quella porta. Una stanza non troppo grande, con due ampie vetrate che davano sul cortile interno, delle veneziane tirate completamente su e una scrivania con due sedie da un lato e una dall'altro.
Alcuni quadri erano appesi alle pareti, assieme a due lauree che riportavano il suo nome e vari altri attestati. Una grossa libreria si trovava posta alla parete davanti a quella scrivania, colma di testi classici ed edizioni limitate.
«Il mio vecchio ufficio, dove facevo ricevimento con alunni e genitori» rispose lui, togliendosi la giacca e poggiandola ordinatamente sullo schienale di una sedia.
«Ne hai uno così anche ad Harvard?» chiese lei, continuando a guardarsi attorno, volendo captare ogni particolare che potesse rivelargli di più su quell'uomo.
«Sì» ammise.
«Cioè, tu mi stai dicendo che quella sera avremmo potuto tranquillamente nasconderci nel tuo ufficio, per non essere scoperti dal custode, invece di correre per tutto l'edificio e finire in piscina?» domandò, aggrottando la fronte.
«Non mi è venuto in mente, ero troppo impegnato a cercare di non perdere il mio lavoro e la mia reputazione» puntualizzò, incrociando le braccia al petto. «E poi sei tu che ci hai trascinati in piscina» le ricordò.
«Vero. Ma adesso perché tu ci hai trascinati qui dentro, invece che fuori dall'università?» chiese di conseguenza.
Damian però non sapeva rispondere. Era stato un gesto dettato dall'impulso, quello di seguire proprio quella strada. Non era stata una decisione premeditata, l'istinto l'aveva portato nel suo ufficio. «È il primo posto che mi è venuto in mente» disse, ripetendo le stesse parole che lei gli aveva detto quando l'aveva trascinato nella piscina dell'università. «Solo che per me è vero» aggiunse poi, piegando leggermente la testa su un lato.
«Certo, con la piccola differenza che io le penso prima le cose, perché so dove voglio arrivare. Tu, invece, hai paura di ammetterlo e così, questa volta, il tuo inconscio ha voluto portarti qui. Perché, sotto sotto, sai cosa vuoi davvero. Hai solo paura di accettarlo» si avvicinò a lui, accarezzando il colletto di quella camicia con le dita. La stoffa morbida scorreva armoniosamente sotto i suoi polpastrelli, fino a che essi si scontrarono con il primo bottone e lo sguardo di Damian fu subito nel suo.
«Mi parli come se fossi io il ragazzino e tu l'adulta» la canzonò, muovendo qualche passo verso destra, portandosela dietro e allontanandosi dal campo visivo delle finestre.
«Non sono io quella che continua a fuggire davanti a ciò che vuole. O che ha paura di correre qualche rischio» puntualizzò, slacciando quella camicia e sfiorandogli il petto.
«Secondo me, la fai troppo facile, perché te ne freghi delle conseguenze» aveva ragione, a lei quelle non interessavano minimante, almeno fino a quando non la colpivano in prima persona.
«Beh, ricordati che, alla fine, sono pur sempre una ragazzina» si allontanò da lui, che già sentiva la mancanza del suo tocco sulla pelle. Camminò fino a quelle vetrate, tirando giù la prima veneziana.
«Ogni tanto ho bisogno che qualcuno mi ricordi quali sono le regole da seguire» anche la seconda finestra fu oscurata da quella tenda a listini. La cintura del suo cappotto venne slacciata, permettendogli di aprirsi e di rivelare, finalmente, cosa indossava sotto.
Gli occhi di Damian risalirono dai mocassini neri che portava ai piedi, su per quelle gambe nude, fino a scontrarsi con il bordo della corta gonna in pelle, rosa cipria, plissettata. Aveva tutta l'aria di essere una di quelle gonne che si mettono per giocare a tennis, o che fanno indossare nei collegi come divisa.
Il professore deglutì rumorosamente. Come aveva fatto a scoprire una delle sue fantasie più proibite, se nemmeno lui l'aveva mai chiaramente ammessa a se stesso?
Era brava.
Era davvero brava a quel maledetto gioco.
«Ogni tanto ho bisogno che qualcuno mi insegni un po' di educazione» il cappotto finì a terra, permettendogli di vedere più chiaramente quella camicetta bianca, ricamata sulla parte superiore e sui polsini. Attorno al colletto, chiuso fino all'ultimo bottone, vi era avvolto un grazioso nastro, dello stesso colore della gonna, che si annodava con un fiocco sul davanti.
