Sorpresa per voi - Capitolo Ventisette

Nonostante si chiami: "Capitolo Ventisette" narrerà delle vicende che si svolgono dopo l'epilogo della storia.

Godetevi questa sorpresa per voi, nel giorno del mio ventunesimo compleanno 🤍
Noi ci risentiamo dopo, alla fine, con lo spazio autrice.

- Il Profumo di una Nuova Vita -

Seduta su quello sgabello, con i gomiti poggiati alla superficie lucida dell'isola della cucina e tra le mani una tazza fumante di caffè, mi godevo il sorgere del sole.

Nonostante ormai avessi smesso, da più di due anni, con il lavoro da assistente di volo, il mio corpo faticava ancora ad abituarsi ai normali ritmi di vita. Mi capitava spesso di svegliarmi nel mezzo della notte, convinta che dovessi correre per prendere un aereo. O di avvertire una leggera sonnolenza durante la giornata.

Ma stavo cercando di farlo diventare la normalità per me.
Ogni tanto, come quel giorno, mi alzavo e girovagavo per casa, inventandomi cose da fare. E ogni tanto me ne restavo nel letto, con gli occhi aperti, alternando il mio sguardo tra il soffitto bianco, lo splendido panorama della città, che si scorgeva dalle finestre, e Ashton, accanto a me, nel suo sonno agitato.

Sì, perché non ero la sola che stava cercando di lasciare andare le vecchie abitudini e ricominciare su una nuova e sconosciuta via. Anche lui ci stava provando e sapevo che ce la stava mettendo tutta, nonostante non fosse per niente facile.

Ormai la primavera era alle porte, lo si poteva capire facilmente dal modo in cui le giornate si stessero allungando. Lì, nel tranquillo quartiere di Hannam-dong, il sole si stava già riappropriando del cielo, donandogli una miriade di sfumature dai colori caldi. Che andavano a mescolarsi con le punte dei mille grattacieli della città.

Dopo che, sia io che Ashton, avevamo lasciato i nostri lavori, ci eravamo presi del tempo per riflettere sul da farsi. Eravamo rimasti a Vancouver, ognuno nelle proprie case. Ma la decisione di provare a vivere insieme era arrivata quasi spontaneamente, dal momento in cui erano più le volte in cui Ashton dormiva da me, piuttosto che a casa sua.

E così, mentre io frequentavo quel corso di interior design, lui si occupava di formarsi per addestrare i cadetti. Non avevamo mai parlato del futuro, perché fino a quel momento ci bastava stare insieme, con i nostri amici.

Ciò che iniziò a farci pensare, fu la notizia del matrimonio di Edwin. La sua fidanzata ci mostrò l'anello in un giorno di fine estate, mentre ci eravamo ritrovati tutti a casa di Cara per una cena.

Dopo esserci congratulati, mentre cercavamo di ottenere più informazioni possibili riguardo la proposta e l'imminente matrimonio, ricordo bene un particolare: il modo in cui Ashton mi guardò. Sembrava dispiaciuto, triste per qualcosa che, ancora, non comprendevo.

Quella stessa sera, una volta tornati nel mio appartamento, iniziammo a discutere. Perché i suoi mostri interiori gli avevano fatto credere, per l'ennesima volta, che non sarei mai potuta essere felice per davvero con lui.

Mi disse che non era pronto a vedermi rinunciare a tanti passi che, nella vita degli altri, capitavano in modo naturale. E io gli risposi che noi non eravamo come gli altri, che io non avevo mai voluto essere come gli altri.

Ashton aveva tante paure e si faceva altrettante paranoie riguardo il futuro della nostra relazione. Temeva che, da un giorno all'altro, me ne sarei potuta andare, perché lui non sarebbe riuscito a darmi ciò che un altro uomo avrebbe potuto.

Litigavamo sempre quando usciva quell'argomento. Quando lui definiva "normali" gli altri, escludendosi e additandosi, come se lui fosse stato quello sbagliato.

Avevo provato più volte a spiegargli che a me non interessavano tutte quelle cose "normali" che si facevano in una relazione. Non avevo mai avuto il desiderio di sposarmi o di avere una famiglia. Per me c'era sempre stata la carriera prima di tutto.

