Capitolo Ventuno - Basta un attimo
Ashton
Guardai lo schermo del mio telefono illuminarsi e donare una flebile luce a tutta la mia camera avvolta dal buio di quella notte.
Allungai la mano, recuperando il cellulare dal comodino e sospirando pesantemente nel notare da parte di chi fosse il messaggio.
Willow...
Mi rigirai tra le coperte, ficcando la testa sotto il cuscino e assumendo una posizione fetale. Mi sentivo un perfetto idiota.
Udivo il rumore della pioggia provenire da fuori quelle sicure mure di casa mia. Le gocce si schiantavano al suolo e ogni tanto colpivano i vetri delle finestre.
Pensai che in quel momento sarei potuto essere nel suo appartamento, nel suo letto, con il suo corpo appiccicato al mio.
E invece ero da solo, per l'ennesima volta, a fronteggiare le mie paure.
A farmi divorare dalle mie insicurezze.
La verità era che io ci ero anche andato all'aeroporto. Avevo parcheggiato la macchina di Edwin proprio fuori da quelle porte e poi ero entrato, con un gran sorriso e tanta voglia di vederla.
E l'avevo vista.
Era con lui, seduta su quelle sedie, mano nella mano, intenti a parlare.
Sembravano così seri e poi, tutto d'un tratto, erano scoppiati a ridere e avevano continuato a conversare con quelle espressioni felici dipinte in volto.
Non ero riuscito a distogliere lo sguardo, continuando ad osservarli in ogni minimo movimento.
Sembravano essere perfetti l'uno per l'altra. Così genuinamente belli, caratterialmente simili e capaci di rendersi felici a vicenda.
Ero già consapevole di non poter essere in grado di darle ciò che lui poteva donarle. Ma in quel momento, quella mia consapevolezza era diventata realtà.
Io non ero ricco, non potevo permettermi di comprarle costosissimi vestiti e di regalarle quella spensierata felicità che un uomo senza i miei traumi avrebbe potuto darle.
Non era giusto che mi mettessi in mezzo, non era giusto che la privassi di quella vita senza stenti che si meritava. Non potevo tirarla dentro ai miei problemi, addossarle le mie paure e renderla partecipe delle mie insicurezze.
E quando li avevo visti scambiarsi quel bacio, quel casto bacio sulle labbra, le mie illusioni di poter finalmente tornare a innamorarmi si erano infrante davanti a me.
Come un specchio che cade a terra e si sfracella in mille pezzi.
Erano fatti per stare insieme e io avrei dovuto farmi da parte.
Perciò avevo creduto che la cosa migliore da fare fosse semplicemente far tornare tutto come prima. Dovevo tornare a essere un perfetto sconosciuto per lei.
Niente più messaggi, niente più sorrisi e sguardi di sottecchi. Niente di niente.
Lei era l'assistente di volo, sfacciata e sempre di fretta. Mentre io ero il militare dall'aria inibente che era appena stato trasferito.
Quindi decisi di non rispondere nemmeno a quel messaggio, spingendo lentamente il telefono lontano da me, fino a farlo cadere giù da letto. Nel silenzio assordante di camera mia, i miei pensieri stavano iniziando a tormentarmi. Cercai in tutti i modi di distrarmi, ma essi ebbero la meglio.
Avevano sempre la meglio su di me.
Pensai a mia madre e a come fosse stata forte nel non farsi abbattere dalla morte di papà. Aveva deciso di andare avanti, di prendere sempre la parte migliore di ciò le che capitava.
Anche se io ancora non riuscivo proprio a capire dove potesse essere quel briciolo di positività nella prematura scomparsa di mio padre.
Ma lei ce l'aveva fatta.
Aveva cresciuto me e le mie sorelle, continuando a lavorare ed essendo sempre un esempio per noi. E nonostante non avesse mai voluto rifarsi una vita amorosa, era felice.
Ma allora perché io non riuscivo a fare ciò che mia mamma aveva fatto?
Avevo superato la morte di mio padre solo arruolandomi e continuando ciò che lui aveva iniziato. Scappando dalla mia famiglia, dal luogo che mi ricordava così tanto quei momenti passati insieme a lui.
Mentre non riuscivo proprio a superare quella di Kyle. Nemmeno fuggire aveva funzionato quella volta.