Damian si passò una mano tra i capelli, non riuscendo a staccare, nemmeno per un secondo, lo sguardo da lei. Ember mosse dei passi lenti ma decisi, raggiungendo quella scrivania. Passò le dita sul bordo in legno, picchiettandole come se stessero camminando verso di lui. «Vuoi farlo tu?» gli chiese, risvegliandolo da quello stato di trance nel quale era entrato.
«Ember, come...» lasciò quella frase in sospeso, quando la vide aggirare la scrivania e cominciare ad aprire i cassetti.
«Come ho intuito che quella della candida scolaretta potesse essere una delle tue fantasie?» completò le sue parole, continuando a cercare qualcosa lì dentro. «Beh, è stato semplice. Mi sono chiesta: "Cosa potrà mai piacere ad un professore con un matrimonio infelice e che si fa sedurre da una ragazzina?" La risposta è arrivata da sé» spiegò, mentre la sua bocca si apriva in un sorriso, avendo finalmente trovato ciò che cercava.
«Modera i termini. Ti ho dato il permesso di darmi del tu, non di prenderti tutta questa confidenza» l'ammonì, tornando immediatamente serio e facendo illuminare il suo sguardo da quella giusta scintilla di rabbia che a lei serviva.
«Te l'ho detto che ho bisogno di qualcuno che mi insegni l'educazione» un sorrisetto si formò sulle sue labbra, mentre estraeva da quel cassetto un vecchio righello in legno. Damian osservò quell'oggetto, riconoscendolo subito. Non era suo, l'aveva trovato sullo scaffale più basso della libreria, probabilmente chi possedeva quell'ufficio prima di lui l'aveva scordato o lasciato lì di proposito.
Si era sempre detto che avrebbe dovuto buttarlo, dopotutto lui cosa se ne poteva mai fare di un righello da trenta centimetri? Ma poi non l'aveva mai fatto. Un po' perché gli sembrava brutto buttare via quell'oggetto antico, con i numeri che erano stati decorati a mano. E un po' perché magari il suo proprietario sarebbe potuto venire a recuperarlo, un giorno.
Perciò era finito dentro uno dei suoi cassetti, dimenticato per anni, sotto varie scartoffie che aveva lasciato lì prima del trasferimento.
Ember fece scontrare un lato di quel righello sul palmo della sua mano. Lo fece un paio di volte, guardandolo dritto negli occhi, mentre tornava dal lato opposto di quella scrivania. L'espressione del suo viso era il perfetto ritratto dell'innocenza, con quegli occhi grandi che facevano sfarfallare le ciglia lunghe, messi ancora più in risalto dal leggero strato di matita che colorava la rima inferiore e da quella sottile riga di eyeliner che adornava la parte superiore. Le labbra carnose, illuminate da un lucidalabbra delicato, erano leggermente schiuse.
La ragazza accarezzò quell'oggetto in legno, prima di poggiarlo sulla superficie della scrivania. Anche i suoi palmi si poggiarono su di essa, mentre la schiena si piegava di poco e lo sguardo sembrava determinato a restare fisso in quello del professore.
«Togliti subito quell'espressione innocente dal volto. Prima che lo faccia io» l'avvertì, mordendosi l'interno guancia, mentre cercava di mantenere la lucidità. Non aveva mai ceduto in modo così evidente alle sue fantasie, non si era mai lasciato andare così tanto e lei aveva scelto il luogo peggiore in cui provocarlo in quel modo.
Erano in una situazione pericolosa e più lei lo guardava come una pura ed innocente creatura, più lui faticava a tenersi a bada.
«Sarò una brava ragazza, per te» gli disse, piegando ancora di più la schiena. E Damian non resse più. Con uno scatto quasi felino si avvicinò a lei, ponendosi dietro il suo corpo, schiacciando il bacino contro quello di lei. La mano sinistra si poggiò sul suo fianco, mentre l'altra risalì tutta la schiena, spingendola lentamente verso il basso. Raggiunse poi il collo, stringendolo di poco e in quel momento la ragazza si ritrovava con il busto completamente poggiato su quella scrivania.
Ember, con parte del viso adagiata sulla superficie, cercava di scrutare l'espressione del professore con la coda dell'occhio. Sembrava concentrato sulla sua schiena, almeno fino a quando avvertì le dita affusolate scendere dal suo fianco e accarezzarle il lato della coscia, provocandole dei brividi in tutto il corpo.
