Capitolo Venticinque - Posto giusto, Momento sbagliato
24 ore prima.
«Si chiamava Kyle» con queste parole Ashton aveva iniziato il suo discorso.
Stesi nella mia grossa vasca da bagno, con le bolle di sapone che coprivano i nostri corpi, avevo ascoltato la sua storia. Dopo tutti quei mesi, lui aveva finalmente deciso di aprirsi con me.
Senza che io glielo chiedessi, Ashton si era sentito libero di affrontare il discorso sul suo passato. Mentre la mia schiena poggiava sul suo petto e la mia testa si abbandonava sulla sua spalla.
Aveva parlato senza mai interrompersi, accarezzandomi i capelli bagnati e tenendo lo sguardo fisso davanti a sé.
Ciò che gli era successo, quello che aveva dovuto passare, era stato uno strazio da ascoltare. Non potevo nemmeno immaginare come fosse potuto essere per lui, che aveva vissuto sulla sua pelle quegli avvenimenti tragici.
Il suo carattere schivo, freddo e diffidente, in quel momento più che mai mi sembrava così giustificato. Tutti i suoi modi di fare, non sempre gentili e nella norma, dopo aver sentito quella storia, erano diventati assolutamente normali.
Non capivo come avesse fatto a resistere e superare tutte quelle sofferenze. Era un uomo forte, una bellissima persona, che si meritava il meglio. E io, nel mio piccolo, stavo cercando di fare il possibile per regalarglielo.
«Grazie per aver parlato con me» gli dissi, voltandomi verso di lui e facendo fuoriuscire dal bordo bianco della vasca un po' d'acqua. «E comunque, per quel che vale, sono certa che Kyle sarebbe stato fiero di quello che sei e che hai fatto» aggiunsi, sorridendogli appena.
Ashton si lasciò scappare un sospiro pesante, chiudendo gli occhi per qualche secondo e lasciando ricadere la sua testa all'indietro. Approfittai di quel momento per osservarlo.
I capelli bagnati si dividevano in ciocche e gli ricadevano morbidamente sulla fronte. Un leggero alone di barba andava a decorare la sua mascella perfettamente definita. Le labbra, dall'arco di cupido pronunciato, erano schiuse e lasciavano intravedere i suoi perfetti denti bianchi.
I pettorali allenati fuoriuscivano da quell'acqua calda e mi venne spontaneo toccarglieli con una mano. Ne tracciai i contorni con le dita, accarezzandoli appena e provocandogli una leggera pelle d'oca. Sorrisi nel vedere la reazione che gli avevo scaturito e decisi di non fermarmi.
Mentre i miei polpastrelli vagavano sulla sua pelle liscia, la mia mente stava bene attenta a non farmi toccare o avvicinare a quelle cicatrici. Non erano un bel ricordo per lui, un qualcosa che lo faceva stare bene e io di certo non volevo procurargli ulteriore dolore emotivo, dando peso a quei segni.
Ashton aprì gli occhi con lentezza, scrutandomi affascinato. Alternava il suo sguardo dalle mie mani al mio viso e non osava dire nulla, come se non volesse disturbarmi.
«Ahia!» esclamò poi, nel momento in cui le mie dita si strinsero attorno ad un suo capezzolo e lo pizzicarono. Scoppiai a ridere, mentre lui cercava di mantenere un'espressione seria e imbronciata.
«Ti diverti?» mi chiese, incrociando le braccia e alzando un sopracciglio.
«Molto» risposi, tra una risata e l'altra. Ashton scosse la testa e successivamente le sue mani mi afferrarono dai fianchi, attirandomi verso di lui. Quel movimento brusco fece fuoriuscire parecchia acqua dalla vasca, che andò a bagnare buona parte del pavimento.
Le sue labbra furono presto sulle mie, mentre le mani presero ad accarezzarmi gambe nude. «Lo sai che poi ti toccherà pulire questo casino, vero?» gli domandai, staccandomi un attimo da lui e buttando un occhio al pavimento bagnato.
«Pulirò tutto quello che vuoi, ma ora vieni qui e sta' zitta» rispose per tanto, attaccando nuovamente le nostre labbra. Una delle tante cose che amavo di quei momenti con lui, era proprio quando la nostra pelle si trovava a contatto, senza veli, senza impedimenti. Semplicemente io e lui che potevamo percepirci in uno dei modi più intimi possibili.