Forse perché mi sentivo l'unico colpevole della sua scomparsa.
Il mio psicanalista diceva che stavo migliorando, che nell'ultimo periodo le nostre chiacchierate avevano preso una piega decisamente più leggera.
Eppure, in quel momento, io mi sentivo uno schifo. Per non essere riuscito a stare vicino a mia madre, per essere stato egoista, fregandomene solo del mio dolore e non di quello che anche il resto della mia famiglia stava provando. Per non aver ragionato abbastanza, non capendo che quella in Iran fosse solo un imboscata e per aver permesso che Kyle restasse indietro.
Per tutto questo, io mi sentivo uno schifo.
E in quel momento, il sentimento di disprezzo che provavo nei miei confronti era come aumentato.
Altroché progressi.
Ripensando a tutto ciò, una domanda sorse spontanea nella mia mente.
Se questo mio miglioramento fosse stato innescato da Willow? Se fosse davvero lei la persona in grado di aiutarmi?
Nonostante il mio inconscio sapesse già quale fosse la risposta, ormai tutto ciò non aveva più importanza. Perché, per l'ennesima volta, avevo scelto di rovinare tutto.
Avevo scelto di far vincere le mie paure.
«Ash, sei sveglio?» Edwin aveva appena bussato alla porta della mia stanza, il che mi fece fuoriuscire appena con la testa da sotto quel piumone.
Attesi in silenzio, perché in realtà non avevo voglia di vedere e parlare con nessuno. Da una parte speravo che se ne andasse, credendo semplicemente che stessi dormendo.
«Dai, Ashton, lo so benissimo che sei sveglio» insistette, alzando un po' il tono della voce. Fu a quel punto che decisi di togliermi di dosso quella coperta e tirarmi in piedi.
Camminai lentamente verso la porta, aprendola e ritrovandomi davanti la figura di Edwin. Mi fissava con un sopracciglio alzato, mentre se ne stava poggiato al muro.
«Cosa ci fai qui?» domandò con tono serio, facendomi aggrottare la fronte.
«Dovrei fartela io questa domanda. Sei tu che hai bussato alla mia porta» puntualizzai, anche se in realtà avevo già capito dove volesse andare a parare.
«Non prendermi per il culo» mi sgridò come se fossi un bambino, fissandomi con quello sguardo severo. «Mi hai chiesto la macchina per andare a prendere Willow, specificando che non saresti tornato prima di domani mattina» disse, facendomi tornare in mente le mie stesse parole di qualche ora prima.
Mi morsi l'interno della guancia, iniziando a pensare ad una possibile scusa da propinargli. «Quindi, riformulo la domanda: c'è una buona ragione per la quale tu sia qui e non da lei?» chiese, staccandosi da quel muro e fissandomi dritto negli occhi.
Tentennai alcuni secondo, prima di rispondere, balbettando qualche sillaba indistinguibile. «Era con Harold, stavano parlando e poi si sono baciati» alla fine cedetti, rivelando quanto era successo.
Pensai che se ci fosse stato qualcuno in grado di darmi un consiglio, quel qualcuno sarebbe stato proprio lui.
«Quindi hai pensato bene di scappare senza dire niente a nessuno?» domandò retoricamente, facendomi sentire un perfetto deficiente.
Mi passai una mano sul viso, respirando profondamente. «Cos'avrei dovuto fare?»
«Chiedere spiegazioni. Non puoi prendere e sparire in questo modo. L'hai mollata lì da sola» puntualizzò. «E comunque, questa cosa che ha baciato il suo ex, mi puzza un po'» aggiunse.
Eppure io li avevo visti.
Avevo visto come lei si era messa in punta dei piedi, come lui le aveva avvolto il braccio attorno alla vita.
Dopo tutto ciò che avevamo passato assieme nelle ultime settimane, anche per me era stato sorprendente -in modo negativo- vedere quel gesto da parte sua. E forse la cosa migliore sarebbe stata davvero quella di chiedere spiegazioni.
Ma ormai il dado era tratto. Avevo preso la mia decisione e solo con il tempo avrei scoperto cosa tutto ciò avrebbe comportato.
«Dai, vieni, andiamo a farci una birra» ordinò, facendomi cenno di seguirlo al piano terra.
