Capitolo Sedici - Coco sotto alla Tour Eiffel

«Dovevi venire anche tu, te l'avevo detto» dissi, avvicinandomi al cellulare che Brandi teneva tra le mani.

«Credi che non avrei preferito essere lì con voi in questo momento? Invece che qui in aeroporto, a litigare con quei pazzi che vogliono portare valigie da quaranta chili sull'aereo» rispose Cara, dall'altro capo del telefono, la voce un po' disturbata per via della connessione.

Io e Brandi avevamo deciso di attaccare i nostri giorni di riposo settimanali, così da ricavarci un weekend per starcene in santa pace in una città che entrambe amavamo: Parigi.

Così facendo avremmo dovuto lavorare per due settimane consecutive senza riposo, ma ne sarebbe valsa la pena. Dopo aver ricevuto l'okay da parte di Lacy, non ci avevamo pensato due volte a preparare i bagagli e saltare sul primo volo per la città dell'amore.

In quel momento, ci trovavamo sedute al tavolino di un grazioso bar, che affacciava sulla riva sinistra della Senna. Avevamo affittato un piccolo appartamento a Montmartre, volendo vivere appieno la città e la vita francese. Ma, come già sapete, come cuoca ero pessima e Brandi mi seguiva a ruota, perciò ci sarebbe toccato mangiare fuori per tutti e tre quei giorni.

Che sfiga eh...

«Purtroppo Simon non poteva assentarsi dal lavoro, non potevo di certo lasciare Mathilde a casa da sola» aggiunse. Notai come ogni volta che pronunciasse il nome della sua bambina la sua voce si riempisse di gioia.

«Tesoro, lo sappiamo, non preoccuparti. Ti porteremo qualcosa» le rispose Brandi, smettendo per un attimo di abbuffarsi con la sua crêpes al cioccolato e fragole.

«Devo tornare al lavoro. Fate le brave» ci raccomandò, salutandoci e terminando quella telefonata. La mia migliore amica ritirò maldestramente il suo cellulare nella piccola pochette griffata e poi tornò a mangiare la sua colazione.

Sorseggiai il cappuccino, godendomi la vista dei raggi solari che riflettevano nell'acqua di quel fiume. Osservai le persone che passeggiavano sul ponte, intente a raggiungere l'altra riva e poi mi concentrai sull'edificio che si trovava proprio di fronte a noi.

Il Musée d'Orsay si ergeva in tutto il suo splendore, con i suoi muri in pietra bianca e quell'orologio gigante che faceva da finestra, per i visitatori, alla città sottostante.

Sia io che Brandi eravamo già state a Parigi e avevamo avuto la possibilità di visitarla in gran parte. Ma di comune accordo, essendo entrambe appassionate d'arte e della storia di quella città, avevamo deciso di andare a vedere nuovamente i musei e i monumenti più importanti.

Alternare un po' di shopping sfrenato con un po' di sana cultura ci era sembrato il compromesso perfetto per un weekend di svago dalla nostra vita di tutti i giorni.

Le regole erano poche e semplici: era vietato parlare di lavoro, di ex -questo punto l'aveva fortemente voluto Brandi e ho proprio il sospetto che si riferisse a me e Harold- e di problemi vari.

Quello che si doveva fare era: divertirsi, mangiare qualsiasi tipo di ottimo cibo che ci capitasse sott'occhio e trovare gli uomini più sexy di tutta Parigi -anche quest'ultima era stata un'idea di Brandi-.

«Cosa vuoi fare dopo aver visitato il museo?» mi domandò la mia migliore amica, che nel frattempo aveva terminato la sua colazione.

«Pensavo che potremmo prendere qualcosa in una panetteria e andare a mangiarlo nel parco della Tour Eiffel» risposi, recuperando il mio portafogli e poggiando i soldi della colazione sopra il tavolo.

Brandi annuì, in accordo con il mio programma. Poi si alzò, mostrando in tutto il suo splendore le gambe lunghe, coperte da un pantalone di pelle marrone scuro.

«Guarda che il militare ti ha mandato un messaggino» mi avvertì poi, indicando con il mento il mio cellulare, che si trovava ancora poggiato sul tavolino.

Portai lo sguardo sullo schermo illuminato, controllando se avesse ragione, nonostante avesse tirato ad indovinare, perché da quella prospettiva non avrebbe mai potuto vedere il nome del contatto.