La posizione in cui si trovava la faceva sentire completamente esposta alla sua volontà, il che le provocava un'eccitazione quasi dolorosa da sopportare. E il suo tocco non aiutava, mentre sentiva il basso ventre bruciarle e il sottile tessuto delle sue mutandine iniziare a bagnarsi.
«Dovevi proprio vestirti così?» domandò retoricamente, accompagnando alle parole il movimento delle sue dita che afferravano il bordo di quella gonna e lo tiravano lentamente su, fino a scoprirle il sedere.
«É parte del gioco» rispose lei, allargando maggiormente le gambe, sperando di fargli capire che volesse essere toccata e subito. Tutto ciò sarebbe dovuto servire per mandare fuori di testa lui, ma ora sembrava lei quella completamente annebbiata dall'eccitazione. Era certa che in quel momento avrebbe fatto qualsiasi cosa lui le avesse chiesto.
Damian guardò quel sedere sodo, che sembrava fatto apposta per essere afferrato dalle sue mani. Delle striminzite mutandine in pizzo bianco coprivano la sua intimità e lui decise che era arrivato il momento di toglierle di mezzo. Scostò quel tessuto con due dita, provocandole un sospiro pesante. Con l'indice accarezzò la sua pelle sensibile, dischiudendola lentamente, facendola piagnucolare mentre continuava a stuzzicare la sua entrata senza mai però spingersi all'interno.
«Se l'altra notte, in camera mia, dovevi essere il meno rumorosa possibile, ora devi davvero cercare di stare completamente zitta» le ricordò, facendo scivolare quel dito dentro di lei, che emise un lamento a voce bassa. «Hai capito, Ember?» insistette, spingendo maggiormente il copro contro al suo.
«Sì» rispose, facendo appello a tutto il suo autocontrollo. Continuando a giocare con lui in quel modo, non metteva alla prova solo la psiche di Damian, ma anche la sua. Il professore non era il solo a spingersi oltre i suoi limiti da quando l'aveva conosciuta.
E questo, lei, forse avrebbe dovuto metterlo in conto sin dall'inizio. Sin da quando aveva deciso di tornare a letto con lui.
Un secondo dito si insinuò in lei, facendole strizzare gli occhi e trattenere i gemiti, mentre lui continuava a stuzzicarla. Entrava e poi usciva completamente con l'indice e il medio, stare in silenzio fu più difficile di quanto si immaginasse.
Quei movimenti lenti, studiati, cadenzati, le stavano facendo desiderare di averne sempre di più. Perciò spinse il suo bacino all'indietro, andando incontro a quelle dita ed emettendo un gemito leggero. «Stai ferma, Ember. Non è educato essere così impazienti» le fece notare, mentre un ghigno aleggiava sulle sue labbra.
Ma la ragazza colse quella frase per spingerlo a fare esattamente ciò per cui aveva lasciato sola Hailey. Finse di non aver sentito quelle parole, continuando a spingersi verso di lui e provando anche ad alzare il busto da quella scrivania. Damian rinsaldò la presa che aveva sul retro del suo collo, costringendola a restare esattamente nella posizione in cui era.
Il professore fermò i movimenti delle sue dita, lasciandola insoddisfatta. Notò come lo sguardo della ragazza cercò quel righello e la mente di Damian si annebbiò del tutto, vedendola lì, con il respiro irregolare, le labbra schiuse e gli occhi languidi, non riuscì più a ragionare razionalmente.
Afferrò il righello, stringendolo nella mano. Ember, da quella posizione, non riusciva più a vederlo e in quel momento non udiva nemmeno un rumore. Quel dover restare ferma, senza sapere cosa lui avrebbe fatto, le metteva una certa agitazione. La curiosità spingeva per avere la meglio, in contrasto con il piacere dell'attesa ignota.
Erano passati ormai alcuni secondi e proprio quando lei stava iniziando a rilassarsi, ecco che quel righello colpì la sua pelle sensibile, cogliendola di sorpresa e facendola sussultare. Sentiva un leggero bruciore, poco sotto il sedere. Damian non aveva colpito troppo forte, ma quel materiale era abbastanza duro da lasciare lo stesso il segno. E infatti, un alone arrossato stava già colorando la sua pelle chiara.
Prima ancora che avesse il tempo di pensare a qualsiasi cosa, una seconda sferzata le colpì l'altra coscia e questa volta Ember non riuscì a trattenere un lamento, che non sapeva nemmeno classificare se fosse di dolore o di piacere.