Amavo sentire il suo calore addosso a me, le sue mani che vagavano sul mio corpo, che cercavano di sentirmi sempre più vicina.
Presto iniziai a sentire la sua crescente erezione premere sul mio interno coscia e ciò mi portò a baciarlo con più foga. Le mie mani si insidiarono tra i suoi capelli e le mie gambe si poggiarono ai lati del suo corpo.
«Come-» le sue parole si interruppero e un gemito sorpreso le rimpiazzò, quando avvolsi la mia mano attorno al suo membro ormai perfettamente eretto. «Come cazzo farò a stare senza di te?» domandò retoricamente, fissandomi dritta negli occhi.
Era una domanda che io mi ero posta sin dal momento in cui quella maledettissima lettera era finita nelle mie mani. Ma avevo cercato il più possibile di non pensarci, rimandando la risposta all'ultimo.
Beh, ora che l'ultimo momento era arrivato, mi trovavo ancora più in crisi di prima. Perché, diciamoci la verità, io non avevo una cavolo di risposta a quella domanda. Non potevo sapere come sarebbero andate le cose tra noi, se fossimo stati capaci di far durare la nostra relazione, già abbastanza stramba, anche a milioni di chilometri di distanza.
Tutto ciò che potevo fare era sperare che le cose andassero per il meglio e impegnarmi per mantenere saldo il nostro rapporto.
Di un fatto ero certa però, avrei sicuramente chiesto più ferie per poterlo andare a trovare. E mi sarei fatta mettere su tutte le tratte Vancouver - Città del Capo.
«Tranquillo, non ti libererai di me, nemmeno scappando dall'altra parte del mondo» gli dissi sorridendogli.
9 ore prima.
Un bacio appassionato.
Le mie braccia avvolte attorno al suo collo, le sue a cingermi i fianchi.
L'amore che ci legava, la paura che ci impediva di staccarci e l'enorme orologio dell'aeroporto che scandiva il tempo.
«Sarai qui prima che parta?» mi domandò a fior di labbra, stringendomi ancora di più a sé e poggiando la fronte contro la mia.
«A costo di gettarmi giù dall'aereo con un paracadute» risposi, ridendo e cercando di sdrammatizzare la situazione.
«Non dire stupidaggini e stai attenta» si preoccupò premuroso. Gli presi il viso tra le mani, attirando, ancora una volta le sue labbra sulle mie. Lo baciai disperatamente, avvertendo già un vuoto nello stomaco.
Non voglio lasciarlo andare...
Questa era l'unica cosa alla quale riuscivo a pensare da due giorni a quella parte, ogni volta che ci trovavamo faccia a faccia.
Dopo quella mattinata, passata accoccolati nella mia vasca da bagno, avevamo deciso di pranzare assieme e goderci ogni minuto del nostro ultimo giorno vicini.
Per la prima volta da quando ci conoscevamo, anche io avevo avuto l'onore di vedere casa sua. O meglio, la casa che condivideva con Benjamin ed Edwin.
Era una graziosa villetta in periferia, non lontana dall'aeroporto, con un piccolo giardino sul retro e gli arredi moderni. Non sembrava un luogo in cui vivessero tre uomini da soli, tutto era così pulito, in ordine e vi era una grande cura per i dettagli.
Più tardi scoprii che era grazie a Yolanda e Margaret, le due donne delle pulizie, se ogni cosa in quella casa dava l'idea di perfezione.
Ma questa è un'altra storia.
Io e Ashton, trovando l'abitazione libera, avevamo deciso di cimentarci nel cucinare qualcosa per pranzo. Lui se la cavava abbastanza dietro ai fornelli, ma le mie scarsissime doti culinarie erano riuscite decisamente a intralciare tutto il processo lavorativo.
«Okay, facciamo che adesso tu ti siedi qui e stai buona buona a guardare» mi aveva detto il militare, accompagnandomi vicino a uno degli sgabelli dell'isola in marmo scuro, dopo che avevo rischiato di tagliarmi via un dito mentre affettavo le zucchine.
Alla fine la cucina aveva tutto l'aspetto di una stanza colpita da un tornado, ma i piatti sotto i nostri nasi erano pieni di un'ottima pasta all'italiana, quindi ne era valsa la pena.
Entrambi concordavamo sul fatto che avessimo decisamente mangiato di meglio in vita nostra, ma dopo quel riso asciutto, che Ashton aveva cucinato a casa mia, la sera della tempesta, qualsiasi cosa sarebbe andata bene.