«Ma sono le quattro di mattina» gli feci notare, dando un veloce sguardo al suo orologio da polso.
«Non fare il vecchio, Ash» mi rimproverò, scendendo velocemente le scale.
In piedi dietro l'isola della cucina, lui dai una parte e io dall'altra, stavamo sorseggiando quelle birre direttamente dalle bottiglie in vetro. Edwin aveva tirato fuori anche delle ciambelle glassate che, insieme a quella bevanda alcolica, avevano contribuito a tirarmi un po' su il morale.
Ma l'unica cosa alla quale riuscivo a pensare era che, da tre ore a quella parte sarei dovuto andare al lavoro. Non sapevo se avessi rischiato di incontrare Willow, non avevo ancora capito bene come funzionavano i suoi turni. Speravo solo che dopo quel volo intercontinentale che le era toccato fare, sarebbe stata di riposo per quel giorno.
Anche se alla fine sapevo che prima o poi ci saremmo dovuti rincontrare.
Non avrei potuto evitarla per sempre.
«Ti piace davvero Willow» parlò Edwin tutto d'un tratto, poggiando quella bottiglia di birra sulla superficie piana dell'isola.
«No... cioè, io non» il mio amico mi bloccò, ancora prima che potessi finire quella frase decisamente scoordinata.
«Non era una domanda» asserì, aprendo la sua bocca in un sorriso. «Lei ti piace e ti rende anche felice» continuò, addentando la sua seconda ciambella al cioccolato. «E non provare a negarlo, perché vederti sorridere ogni volta che ti arrivava un suo messaggio è stata solo l'ennesima conferma alla mia tesi» concluse, inchiodandomi completamente.
Non avrei potuto ribattere, qualsiasi cosa avessi provato a dire, per negare ciò che stava insinuando, non sarebbe servita. Perché stava semplicemente dicendo la verità e prima o poi avrei dovuto accettarla anche io.
Willow era quella persona in grado di rendermi le giornate più leggere, di non farmi pensare al mio passato. E io cos'avevo fatto? L'avevo lasciata andare.
Avevo sbagliato, per l'ennesima volta nella mia vita.
ꨄꨄꨄ
«Guarda un po' quell'uomo» Benjamin attirò la mia attenzione, toccandomi la spalla.
Ci trovavamo all'aeroporto, eravamo quasi alla fine del nostro turno di lavoro e come sempre tutto era filato liscio. Almeno finché Ben non mi fece portare la mia attenzione sulla figura alta di quel signore.
Indossava uno strano giaccone, che arrivava a coprilo fino alle ginocchia. Nella mano sinistra teneva stretto un borsone nero, mentre se ne stava fermo, immobile, davanti al gate D-12.
«È lì da un po' ormai» aggiunse Edwin, intromettendosi in quella conversazione.
«Sì, l'avevo notato, ma pensavo che stesse semplicemente aspettando qualcuno» dissi, imbracciando meglio il mio mitra e spostando il peso del corpo da un piede all'altro.
Nonostante fare la guardia all'aeroporto non fosse minimamente paragonabile a ciò che avevo dovuto vivere in Iran, non potevo comunque dire che fosse un lavoro rilassante.
Mancava totalmente d'azione, passavamo le nostre giornate a camminare avanti e indietro per quell'enorme salone delle partenze. Oppure a sostare, perfettamente diritti e con un'espressione impassibile dipinta in volto, davanti a quelle porte a vetri.
Con gli occhi avevamo il compito di controllare qualsiasi persona entrasse in quel posto e ogni movimento che compiva. Ma sin dal primo giorno in cui avevo iniziato quel nuovo lavoro, non era mai successo nulla di eclatante.
I turni scorrevano lentamente, accompagnati dalla noia e dai rumori che caratterizzavano l'aeroporto. E starsene in piedi, per anche otto ore, non era propriamente una delle mie cose preferite.
Ma quella volta, proprio quando mancavano trentasette minuti alla fine del nostro turno di lavoro, sembrava che qualcosa sarebbe stato in grado di smuovere un po' le acque.
«E aspetti in piedi, con quel borsone tra le mani, restando perfettamente immobile?» Benjamin insistette, dando voce ai suoi sospetti e facendomi riflettere più a fondo.
In effetti era un comportamento alquanto strano.