Ero cresciuta in un luogo in cui mi avevano insegnato che si può amare in tanti modi. Che non servono due anelli per dimostrare amore vero ed eterno. Un posto in cui il significato di famiglia assume mille sfumature e non solo quella tradizionale.

E io, il mio amore e la mia famiglia li avevo già trovati, in lui e in persone straordinarie come quelle che mi circondavano.

Ormai consideravo casa le pazzie di Brandi, i sorrisi di Edwin, la generosità di Cara, gli scherzi di Benjamin e sì, anche le battute di Harold.

Ero felice così, non avevo bisogno di altro.

Ma quell'altro arrivò comunque, quasi inaspettatamente, quando il piccolo studio di interior design che io e la mia migliore amica avevamo aperto, ricevette un'importante proposta di collaborazione.

Una grossa impresa edilizia orientale ci chiedeva se avessimo avuto interesse nell'occuparci degli interni dei nuovi edifici che stavano costruendo. Così, dopo averne discusso con Brandi e altrettanto con Ashton, arrivammo tutti a una conclusione.

Avrei dovuto occuparmene io direttamente sul posto.

Non mi resi conto del passo che stavo per compiere, fino al momento in cui chiusi le cerniere delle mie due grosse valigie e osservai, dalla porta d'ingresso, il mio appartamento vuoto.

Lo stavo davvero per fare.
Stavo per realizzare un altro dei miei sogni.

Ricordo bene l'espressione del Signor. Bellamy, quando, uscendo da casa sua per andare a fare la spesa, notò tutti i miei scatoloni sul pianerottolo, mentre io e Ashton eravamo intenti a portarli nel camion che aspettava di sotto.

Era felice.
Finalmente non avrebbe più dovuto sentire i miei rumori quando tornavo a casa un po' brilla, o quando rientravo dal lavoro ad orari improponibili. Ma potrei giurarci sul fatto di aver avvertito un po' di dispiacere nel tono della sua voce, mentre pronunciava quelle parole.

"Spero solo che adesso non mi appioppino qualcuno che riesce a rientrare a casa ancora più tardi di te"

Sì, era decisamente dispiaciuto.

In ogni caso, tutto era pronto, avevo salutato i miei amici, impacchettato tutte le mie cose ed ero pronta a salire su quell'aereo.
Lo eravamo entrambi.

«Ti sei dimenticata ancora di non doverti alzare per correre a prendere un volo?» la voce di Ashton, ancora impastata dal sonno, arrivò dritta alle mie orecchie. Abbandonai la vista di quel magnifico skyline e mi voltai verso di lui.

Una mano nei castani capelli arruffati, la bocca aperta in uno sbadiglio e solo quella maglietta bianca a coprire il suo corpo scolpito. Era in quei momenti in cui faticavo a decidere se fosse più bello il panorama, che il nostro attico al ventitreesimo piano ci regalava, o lui, semplicemente appena sveglio.

«Dovevo fare pipì e poi avevo bisogno di un caffè» risposi, sorridendogli dolcemente. Ashton annuì, per poi avvicinarsi a me, cingermi la vita con le braccia muscolose e lasciarmi un veloce bacio sulle labbra. Distraendomi mentre mi rubava la tazza bianca dalle mani.

«Ehi!» protestai, guardandolo sorseggiare il mio caffè amaro e fingendomi offesa. In tutta risposta mi regalò un sorriso divertito. Aggirò quell'enorme isola della cucina e aprì il frigorifero, sorprendentemente pieno di cibo. Non mi sarei mai abituata a vedere un frigo straboccante in casa mia e questa era una delle poche caratteristiche della mia vita sulle quali avevo certezze.

Dopotutto, qualsiasi cosa avessi fatto, una significativa parte del mio cuore sarebbe rimasta per sempre in quell'aeroporto, su quegli aerei.

Era strano, perché amavo il mio nuovo lavoro, la mia nuova vita, eppure non potevo evitare di sentirmi malinconica ripensando alla mia Vancouver e alla mia divisa da assistente di volo. C'erano giorni in cui addirittura quel maledetto cappellino con il velo mi mancava.

Ma poi guardavo Ashton, sorridente come non lo era mai stato, uscire di casa per recarsi al suo nuovo lavoro, ridere mentre si ingegnava per preparare una cena tipica, raccontarmi della sua giornata e addormentarsi sul divano accanto a me. E allora, ogni dubbio spariva.