Qualche ora dopo, alla fine del pranzo, mi ero ritrovata a fissare i due borsoni che campeggiavano davanti alla porta della sua camera. Già chiusi e pieni di tutte le cose che gli sarebbero potute servire durante quel tempo di servizio lontano da Vancouver.
Il mio sguardo si era perso nel vuoto un paio di volte, ma avevo fatto di tutto per evitare che la mia tristezza e la mia ansia si potessero notare. Non volevo aggiungere un ulteriore peso emotivo alla sua mente, soprattutto in quel momento delicato di imminente partenza.
Poi, un qualcosa di luccicante aveva attirato la mia attenzione. Senza permesso mi ero addentrata nella stanza da letto, camminando lentamente verso il comodino in legno bianco.
Sulla superficie di quest'ultimo vi erano poggiate due collane dal colore argento. Le catenelle, formate da tanti piccoli pallini ravvicinati, tenuti assieme da un filo, avevano infilate al loro interno due piastrine.
Stavo per allungare la mano per recuperarle e guardarle meglio, quando la voce di Ashton mi fece sussultare e voltare di scatto.
«Sono belli e brutti ricordi allo stesso tempo, che cosa bizzarra» aveva commentato, uscendo dal bagno e raggiungendomi vicino a quel comodino. Le sue mani erano andate ad afferrare quelle due collanine, stringendole in un pugno.
«Questa era di Kyle» confessò, mostrandomi una delle piastrine che riportava inciso il suo nome e alcuni dei suoi dati personali. Avrei voluto prenderla, toccarla, un po' per curiosità e un po' per osservarla meglio, ma non me la sentii.
Analizzando il suo sguardo avevo capito, ancora una volta, quanto avesse sofferto per la perdita del suo migliore amico. E quella, purtroppo, sarebbe stata una sofferenza che non lo avrebbe mai abbandonato, perché accompagnata dal senso di colpa costante per la sua morte.
«E questa invece è la mia» disse poi, facendo scivolare con un dito una piastrina sotto l'altra e aprendole come una specie di ventaglio. Quella volta fu lui a porgermela, permettendomi di toccarla.
Lessi il suo nome inciso sopra e lo accarezzai con un dito, sorridendo appena e pensando a quello che ne sarebbe stato di noi. «Non le metto da quando... da quando sono andato via dall'Iran» rivelò, abbassando il capo e con un tono a malapena udibile.
Era come si vergognasse di quello che aveva appena detto, come se avesse compiuto un gesto talmente brutto da doverlo tenere nascosto agli occhi di chiunque.
Non ero un'esperta del suo campo lavorativo, sapevo giusto lo stretto necessario e ciò che avevo appreso da alcuni film. E poi era la prima volta da quando ci conoscevamo che mi parlava davvero di quello che faceva e mi mostrava alcuni dei suoi oggetti personali.
Ma supposi che quelle piastrine dovessero essere un simbolo importante per un militare, un qualcosa da mostrare con fierezza e che ti ricordava da dove arrivavi. Perciò si sentiva in colpa per non averle portate addosso per tutto quel tempo, perché era come se avesse rinnegato parte delle sue origini.
«Direi che allora è arrivato il momento di rimediare» posizionandomi dietro di lui e alzandomi in punta dei piedi avevo cinto il suo collo con quella collanina, allacciandola e lasciandogli una carezza dietro la nuca.
«Anche questa» disse, dopo avermi passato e permesso di toccare la piastrina di Kyle.
Ed era proprio quest'ultima che stavo fissando, mentre ci scambiavamo l'ennesimo bacio nella sala di quell'aeroporto.
Non avevo potuto saltare il mio turno quella volta, perciò ero obbligata a salire su quel dannato volo, che mi avrebbe portata fino a Seattle e ritorno in giornata.
«Okay, è davvero tardi ora, devo andare» annunciai, stringendogli la mano e buttando un'occhio all'enorme orologio digitale.
«Ti aspetto qui tra otto ore esatte» disse, cercando di mascherare il dispiacere nella voce. Gli stampai un'ultimo, veloce, bacio sulle labbra, prima di sforzarmi a fare un sorriso e dirigermi verso il mio gate.
2 minuti e 27 secondi dopo.
Stavo correndo a perdifiato.