«Silenzio, bimba» l'ammonì, colpendole la natica sinistra subito dopo. La ragazza si aggrappò con le mani al bordo della scrivania. E mentre lei si perdeva con lo sguardo in quei tre quadri impressionisti, appesi sulla parete davanti a lei, Damian contemplava le curve di quel corpo. La pelle lattea, ora sporcata da quei segni rossi e gli venne spontaneo passarvi le dita sopra.
Avvertì come, nei punti in cui era stata colpita, l'epidermide fosse più calda e la sentì fremere a quel contatto dolce, in completo contrasto con il rude colpo che l'aveva segnata prima. Si rese conto come, in quel momento, lui fosse la causa del piacere e del dolore. La situazione era nelle sue mani, era lui che sceglieva i gesti e le tempistiche. Era lui quello che sporcava la perfetta pelle candida e poi le dava sollievo carezzandola.
Quella ragazza si era fidata a tal punto da dargli tutto quel potere, gli aveva chiesto di fare ciò. E in vent'anni di matrimonio sua moglie non gli aveva permesso di scegliere nemmeno il colore delle pareti della casa in cui vivevano. Con quel pensiero nella testa, colpì ancora nello stesso punto di prima.
Ember strinse il bordo della scrivania con le dita, sforzandosi per trattenere un piccolo urlo di dolore. Quella volta nessuna carezza, al suo posto un altro colpo, sulla natica destra. La ragazza si afferrò il labbro inferiore tra i denti, mordendolo avidamente, per evitare di emettere qualsiasi suono diverso da quei gemiti strozzati.
E mentre la sua pelle bruciava sempre di più, lei poteva chiaramente avvertire l'eccitazione crescere sempre di più. Era l'ennesima contraddizione della sua vita, che, però, nel suo caso trovava un senso. Le piaceva mettersi nei guai, in situazioni al limite, giocava con il fuoco e quando ne usciva scottata, non si fermava, anzi, era spronata a rifarlo ancora e ancora, fino a quando a scottarsi non sarebbero stati gli altri.
Perciò quel dolore diventava piacevole, perché tutto in lei funzionava al contrario.
Alla sesta sferzata, Ember sentiva di essere arrivata al limite. «Damian» piagnucolò. Era la prima volta che lo chiamava per nome. In quattro mesi che si conoscevano, quella era la prima volta che lui udiva il suo nome uscire dalle labbra di quella ragazza. E sentirsi chiamare non gli era mai piaciuto tanto come in quel momento.
La voce ridotta a sussurro e quelle poche sillabe che erano rotolate fuori dalla sua bocca in maniera incontrollata. E quando se ne rese conto, Ember sapeva che in quel momento avrebbe dovuto fare di tutto per restare il più lontano possibile dalla sua mente. Le sentiva, le emozioni confuse e i brutti ricordi che spingevano per uscire da quei cassetti bui. Doveva stare lontano da tutto ciò, scappare prima che potessero stritolarla tra le loro grinfie e trascinarla nel buio della sua psiche.
E conosceva solo un modo per farlo. Ma, contrariamente a ciò che credeva, non dovette dire nulla, perché un secondo dopo quel righello tornò a poggiare sulla superficie della scrivania e lui lasciò la presa che aveva sul suo collo, facendola voltare a pancia in su.
Damian si piegò su di lei, rimasero a fissarsi per qualche secondo, prima di far scontrare le loro labbra in un bacio poco casto. Entrambi ormai avevano voglia di sentirsi e assaporarsi in quel modo, li eccitava ancora di più. La lingua di lui si spinse avidamente nella bocca della ragazza, che l'accolse, gemendo sulle sue labbra.
Le dita del professore ripresero a stuzzicarle il clitoride. «Sei fradicia» commentò lui, interrompendo per un secondo quel bacio, mentre i polpastrelli scivolavano sul suo punto più sensibile. Con la mano libera sfilò la parte di tessuto che era incastrata dentro la gonna, raggiungendo i suoi seni e stringendoli.
«D-Damian» balbettò lei e lui sapeva esattamente cosa voleva, ma non poteva darglielo. Almeno, non nel modo in cui avrebbe sodisfatto entrambi.
«Non qui, bimba» l'ammonì, sospirando sulle sue labbra. «Abbiamo già rischiato abbastanza» disse, per poi tornare a baciarla con foga.