Quando aveva deciso di seguirmi dall'altra parte del mondo, trasferendosi con me in Corea del Sud, avevo temuto che avrebbe fatto fatica ad ambientarsi in quel paese così lontano. Avevo avuto paura che presto si sarebbe stancato, che il suo nuovo lavoro di preparatore per l'esercito non lo avrebbe soddisfatto.

Avevo avuto paura che si sentisse in trappola.

E invece, era stato tutto il contrario. Anzi, ero stata io quella che aveva avuto qualche problema nell'ambientarsi in quella capitale dalla straordinaria modernità e grandezza.

«Che programmi hai per oggi?» mi chiese, mentre tagliava una banana dentro alla scodella piena di yogurt bianco.

«Devo passare a controllare i mobili che sono arrivati per i salotti di quegli appartamenti, ma dovrei liberarmi dopo pranzo» risposi, alzandomi e riponendo quella tazza sporca nella lavastoviglie. «Tu invece?» domandai di rimando.

«Io sono di riposo oggi» disse semplicemente, soffermandosi qualche secondo di troppo sulle mie gambe scoperte e su quella semplice canottiera grigia.

«Bene, allora avrai tutto il tempo per prepararti psicologicamente alla cena di questa sera a casa di Lian» gli ricordai, con tono divertito, mentre lui sgranava gli occhi e arricciava le labbra, in un'espressione di disappunto.

Lian era l'architetto del progetto del quale il mio studio si stava occupando. Aveva ideato e disegnato lei quegli enormi edifici, che sarebbero presto diventati dei fantastici appartamenti e uffici all'insegna del risparmio energetico.

Era un genio rivoluzionario nel suo campo. E, come tutti i geni, aveva anche le sue stranezze, che però io apprezzavo. Mi faceva sempre divertire il modo sgargiante e totalmente non abbinato in cui vestiva, adoravo il suo modo di chiamare tutti "stella o stellina" e il suo essere quasi perennemente sulle nuvole.

«Oddio, me ne ero completamente dimenticato» ammise Ashton, camminando verso il salotto ad open space. «Non possiamo inventarci una scusa e dire che non andiamo?» domandò poi, lasciandosi ricadere sul divano in stoffa color panna.

«Non fare i capricci come i bambini. Lian, sotto sotto, è simpatica» risposi, sedendomi accanto a lui e accendendo la televisione. Misi il canale canadese delle notizie. Ormai era diventato quasi un rituale, non uscivo mai di casa, se prima non mi informavo su ciò che stava succedendo nel mio paese.

«È completamente pazza» puntualizzò lui, parlando con la bocca piena e facendomi scoppiare a ridere per la faccia buffa che fece successivamente, per evitare di sporcarsi con quello yogurt.

«Hai sopportato Brandi per molto più tempo, ormai non dovresti avere problemi» dissi, prendendo subito dopo il mio cellulare e inviandole un messaggio.

"Ashton dice che Lian è più pazza di te, è arrivato il momento di ricordagli chi sei"

Inviai, mostrandolo poi all'ex militare che sedeva accanto a me. Lui alzò gli occhi al cielo, con fare divertito, mentre scuoteva la testa.

«Lo sai che le hai appena dato un ottimo motivo per venire a trovarci e per tormentarmi» puntualizzò, poggiando la scodella, ormai vuota, sul tavolino in vetro davanti a noi.

«Era questo l'intento» risi, seguita da lui.

Quelli erano esattamente i piccoli momenti che mi facevano sentire fortunata. Se, qualche anno prima, qualcuno mi avesse detto che presto mi sarei ritrovata felice, innamorata, in un attico a Seul, con il secondo lavoro dei miei sogni ormai realizzato, probabilmente sarei scoppiata a ridergli in faccia.

La maggior parte delle cose migliori che mi erano capitate nella vita non erano state programmate. E questa era proprio la cosa che preferivo.
La bellezza dell'imprevedibilità, la sorpresa dell'attimo, lo sconvolgimento dei piani.

Poggiai la testa sulla sua spalla, ascoltando il sottofondo che l'audio della televisione aveva creato e godendomi le sue dita gentili che accarezzavano il mio braccio scoperto. «Per me possiamo anche restare così per tutto il giorno» rivelò poi a voce bassa, quasi fosse imbarazzato a dire quelle parole, come se fosse un ragazzino con la sua prima cotta.