«Dovremmo andare a chiedergli se ha bisogno di qualcosa» proferii, volendo fidarmi dell'istinto di Ben. Se anche si fosse dovuto trovare in errore, al massimo avremmo solo occupato quei restanti minuti facendo qualcosa di più interessante che osservare e basta.
«Mi scusi, signore» Edwin richiamò quell'uomo, nell'esatto momento in cui ci avvicinammo a lui. «Sta aspettando qualcuno?» gli domandò poi, vedendo che non aveva intenzione di prestarci attenzione.
L'uomo scosse appena la testa, senza nemmeno degnarsi di rivolgerci lo sguardo. Fu a quel punto che lo aggirai, posizionandomi davanti a lui. La guancia destra era segnata da una cicatrice profonda, che sembrava essersi formata da poco. Gli occhi erano scuri e piccoli, apparentemente privi di espressione. Il che non fece altro che aumentare i miei sospetti.
La cosa che più mi premeva in quel momento era capire cos'avesse dentro quel borsone.
Eravamo addestrati anche per quelle situazioni e la prima cosa che ti insegnano è: quando vedi una figura sospetta, tenere tra le mani un grosso borsone privo di segni riconoscibili, allora quasi sempre ci sono guai in vista.
«Possiamo controllare cosa tiene lì?» gli domandai, cercando di mantenere un tono amichevole, non volevo farlo allarmare. Se dentro quella borsa avesse avuto davvero qualcosa di pericoloso, era meglio non fargli capire che sospettavamo in modo così evidente.
L'uomo scosse la testa preoccupato, iniziando a balbettare qualcosa. Indietreggiò, andando a scontrarsi con il corpo di Edwin e sussultando per quel contatto inaspettato. Si girò di scatto verso di lui, con sguardo spaventato.
«Carl!» una voce femminile urlò quel nome, attirando l'attenzione di quell'uomo, che subito scattò sull'attenti.
«Carl, quante volte ti ho detto che non devi allontanarti da me!» lo riprese, avvicinandosi con grosse falcate. Aveva dei capelli biondi, legati in un perfetto chignon e indossava un tailleur blu.
«Scusatemi, Carl viene dalla clinica di igiene mentale di Anchorage e ha questo brutto vizio di scappare ogni volta che lo portiamo fuori» quella donna ci spiegò a grandi linee la situazione, colmando alcuni dei nostri dubbi riguardati quello strano comportamento.
«Mi sono distratta per un secondo, mentre pagavo il mio caffè e quando mi sono girata lui era sparito» concluse, guardandolo con sguardo severo.
«Nessun problema, ma cerchi di tenerlo d'occhio» risposi, volendo evitare che un uomo con seri problemi psicologici si aggirasse liberamente per quell'aeroporto.
«Certamente!» disse infine, con un finto sorriso, trascinandolo via dietro di sé.
«Sbaglio o quella donna era alquanto inquietante?» disse Benjamin, mentre ci avviavamo verso l'uscita.
«Secondo me era solo stronza» commentò Edwin, riferendosi al suo carattere da direttrice severa e poco compassionevole.
«Va bene, anche oggi possibile disastro terroristico scampato» cercai di sdrammatizzare io. Uscimmo da quell'aeroporto, dopo che altri tre militari arrivarono per darci il cambio.
Fuori stava ancora piovendo e tirava un'aria fredda, che mi costrinse a stringermi nella mia giacca mimetica e recuperare l'ombrello dal mio zaino.
«Vado a prendere la macchina» annunciò Edwin, allontanandosi in direzione dei parcheggi sotterranei.
Io e Benjamin decidemmo di attenderlo lì, dalla parte opposta di quelle porte a vetri. Ognuno sotto il proprio ombrello, ognuno preso dai propri pensieri.
Pensieri che si fermarono completamente, quando, alzando lo sguardo, ritrovai Willow dall'altro lato della strada.
Non aveva indosso la sua solita divisa da assistente di volo, ma l'impermeabile beige che portava mi impediva di scorgere di più riguardo il suo abbigliamento. L'unica cosa che riuscii a vedere chiaramente furono i vertiginosi tacchi a spillo rossi.
Brandi era accanto a lei, intenta a spiegarle qualcosa in modo alquanto animato, dati i gesti che stava facendo con le mani. Ma lei smise di ascoltarla, nel momento in cui si accorse della mia presenza.