Damian rimpianse di trovarsi in quell'ufficio e non nella sua stanza d'hotel, perché in quel momento avrebbe tanto voluto sentirla addosso a lui. Pelle contro pelle, mentre si spingeva dentro di lei. Ma non poteva, non lì. Lì non gli restava altro che farla venire con le dita e poi prendersi un attimo di pausa per metabolizzare tutto quello che era successo.
E fu proprio ciò che fece. Ember raggiunse il culmine sorprendentemente in poco tempo, dando a tutta l'eccitazione trattenuta una valvola di sfogo. Recuperò il fiato mentre il professore le risistemava le mutandine e tirava nuovamente giù la gonna, per poi allontanarsi da lei e permetterle di alzarsi.
Damian aggirò quella scrivania, lasciandosi ricadere sulla sua sedia e sistemandosi i pantaloni, che premevano contro la sua erezione insoddisfatta.
Il silenzio, che di solito lei amava, in quel momento era suo nemico, perché avrebbe potuto lasciar campo libero a riflessioni che Ember voleva evitare a tutti i costi. «Era la prima volta?» gli chiese quindi, lisciandosi la gonna.
«Che sculacciavo qualcuno con un righello?» domandò di rimando, poggiando la testa allo schienale alto. La ragazza annuì, raggiungendolo da quel lato del tavolo.
«Sì» ammise. «E per te?» aggiunse poi, curioso di sapere, mentre si riabbottonava la camicia.
«Sì, non l'avevo mai fatto in questo modo, era sempre stata solo una fantasia» rivelò, provando a poggiarsi su quella scrivania. Ma quando il suo sedere venne a contatto con la superficie, sussultò. La sua pelle, già delicata, era ancora più sensibile. Damian se ne accorse e trattenne un sorriso.
A quanto pareva, non solo le loro menti erano compatibili, per via dei loro interessi, ma anche le loro fantasie si incastravano perfettamente, gettando ancora più brace su quel fuoco formato dall'attrazione fisica che provavano l'uno per l'altra.
«Bene, professore» evitò di chiamarlo ancora per nome. «Andiamo a mangiare adesso. Sto morendo di fame» disse, rimettendosi il cappotto e lanciandogli il suo. Uscirono da quell'ufficio con prudenza, accertandosi di non essere visti da nessuno e in pochi secondi si ritrovarono fuori da quell'università.
«Ha una sigaretta?» gli domandò Ember, quando ebbero varcato i cancelli del cortile. Damian estrasse il pacchetto dalla tasca e gliene passò una, prima di infilarsene un'altra tra le labbra. La ragazza si poggiò con la schiena al muro in sasso, facendosela accendere direttamente dalle sue mani.
«Avrò un bel ricordo di Oxford» commentò lei, mentre il professore aspirava il fumo.
«E io avrò un bel ricordo del mio ufficio» replicò, sorridendole.
«Forse ti suonerà strano, ma mi chiedevo se avessi-» Ember venne interrotta prima che potesse dire altro.
«Damian!» la voce di Oliver attirò l'attenzione di entrambi. Stava camminando nella loro direzione, agitando il braccio per aria. Ma ciò che gli fece sgranare gli occhi, fu vedere da chi era accompagnato.
Sua moglie era lì.
Ember osservò quelle due persone, continuando a fumare e ignorando il fatto che fosse stata interrotta. Si disse che forse era stato un bene non poter terminare quella frase, perché aveva evitato di esporsi ulteriormente con le sue emozioni.
Guardò quell'uomo, alto, vestito in modo elegante, con i capelli corti e scuri e due occhi blu come zaffiri. La donna, anche lei abbastanza alta, aveva lunghi capelli biondi, ondulati, che ricadevano morbidamente sul suo trench nero. Non sapeva chi fossero, non li aveva mai visti prima e ipotizzò che si potesse trattare di altri vecchi colleghi di lavoro.
«Oliver, Adelaide, cosa ci fate qui?» fu tutto ciò che riuscì a domandare il professore, mentre sentiva i palmi delle mani iniziare a sudargli e il cuore finirgli in gola.
«Sapevo che oggi saresti venuto ad Oxford e abbiamo voluto farti una sorpresa» rispose l'altro e fu in quel momento che Ember capì che non erano affatto due suoi colleghi.