Una delle cose che amavo più di lui, era proprio quella, il suo essere, sotto sotto, un eterno ragazzino con la passione del basket e dei film di fantascienza.

Dato il suo aspetto fisico, il suo carattere freddo e distaccato con chi non conosceva e il suo passato, nessuno avrebbe mai pensato a lui come uno spensierato ragazzino. Ma in realtà lo era. Sotto tutti quei muri che si innalzava attorno, oltre tutti quei traumi che l'avevano profondamente segnato, lui aveva un'anima gentile e un cuore grande.

«Mancano ancora due ore prima che io debba andare in ufficio» lo informai, guardandolo dal basso, con un lampo di malizia che attraversava i miei occhi, nel momento in cui anche lui ricambiò quello sguardo.

Si chinò su di me, iniziando a baciarmi delicatamente le labbra. Semplici baci a stampo, che però erano capaci di donarmi un piacevole calore in tutto il corpo. Presto gli fui a cavalcioni e la mia canottiera divenne inutile, così come la sua maglietta.

Ad Ashton non piaceva ancora mostrarmi quelle cicatrici di guerra, che segnavano indelebilmente il suo corpo, così come a lui non piaceva vederle. Ma ormai si fidava di me, si sentiva completamente a suo agio, da lasciare che fossi io a scoprire il suo corpo.

Quella mattina, facemmo sesso su quel divano. Amandoci come solo noi sapevamo fare.
Amandoci in quella che per noi era la nostra normalità.

Perché avevamo scelto di giurarci amore, nel bene e nel male, poco prima di trasferirci, facendo sigillare le nostre promesse da Brandi e Benjamin, esattamente in quell'aeroporto dove tutto era cominciato. Avevamo scelto di non avere figli, perché non ci sentivamo le persone giuste per poter crescere una nuova e preziosa vita. Perché eravamo felici così, senza alcun tipo di vincolo.

E a me, il nostro amore fuori dalla normalità, piaceva parecchio.

ꨄꨄꨄ

Mi svegliai di soprassalto, tirandomi a sedere, sentendo che Ashton, accanto a me, aveva appena fatto lo stesso.

Con le gambe piegate al petto, le braccia a cingerle e la testa bassa, se ne stava immobile. Il respiro irregolare e il corpo sudato. Aveva appena fatto uno dei suoi incubi, che erano soliti disturbargli il sonno.

Incubi riguardanti le sue esperienze passate, nei quali veniva perseguitato dagli occhi di quella bambina iraniana, che sembravano ricordargli di non aver fatto abbastanza per salvare la sua cittadina. Perseguitato dal rumore delle bombe che esplodevano e dalle pistole che sparavano. Perseguitato dall'immagine del suo migliore amico che moriva sotto i suoi occhi.

Per quanto ormai stesse bene, non poteva fare nulla riguardo i suoi ricordi. Quelli sarebbero rimasti per sempre nella sua vita. Una parte integrante della sua psiche, che tornava sempre a disturbarlo nel sonno.

Mi avvicinai a lui, poggiandogli una mano sul bicipite scoperto e facendogli sentire la presenza del mio corpo vicino al suo. Guardandomi velocemente intorno, realizzai che fosse notte fonda. Tutto taceva, la città dormiva beata e noi sembravamo gli unici svegli, irrequieti, in quella calma notte di primavera.

Avevamo passato una piacevole serata a casa di Lian, ridendo, bevendo del vino e parlando del più e del meno. Alla fine, anche Ashton si era divertito, grazie alla presenza di altri ospiti oltre a noi.

Però, in quel momento, era come se ogni momento felice fosse stato cancellato.

«Ash... va tutto bene» gli sussurrai, accarezzandogli la nuca, cercando di calmarlo. Lui non sembrava voler accennare a muoversi da quella posizione, ma già lo sapevo. Sapevo che non mi avrebbe guardata, che non avrebbe portato la sua attenzione su di me, almeno fino a quando lo shock iniziale non gli fosse passato.

Perché, guardarmi negli occhi, vedere le mie iridi verdi, sporcate da quell'imperfezione marrone, lo faceva solo stare peggio. I miei occhi gli ricordavano quelli della bambina che aveva incontrato in Iran e nessuno dei due poteva farci nulla.