Avevo attraversato metà aeroporto, non curandomi assolutamente della gente che mi circondava e lanciando, di tanto in tanto, sguardi nervosi agli orologi.
Per l'unica volta in vita mia in cui avevo fatto di tutto per essere in orario, eventi e forze più grandi di me si erano opposti.
Ma non mi potevo permettere di arrivare tardi, non quel giorno.
Eppure, mentre continuavo a correre, una vocina nella mia testa continuava a ripetermi: "non ce la farai."
Quando ero salita su quel volo per Seattle, qualche ora prima, non avrei mai potuto immaginare che ci sarebbe stato un guasto al motore e che avremmo perso più di un'ora fermi in quell'aeroporto.
«No... no, no» avevo commentato, nell'esatto momento in cui il pilota ci aveva avvisato del problema. Mi ero lasciata andare, poggiandomi alla parete di quel velivolo e chiudendo gli occhi in modo rassegnato.
«Clama, Willow. C'è ancora molto tempo per arrivare a Vancouver, non preoccuparti» Brandi era subito accorsa da me, cercando di tranquillizzarmi. Ma nella mia mente io continuavo solo a pensare a lui, ad Ashton che mi aspettava nel nostro aeroporto.
«Merda!» esclamai, costretta a fermarmi per far passare una macchina porta carrelli che, proprio in quel momento, aveva deciso di attraversare orizzontalmente quella sala.
L'orologio appeso al tabellone degli arrivi segnava due minuti dopo le sette di sera e io ero ufficialmente in ritardo.
Ripresi la mia corsa appena mi fu possibile, dovevo raggiungere quel maledetto gate delle partenze. Dovevo riuscire a vedere Ashton prima che si imbarcasse su quell'aereo, che lo avrebbe portato a migliaia di chilometri lontano da me.
Appena il mio volo era atterrato a Vancouver, Brandi mi aveva coperto, permettendomi di uscire da quel boeing 787, prima ancora dei passeggeri. Avevo abbandonato lì il mio bagaglio a mano e non mi ero curata di nessuna conseguenza, iniziando a correre per raggiungere la mia meta.
E in quel momento, a pochi passi da quel cartello che riportava stampata sopra la scritta: "Gate D-23" credevo davvero di avercela fatta.
I polmoni ormai mi bruciavano nel petto, il fiato mi mancava e le gambe erano doloranti, ma non avevo tempo per far caso alle condizioni del mio corpo. In quel momento l'unica cosa che mi interessava era trovare Ashton, corrergli incontro, avvolgergli le braccia al collo e dirgli che io ci sarei stata sempre per lui, qualsiasi decisione lavorativa avesse preso.
Mi fermai davanti alle porte di quel gate, le sedie della sala d'aspetto erano vuote, i banchi del controllo dei biglietti erano vuoti e così anche il corridoio che portava all'aereo.
I miei occhi continuarono a guardarsi intorno, alla ricerca dell'unica persona che avrei voluto vedere al mio fianco per il resto della vita.
Ma non la trovarono.
Continuai a cercare con lo sguardo, scrutando in ogni angolo di quell'enorme stanza delle partenze. Non poteva essere già andato via, non poteva essere partito, avevo fatto solo due minuti e ventisette secondi di ritardo e di solito le partenze degli aerei non erano mai puntuali.
Quella volta, però, sembrava che ogni evento non volesse incastrarsi nel modo giusto. Sembrava che il tempo fosse stato contro di noi, che il mondo avesse deciso di impedirci di raggiungerci e amarci come volevamo.
Mi avvicinai a quelle enormi vetrate, guardando la pista perfettamente asfaltata. Allungai il collo e scoprii, con immenso dispiacere, che gli addetti si stavano accingendo a richiudere quel tubo a fisarmonica che conduceva alle porte del velivolo.
Del suo aereo non vi era più traccia lì fuori e anche il piccolo schermo del gate non riportava più le coordinate del volo. La scritta Città del Capo, con l'orario della partenza e il meteo locale era sparita, lasciando il suo posto ad un'unica schermata bianca.
Era partito.
È partito e io non ero qui...
Quella frase rimbombava nella mia testa, mentre prendevo sempre più consapevolezza di non aver fatto in tempo ad arrivare, per essere lì prima che si imbarcasse, prima che quell'aereo lo portasse via da me.
Davanti a quel gate, in quell'aeroporto, dove tutto era cominciato non nel migliore dei modi, in quel momento tutto era finito in un modo ancora peggiore.