Ma aveva ragione.

Risi in modo ironico, prima di infilare il telefono nella borsetta e alzarmi. «Non è lui. Te l'avevo detto che non stavamo messaggiando» mentii, non volendo darle quell'ennesima soddisfazione sul nostro rapporto ancora fin troppo ambiguo.

Mi alzai dalla comoda sedia, iniziando a seguirla lungo quella larga via che costeggiava la Senna.

«Certo, come no» commentò semplicemente, facendo aleggiare una mano. Sorrisi, alzando gli occhi al cielo, perché già mi aspettavo che non mi avrebbe mai creduta.

Sapeva quando mentivo, perché ogni volta tendevo a mettermi sulla difensiva, parlando con quanta più ironia possibile.

Non ero riuscita a vedere cosa mi avesse scritto Ashton, ma ero curiosa di saperlo. Perciò decelerai di poco il mio passo, fingendo di sistemarmi il basco nero che tenevo sulla testa.

"Com'è Parigi?"

Inevitabilmente mi ritrovai ad aprire la bocca in un mezzo sorriso. Ormai erano passate due settimane dalla nostra cena di Natale e dal mio incontro -se così possiamo definirlo- con Harold.

In quei giorni io e Ashton ci eravamo scambiati parecchi messaggi, nulla di equivoco o spinto come ero solita fare con Harold. Ma solo delle innocenti chiacchierate per tenerci compagnia nei momenti di noia.

Nonostante ciò, quando ci incontravamo in aeroporto, tendevamo a comportarci nel modo più neutro possibile. Scambiandoci giusto un saluto di cortesia o qualche occhiata furtiva.

Non avevamo parlato riguardo l'evolversi del nostro rapporto, ma a quanto pareva entrambi eravamo giunti al tacito accordo di non voler attirare l'attenzione di nessuno. Perché non volevamo che qualcuno potesse ficcanasare in un'amicizia che stava nascendo. Entrambi eravamo già abbastanza incasinati con i sentimenti, non avevamo bisogno che qualcuno al di fuori ci mettesse pressione.

L'unica volta in cui ci eravamo sbilanciati un po' di più era stata quell'uscita nel tardo pomeriggio di un comune mercoledì.

Gli avevo promesso di offrigli un caffè, per ringraziarlo della compagnia e della cena cinese. E così, due ore prima che iniziasse il suo turno e quaranta minuti prima che io dovessi presentarmi al gate per salire su un aereo, che mi avrebbe portata a San Pietroburgo, ci eravamo ritrovati nella caffetteria dell'aeroporto.

Non il mio solito e Starbucks, ma una semplice caffetteria che si trovava nel terminal adibito ai voli nazionali. Dove quindi non c'era pericolo per me di incontrare nessuna delle mie college e per lui di incontrare Benjamin ed Edwin. 

Davanti ad un latte macchiato e un caffè shakerato, si era consumata la nostra prima, ufficiale e molto imbarazzate uscita a due.

Non era la prima volta che ci ritrovavamo soli, ma era la prima volta che lo facevamo intenzionalmente e non per circostanze di forza maggiore. Perciò fu abbastanza imbarazzante.

Si sarebbe benissimo potuta riassumente come una tipica uscita tra due sedicenni alle prime armi. Colma di silenzi, sguardi curiosi e domande scontate.

Quella volta non c'era il vino ad aiutarci e si vedeva.

Per come erano andate le cose avevo pensato che non ci saremmo più sentiti come prima, che a entrambi era sembrato che nemmeno un'amicizia normale sarebbe potuta funzionare tra noi.

Ma poi lui mi aveva inviato quel messaggio, ricordandosi di quando, tre giorni prima, seduti a quel tavolino in legno, gli avevo detto che sarei andata qualche giorno a Parigi assieme a Brandi.

«Ehi, bella addormentata, ti sei scordata come si cammina?» la voce della mia amica mi arrivò dritta alle orecchie, facendomi tornare nel mondo reale. Ritirai nuovamente il telefono nella pochette e scossi la testa, ancora determinata a non dirle nulla.

Senza nemmeno che me ne rendessi conto, Brandi era andata parecchio avanti rispetto a me, che mi ero fermata a ricordare quanto successo nelle settimane precedenti. Perciò feci una piccola corsetta, raggiungendola e prendendola sotto braccio.

Camminammo così, come una coppia felice, fino a raggiungere l'altra sponda della Senna.