Stavo male al pensiero di non poterlo aiutare in quelle situazioni, anzi, di essere la persona che avrebbe solo potuto peggiorare il tutto. Ma avevo dovuto imparare a conviverci.

Ogni notte, Ashton aveva quegli incubi. Qualche volta erano più spaventosi, sembrando così reali da farlo svegliare. E altre volte erano solo proiezioni del suo subconscio, che gli agitavano il sonno.

«Respira» gli dissi, stringendomi ancora di più a lui. «Sai come si fa» gli ricordai, volendo comunque fare qualcosa, nel mio piccolo, per farlo stare meglio. «Percepisci lo spazio attorno a te» aggiunsi, decidendo poi di zittirmi per far fare al suo cervello, senza altra pressione, il resto del lavoro.

Ci volle qualche minuto, ma poi, finalmente, alzò la testa. Guardò fuori dalla finestra, iniziando a respirare regolarmente. «Sono a casa» disse, ma il tono era quello di una domanda lasciata in sospeso.

Osservai il suo volto, illuminato dalla luce della luna, che entrava da quelle vetrate pulite. Gli occhi stanchi, il naso leggermente storto e le labbra schiuse. I capelli, che si era lasciato crescere un po', rispetto a quando faceva il militare sul campo, gli si erano incollati alla fronte, per via del sudore.

«Sì, sei a casa. Siamo a casa» gli ricordai e fu in quel momento che decise di tornare a guardarmi. Intrecciò la sua mano con la mia, facendomi sentire, paradossalmente, così piccola anche in quella situazione.

«Sembrava tanto reale questa volta, Will» confessò, ancora scosso. Vederlo in quelle condizioni era sempre una fitta al cuore. Soprattutto sapendo di non poter fare nulla per rimediare al suo dolore.

Cercavo sempre e comunque di essere forte, perché era di questo che aveva bisogno lui. Di una persona che sapesse essere forte per entrambi, quando i ricordi incombevano e i suoi mostri interiori vincevano.

«Ma non lo era. Era solo un brutto sogno» gli ricordai ancora. Lui annuì, portando la mano libera verso il mio viso e spostandomi i capelli dietro l'orecchio. Mi sfiorò una guancia, provocandomi piacevoli brividi lungo tutto il corpo.

«Torniamo a dormire?» propose, accennando un sorriso.

«Sì» risposi, pur sapendo che, ormai, nessuno dei due avrebbe più chiuso occhio per quella notte.

Ci sdraiammo nuovamente su quel materasso morbido, le mani sempre intrecciate e i corpi vicini. La mia testa poggiava sul suo petto e le nostre gambe si incrociavano.

«Will...» disse poi. Ma io lo fermai prima che potesse continuare.

«Shh» sapevo che voleva scusarsi per avermi svegliata, ma non gli avrei mai permesso di pronunciare quelle parole. «Non è successo niente, non devi preoccuparti» lo rassicurai.

E quella nostra giornata si concluse così, con noi due abbracciati. In silenzio, ad ascoltare i nostri respiri e osservare, di nascosto, la città che, da mansueta ritornava caotica e il buio che lasciava spazio alla luce di un nuovo giorno.

🌟🌟🌟

Ehi ehi ehi, Stelline!

Allora, vi piace questo piccolo regalo?
Ve lo aspettavate?

Ho pensato che potesse essere una sorpresa carina quella di regalarvi un capitolo in più riguardo i nostri Willshton.

Qui ho deciso di soffermarmi il più possibile su loro due, lasciando da parte tutto il resto. Provando a darvi una prospettiva su quella che è la loro vita da dopo quella notte all'aeroporto.

Ho voluto anche mostrarvi i due lati che caratterizzano la loro relazione. C'è la parte bella, la spensieratezza, la gioia. E poi c'è la parte brutta, con i ricordi, gli incubi e le paure.

Ashton e Willow hanno deciso di affrontare tutto assieme, abbracciando quella che è la loro normalità ed essendo, semplicemente, felici.

Spero di avervi rallegrato la giornata e di avervi fatto felici con questo nuovo capitolo di Midnight Sky.

Come sempre, io vi ringrazio per il supporto che mi date e vi ricordo che chiunque di voi è sempre la benvenuta nelle mie storie

XOXO, Allison 💕

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