Perché sin dall'inizio entrambi eravamo sempre stati nel posto giusto ma nel momento sbagliato.
Delle lacrime rigarono le mie guance, mentre il cuore iniziava a martellarmi sempre più intensamente nel petto.
Ashton era andavo via e a me sembrava di aver appena perso la capacità di respirare. Un macigno si era come posato sul mio petto ed era come se delle mani mi stessero stritolando il collo.
Le ginocchia sembravano voler cedere da un momento all'altro e le lacrime mi avevano ormai offuscato del tutto la vista.
Mi lasciai andare ad un pianto sommesso, estraniandomi completamente da tutto ciò che mi circondava. Riuscendo solo ad immaginare l'espressione triste e delusa che si era formata sul volto di Ashton, quando non mi aveva vista arrivare in tempo.
Per l'ennesima volta avevo fallito nella mia vita sentimentale.
Avevo distrutto tutto.
«Willow» una voce chiamò il mio nome, riuscendo ad attirare la mia attenzione.
Ma non era la sua voce.
Voltandomi appena, mi ritrovai davanti Benjamin, vestito di una semplice tuta sportiva nera e con un'espressione sconsolata dipinta in volto.
«È partito» riuscii a dire solamente, tra un singhiozzo e l'altro. Il ragazzo mi raggiunse velocemente, stringendomi tra le sue braccia, condividendo parte della mia tristezza.
«È partito e io non sono riuscita ad essere qui» continuai, colpevolizzandomi ancora e pensando a come avessi rovinato tutto per quei due fottutissimi minuti di ritardo. Di come il lavoro che amavo era riuscito a distruggere l'ennesima mia relazione sentimentale.
In questo io e Ashton eravamo molto simili, entrambi eravamo legati al lavoro che facevamo e gli avevamo permesso di intromettersi fin troppo in fondo nelle nostre vite, fin troppe volte.
«Ha visto dal tabellone che il tuo volo era in ritardo, sa perché non sei riuscita ad essere qui in tempo» Benjamin mi rivelò quell'informazione, cercando di consolarmi, ma nulla avrebbe potuto alleviare il mio dolore in quel momento.
Nulla, se non la vista di Ashton.
Ma lui non c'era.
Lui era seduto al posto 16B di quell'aereo diretto a Città del Capo.
«Se io fossi stata qui lui non sarebbe partito... se fossi stata qui in tempo, lui sarebbe rimasto, vero?» domandai tra le lacrime, alzando lo sguardo verso il viso del ragazzo, che ancora mi stringeva tra le sue braccia.
Ricordai ciò che mi aveva detto Ashton quella mattina, mentre uscivamo da casa mia e lui chiudeva la porta con il doppione delle chiavi. «Queste te le ridò quando ci vediamo» avevo capito il senso di quella frase solo in quel momento, solo quando ormai era troppo tardi.
E il silenzio di Benjamin, che abbassava gli occhi sulle sue scarpe da ginnastica, era bastato per dare una risposta alla mia domanda.
Se solo fossi stata lì prima dell'imbarco, Ashton non sarebbe partito. Inconsapevolmente aveva già fatto la sua scelta, aveva scelto me.
Ma io non c'ero.
Io non ero lì quando era necessario per farlo restare e lui se n'era andato.
E a me non rimanevano altro che i ricordi del tempo passato insieme e la consapevolezza di aver rovinato ogni cosa.
🌟🌟🌟
Eccomi qui con questo penultimo capitolo!
So che molte di voi mi staranno odiando per ciò che ho fatto succedere, ma sono comunque curiosa di sapere cosa ne pensate.
Willow avrà davvero rovinato tutto?
O i due riusciranno lo stesso a mantenere la loro relazione anche da quella distanza?
E pensare che sarebbero bastati solo due minuti per far sì che lui restasse e loro potessero vivere felici e contenti.
Ma le cose, quasi sempre, vanno nel verso opposto. Voi che dite, questa sarà la fine dei Willshton?
Per scoprirlo non dovrete far altro che continuare a leggere.
Lasciate una stellina nel caso il capitolo dovesse esservi piaciuto e non dimenticatevi di commentare facendomi sapere cosa ne pensate.
Per qualsiasi cosa non esitate a scrivermi.
Seguitemi su Instagram: _madgeneration_ se non volete perdervi nessuna novità.
XOXO, Allison 💕
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