Vidi lo sguardo che mi lanciò, era carico di rabbia e risentimento. E non potevo fare altro se non prenderlo e portarmelo a casa.
Credevo che il tutto si sarebbe concluso così, con quell'unica occhiataccia e invece lei aveva altri piani in mente. Prese l'ombrello che Brandi teneva tra le mani e con passo deciso camminò fino a raggiungermi, fermandosi proprio davanti a me.
Deglutii rumorosamente, vedendo che non avrei avuto via di scampo. Lei voleva affrontarmi. A differenza mia aveva scelto di non scappare.
«Ah, ma allora sei vivo» proferì con tono ironico, non curandosi minimamente di Benjamin, che nel frattempo si era allontanato di qualche passo e aveva preso in mano il suo cellulare.
Non sapeva cosa fosse successo, ma aveva già intuito che quella non sarebbe stata una conversazione piacevole.
«Willow... io» mi interruppe subito, non dandomi nemmeno la possibilità di risponderle con una qualsiasi scusa.
«Lascia perdere le stronzate, direi che in tutte queste settimane me ne hai già propinate abbastanza» mi accusò. Fui dispiaciuto di sapere che con quel mio gesto lei avesse potuto credere che l'avessi sempre e solo presa in giro.
«Tutto ciò che ho detto e fatto è sempre stato vero» specificai, anche se ormai sapevo che non avrebbe creduto a nulla di quello che le avrei detto.
Willow sorrise amaramente, scuotendo la testa. Gli occhi truccati e il rossetto che portava sulle labbra mi fecero intuire che probabilmente fosse diretta in qualche locale.
«Sei incredibile. Prima ti intrometti nella mia vita, facendo lo scontroso, poi, tutto d'un tratto, decidi di essere gentile, accondiscendete e alla fine scegli di sparire come se niente fosse» disse. E mentre lei mi fissava dritto in faccia, i miei occhi erano rivolti su quell'asfalto bagnato.
Non avevo avuto nemmeno il coraggio di guardarla, perché sapevo quanto avessi sbagliato. Sapevo che non avrei potuto rimediare.
«Ma sono stata stupida io a fidarmi di te. A credere che uno stronzo diffidente potesse essere in grado di provare sentimenti veri. Quindi la colpa è solo mia» quelle parole mi colpirono dritto nel profondo, come se mi avesse appena tirato un calcio dritto nello stomaco.
Sapevo di essere uno stronzo, sapevo di essere diffidente e sapevo di avere problemi con i miei sentimenti. Ma sentirmelo dire in quel modo, mi aveva sbattuto davanti alla dura realtà dei fatti.
Le persone che mi stanno vicino finiscono per soffrire e farmi male.
Sono destinato a stare da solo.
Questa era l'unica cosa che il mio cervello riusciva a pensare in quel momento.
«Quindi, vaffanculo, Ashton Miller» concluse così, prima di girarsi e andarsene.
E mi odio ancora oggi per non essere stato in grado di fermarla, per non aver avuto il coraggio di rivelarle ciò che provavo in realtà.
L'avevo semplicemente fatta andare via, sotto i miei occhi. Avevo preferito farle credere che tutto ciò che avevamo passato fosse stato solo una menzogna, piuttosto che mettermi faccia a faccia con le mie paure.
Piuttosto che mostrarmi per la persona vulnerabile e piena di insicurezze quale ero.
Infondo, me le meritavo quelle parole di disprezzo.
🌟🌟🌟
Ehi, ehi ehi, eccovi il nuovo capitolo!
Alla fine sono stata brava e vi ho fatto scoprire subito che fine aveva fatto il nostro militare.
Cosa ne pensate della sua scelta di andarsene e comportarsi come se fossero due estranei?
A Willow sembra proprio non essere piaciuta.
Dite che ha fatto bene a reagire così?
Cosa credete che succederà adesso tra i due?
La loro storia sarà davvero destinata a finire ancora prima di iniziare?
Lasciate una stellina nel caso il capitolo dovesse esservi piaciuto e non dimenticatevi di commentare facendomi sapere cosa ne pensate.
Per qualsiasi cosa non esitate a scrivermi.
Seguitemi su Instagram: _madgeneration_ per non perdervi nessuna novità.
XOXO, Allison 💕
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