ꨄꨄꨄ

«Oh mio Dio, lo so che è solo una baguette ripiena, ma... oh mio Dio» commentò Brandi, prendendo l'ennesimo morso da quell'enorme panino.

Eravamo state dentro al Musée d'Orsay per ben due ore, ammirando quelle stupende opere realizzate dai più famosi pittori impressionisti. E ne eravamo uscite affamate e con la sola voglia di trovare una panchina dove sederci.

Quindi, come avevo precedentemente proposto, ci eravamo prese una baguette in una panetteria tipica ed eravamo andate a mangiarla vicino alla Tour Eiffel.

O almeno, era andata più o meno così. Perché, uscendo da quel museo e avviandoci verso la nostra prossima destinazione, eravamo passate davanti al negozio di Chanel.

Io non avevo resistito, non dopo aver visto quella borsa stupenda in vetrina. Brandi si era rifiutata di entrare, dicendo che se non avesse mangiato subito qualcosa e fosse svenuta ce l'avrei avuta per sempre sulla coscienza.

Così eravamo arrivate ad una specie di ennesimo compromesso. Io ero entrata in quel negozio e lei si era portata avanti, andando a prendere il pranzo.

Ero arrivata da pochi secondi in quel parco, con tre grossi sacchetti neri e marchiati Chanel tra le mani. Farmela a piedi era stato più faticoso del previsto, tra i tacchi alti, il peso di quegli acquisti e il senso di colpa per aver completamente prosciugato una delle mie carte di credito.

«Scherzi?! Ma quante cose hai comprato? Hai detto che volevi solo la borsa in vetrina» Brandi aveva alzato gli occhi dalla sua baguette e li aveva posati su di me.

«Sì... ma poi ho visto un tailleur stupendo e delle scarpe bellissime...» cercai di dare una giustificazione alle mie spese folli, mentre Brandi mi fissava sbigottita, cercando ancora di fare il calcolo di quanto avessi speso.

«Vedi perché non mi devi lasciare entrare nei negozi da sola, non sono capace a trattenermi. Prima non era un problema, prima c'era Harold, avevo la sua carta di credito a disposizione ogni qual volta volessi» dissi, iniziando a farmi prendere leggermente dal panico.

Io e Harold ci eravamo lasciati ufficialmente quella volta, non ci sarebbe stata una ricaduta, perché io non lo avevo più cercato, nemmeno dopo New York. E lui aveva iniziato a recuperare i rapporti con sua figlia, tornando alla sua vecchia vita costellata di amanti in ogni paese del mondo.

Ma io sarei stata davvero capace di stare senza di lui? In quegli anni mi ero abituata a contare sulla sua persona per qualsiasi situazione, sia emotiva che finanziaria.

Harold c'era sempre stato per me e, nonostante tutti i suoi difetti, era riuscito a rendermi felice sotto molti aspetti.

«No! Non ci pensare, non nominarlo nemmeno» mi rimproverò Brandi, prendendomi per un braccio e tirandomi a sedere accanto a lei, su quella panchina in legno scuro. «Hai un ottimo lavoro, sei una donna stupenda e non sarà una tragedia il fatto di non potersi comprare più un paio di costosissime scarpe a settimana» cercò di calmarmi, togliendomi quei sacchetti dalle mani e passandomi la mia baguette.

«Adesso dai un morso a questa e pensa solo al fatto di essere nella città dell'amore, dove tutto può succedere» continuò, poggiandomi una mano sulla spalla.

Presi un profondo respiro, chiudendo gli occhi per qualche secondo e concentrandomi poi solo sul paesaggio che mi circondava.

Il sole splendeva alto nel cielo e aiutava a rendere mite quella giornata di fine gennaio. Nel parco vi erano alcune persone che passeggiavano e altre che si allenavano. Notai dei turisti che fotografavano quello stupendo e imponente monumento.

E poi, il mio occhio cadde su un uomo. Alto, magro, con i capelli ricci, lunghi fino al mento. Degli occhiali dalla montatura scura erano poggiati sul suo naso dritto e un sorriso a trentadue denti era stampato sulla sua bocca.

Indossava un impermeabile nero e degli stivaletti del medesimo colore. Mentre una sciarpa chiara era poggiata attorno al collo, con le due estremità che scendevano lungo il petto.

Stava salutando con un cenno della mano nella nostra direzione.