«Ciao, amore» e dopo quella frase da parte della bionda, ne ebbe la certezza. Dovette fare uno sforzo per non strozzarsi con il fumo che stava aspirando, mentre lei si avvicinava a Damian, lasciandogli un bacio sulle labbra.
Ember non se lo aspettava, non se lo aspettava minimamente di incontrare così, in quelle circostanze, la moglie di Damian. Ma, quando Adelaide le lanciò una lunga occhiata fredda, squadrandola da capo a piedi, le sembrò una situazione esilarante.
«Lei è Ember, una mia studentessa» la presentò. «Mentre loro sono, mia moglie e mio cognato.»
Quella donna sembrava infastidita dalla sua presenza, mentre spostava lo sguardo da lei al marito. Ed Ember si chiese in che modo avrebbe potuto guardarla se solo avesse saputo che fino a pochi minuti prima era piegata sulla scrivania di Damian, che era intento a sculacciarla con un righello e farla venire sulle sue dita. Quel pensiero le diede una certa scossa di adrenalina, che la spinse a sostenere lo sguardo e a sorriderle falsamente.
Adelaide non aveva mai visto suo marito in compagnia di una donna, in una situazione che li vedeva fumare insieme e parlare, ridendo anche. Poi, osservandola e notando la sua bellezza, si era sentita ancora più minacciata da quella ragazza. Era sempre stata una persona parecchio gelosa e possessiva nei confronti delle sue cose e ora che non poteva più tenerlo sotto controllo come prima, che lo vedeva cambiato, più sicuro di sé, ogni persona che si avvicinasse troppo a lui la metteva in allerta.
«Ci sono anche mamma e papà, stanno parcheggiando» rivelò poi Oliver e Damian si chiese se potesse andare peggio.
«Papà ha insistito per andare fuori a cena con il rettore, l'ha chiamato poco fa» aggiunse Adelaide. «Ha prenotato in un ristorante in centro e a tal proposito mi chiedevo se potessi fermarti a casa questa sera, visto che tanto staremo fuori fino a tardi» sì, poteva decisamente andare peggio.
Ember spense quella sigaretta, incrociando le braccia al petto, curiosa di capire dove sarebbe finita quella conversazione. «Amore, mi piacerebbe» mentì, cercando di essere convincente. «Ma non posso prendere e andarmene così, ho delle responsabilità con i ragazzi» spiegò.
«Professore, non si preoccupi» saltò su Ember, attirando l'attenzione di tutti e tre. «Domani è sabato, abbiamo il weekend libero. Si goda questi due giorni con la famiglia, sono certa che Kaplan non avrà nulla in contrario» Damian si chiese cosa diavolo le stesse passando per la testa per farle dire quelle cose.
Anche se non ne avevano mai parlato esplicativamente, sapeva che non aveva un bel rapporto con sua moglie, poco prima si era piegata sulla sua scrivania e adesso lo stava spingendo a passare due giorni a casa sua. Perché?
«Perfetto! Così per una volta non avremo il tempo contato per stare tutti insieme» disse Oliver.
«Sì, davvero perfetto» commentò Damian, provando a nascondere il fastidio nella sua voce. «Io penso di dover comunque andare ad avvisare il mio collega» la verità era che voleva solo una possibilità per potersi ritrovare nuovamente solo con Ember e chiederle perché avesse fatto una cosa del genere.
Ma la ragazza aveva un'idea un po' diversa in mente. «Non si preoccupi, avviso io il professore Kaplan.»
Damian la fissò severo.
«Allora, andiamo» disse Oliver.
«Andiamo» confermò il professore, mentre la moglie lo prendeva sotto braccio e iniziava a camminare.
Ember li fissò andare via, fino a che scomparvero dalla sua visuale, prima di voltarsi e prendere la strada opposta.
Non faceva mai niente a caso e presto Damian avrebbe capito il perché lo avesse spinto tra le braccia di sua moglie.
🌟🌟🌟
Non dimenticatevi di lasciare una stellina🙏🏻
Che dire... qui ormai fa sempre più caldo🥵
Diciamo che non guarderò più un righello allo stesso modo ahahahah
Damian sembra convinto a lasciarsi andare e continuare questa relazione assieme alla ragazza.
Finché è solo sesso non ci saranno complicazioni, ma sarà davvero così?
Vi aspettavate questo primo incontro tra Ember e Adelaide?
E cosa pensate accadrà ora che Damian andrà a casa con lei?
Per scoprirlo non dovrete fare altro che continuare a leggere😈
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XOXO, Allison💕
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