Aggrottai le sopracciglia, non riuscendo a capire se stesse cercando di attirare l'attenzione di qualcuno o meno. Ma poi, notai Brandi accanto a me ricambiare quel saluto.

Mi voltai nella sua direzione, con la bocca semi aperta e gli occhi curiosi.

«Ti ho lasciata da sola per poco più di mezz'ora, che hai combinato?» le domandai divertita, mentre quell'uomo dall'aspetto elegante e intellettuale andava via.

«È l'addetto alla cassa della panetteria» rivelò lei. «Finiva il turno giusto dopo avermi servita, così siamo usciti da lì assieme ed è stato molto gentile a volermi accompagnare e tenermi compagnia fino al tuo arrivo» spiegò, colmando tutti i miei dubbi.

«Mi dici come fai? Riesci a rimorchiare anche quando vai a compare due panini» dissi, tra le nostre risate.

«Talento naturale» si lodò lei. «Comunque, studia storia dell'arte alla Sorbonne e mi ha lasciato il suo numero sullo scontrino. È così romantico» Brandi mi mostrò quel foglietto, sul quale erano state segnate delle cifre con un pennarello nero.

«È così da film smielato» commentai io, fingendomi disgustata. «Non è il tuo tipo. Insomma, non ha più di quarant'anni e quell'atteggiamento da uomo d'affari» constatai, sorpresa dalla sua scelta di voler flirtare con un ragazzo che sembrava gentile e anche un po' impacciato.

«Lo so, ma te l'ho detto, siamo nella città dell'amore. Se non vivi qui un'avventura da film romantico, dove mai potresti farlo?» rispose esaustivamente. E aveva ragione, Parigi era la città perfetta per ricominciare da zero con la propria vita sentimentale.

E forse avrei potuto farlo anche io, forse sarebbe stata la mia vera occasione per ricominciare. Magari proprio lì, proprio quella sera avrei trovato il mio nuovo amore.

«Dai, dammi il telefono» mi disse Brandi, nel momento in cui ci stavamo alzando da quella panchina, dopo aver terminato il nostro pranzo.

«Perché?» le chiesi confusa.

«Voglio farti una foto con i tuoi nuovi acquisti sotto alla Tour Eiffel. Almeno quando sarai completamente al verde e ti toccherà vivere negli alloggi dell'aeroporto, avrai un ricordo di quando potevi permetterti dei vestiti che non fossero di cinque stagioni passate» scherzò, prendendomi il cellulare dalle mani.

Le feci il dito medio, allontanandomi poi di qualche passo e mettendomi successivamente in posa sotto a quello stupendo monumento simbolo della città.

Alzai una gamba, piegandola e rimanendo in equilibrio solo sul piede sinistro. Poi misi in mostra i sacchetti, piegando leggermente la testa in direzione della gamba e chiudendo gli occhi.

Brandi scattò quella foto. Vidi che armeggiò per qualche secondo con il mio telefono, ma non ci diedi molto peso, pensando che stesse controllando come fosse venuta quella fotografia.

Se solo avessi saputo che i suoi scopi finali non erano quelli di lasciare un ricordo ai posteri, ma di condividere quel momento con una terza persona al di fuori di noi due, sicuramente ci avrei pensato su due volte prima di accettare.

🌟🌟🌟

Eccomi con il nuovo capitolo!

Abbiamo un'altra giornata tutta Willow e Brandi. Le due amiche se ne sono andate a Parigi per un weekend di relax. Volevano staccare da tutto e da tutti e ci sono riuscite, più o meno.

Willow, dopo aver speso una fortuna da Chanel, si è fatta prendere da una piccola crisi di astinenza da Harold.
Ci ricadrà? Non ci ricadrà? Voi che dite?

Intanto però ha pensato un po' anche al nostro Ashton. A quanto pare i due stanno messaggiando parecchio e lei sembra essere alquanto interessata a portare la loro relazione su un altro livello.
Ma il punto è, anche Ashton è della stessa opinione?

E soprattutto, che cos'avrà architettato Brandi?
A chi avrà spedito quella foto e perché?

Lo scoprirete giovedì prossimo!

Lasciate una stellina nel caso il capitolo dovesse esservi piaciuto e non dimenticatevi di commentare facendomi sapere cosa ne pensate.
Per qualsiasi cosa non esitate a scrivermi.

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XOXO, Allison 💕

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