Capitolo Quindici - Mostri dal Passato
Ashton
Fissavo la data scritta sul calendario appeso in cucina, accanto al grosso frigorifero grigio.
Il primo gennaio.
Osservavo quel numero, stampato bello grande e colorato di rosso. Nella sua casellina non c'era scritto nulla, quell'anno era rimasta vuota.
Bianca e immacolata.
Il primo di gennaio era sempre stato un giorno felice per me. Perché quel giorno cadeva il compleanno di Kyle. Io e lui eravamo soliti passare quella giornata assieme, andando a giocare a basket e mangiando qualche schifezza, comprata al baracchino dietro al campo, seduti sul pontile del molo. Per poi ritrovarci la sera a cenare a casa sua, assieme alle nostre famiglie.
Una tradizione che avevamo cercato di mantenere sempre viva, anche dopo esserci arruolati. Anche nei campi base riuscivamo a recuperare un pallone da basket, fare due tiri e pranzare assieme guardando il panorama.
E nonostante fosse decisamente diverso da quel campo costruito apposta dietro le nostre case e dal bellissimo paesaggio che ci regalava la nostra città, ci accontentavamo lo stesso. Finché fossimo riusciti a festeggiare i nostri compleanni assieme, andava bene così.
Ma quell'anno sarebbe stato diverso.
Quell'anno Kyle non c'era più.
Non c'era niente da festeggiare, niente per cui essere contenti o grati.
In ogni caso, non volevo passare quel giorno standomene rinchiuso in camera mia, facendomi divorare dai miei sensi di colpa. Perché, sì, nella mia mente credevo ancora che fosse stata colpa mia. Che Kyle fosse morto per colpa mia.
Io ero il capo della squadra, io prendevo le decisioni e io avevo avventatamente deciso di scendere lì sotto, in quei tunnel, assieme ai miei compagni. Avevo creduto alle parole del generale e dato per scontato che il piano avrebbe funzionato a dovere.
Non avevo messo in conto il fatto di poter finire in una trappola. Nessuno sospettava che le nostre intenzioni potessero essere state scoperte, perciò, invece di scendere prima da solo a controllare la situazione, avevo deciso di farlo assieme alla squadra.
Mettendo tutti in pericolo e facendo morire Kyle.
Nella mia mente sapevo che ci sarei dovuto essere io al suo posto. E anche se tutti continuavano a ripetermi che non era stata colpa mia, che nessuno sospettava nulla e nessuno avrebbe potuto prevederlo, io non potevo fare altro se non vivere per sempre con quel peso sul cuore. Anche se probabilmente avevano ragione loro.
Volevo rendere onore a Kyle e provare a fare ciò che lui avrebbe voluto facessi in quel giorno speciale: comportarmi esattamente come se fossimo assieme.
Per questo avevo chiesto un giorno di riposo dal lavoro e mi trovavo già pronto, in cucina, con la palla arancione sotto braccio.
Non ero nella periferia di Calgary. Lì, nel centro di Vancouver, non avevo la fortuna di ritrovarmi un campo da basket dietro casa. Ma, fortunatamente, Benjamin mi aveva indicato un posto dove poter giocare e restare comunque all'aperto.
Edwin mi aveva lasciato la sua macchina e si era raccomandato di chiamarlo per qualsiasi cosa avessi avuto bisogno.
Recuperai un bottiglietta d'acqua dal frigorifero e misi a lavare i piatti che avevo usato per fare colazione. Una volta dopo aver recuperato le chiavi dell'auto, mi chiusi alle spalle la porta di casa, controllando di aver preso il mio cellulare e il portafogli.
Salii sul Range Rover nero di Edwin, beandomi dell'altezza di quella macchina. Odiavo guidare veicoli bassi o comunque piccoli. Data la mia statura, mi trovavo comodo solo sui suv e per mia fortuna, entrambi i miei amici ne possedevano uno.
Io non avevo un'auto, perché non mi era mai servita. Quando sei arruolato nell'esercito passi più di metà della tua vita in missione, in posti dove non hai tempo per andare a farti qualche bel giro turistico o altro.
E lì a Vancouver, con il traffico che c'era e tutte le zone in cui non si poteva entrare, se non solo con determinati tipi di veicoli, facevi sicuramente prima a muoverti con i mezzi pubblici -che comunque era una cosa che la città stessa incoraggiava, per preservare l'ambiente- o scroccare passaggi, come facevo io.
Una volta dopo aver impostato la destinazione sul navigatore, guidai per quelle larghe e trafficate strade per una ventina di minuti, ritrovandomi poi in una parte della città che non avevo mai visto prima di allora.
Mi trovavo a Kits Point, una specie di sporgenza che dava sull'oceano e vantava un grande parco e due spiagge. Parcheggiai la macchina e poi mi feci una bella camminata fino a Hidden Beach, un luogo che, come suggerisce già il nome, si trova nascosto dietro a una fitta boscaglia.
Percorsi il sentiero terroso, fino ad oltrepassare quegli alberi secolari, ritrovandomi su una spiaggia deserta. Davanti a me solo la grandezza dell'oceano, calmo e illuminato dal sole. Per un attimo pensai di essermi perso, poi dei rumori attirarono la mia attenzione.
Mi voltai verso il punto da dove provenivano quelle voci e notai uno spiazzo cementato, sul quale si trovava un piccolo chiosco, alcuni tavoli in legno e il tanto agognato campetto da basket.
Feci rimbalzare la palla su quel cemento grigio, sul quale era presente un po' di sabbia e un po' di crepe. Provai un tiro a canestro, mancandolo e correndo subito a recuperare la palla, prima che rotolasse e finisse fino dentro l'acqua.
Mi tirai il cappuccio della felpa nera fin sopra la testa, nel momento in cui si alzò un leggero venticello freddo. Continuai a giocare, non curandomi della temperatura o di quello che avevo intorno.
Feci alcuni palleggi e poi altrettanti tiri a canestro. Mi era sempre piaciuto giocare a Basket, sin da quando ero piccolo e mio padre mi aveva regalato la mia prima palla professionale. Dopo quel giorno andavo al campo e mi allenavo ogni giorno.
Alle superiori ero poi entrato a far parte della squadra della scuola, diventando presto capitano. Ero parecchio bravo, aiutato un po' dalla mia altezza e un po' dalla mia passione verso quello sport. E probabilmente, se mio padre fosse ritornato a casa dopo quella missione in Egitto, io avrei accettato quella borsa di studio per la Penn State e sarei finito a giocare a basket a livello professionale.
Magari in quel momento, invece di trovarmi in un campetto malmesso sulla riva dell'oceano, mi sarei potuto trovare in un campo professionale, intento ad allenarmi per la prossima partita in NBA.
Invece le cose, come ben sapete, sono andate in modo totalmente diverso.
Era passata più di un'ora da quando avevo iniziato a giocare. Un'ora intensa, costellata da ricordi della mia adolescenza, di quando io e Kyle camminavano per i corridoi della scuola, o di quando ci facevamo da spalla per provare a conquistare qualche ragazza.
Non avevo brutte memorie di quei tempi, erano stati tutti giorni felici. Passati assieme a una famiglia fantastica e un migliore amico che era sempre presente, pronto ad aiutarmi e sostenermi.
Ero stato un ragazzo felice e spensierato, mi consideravo uno di quelli fortunati, che bene o male avevano tutto, uno di quelli che non poteva lamentarsi.
Incredibile come siano cambiate le cose dopo la morte di mio padre e la mia decisione di arruolarmi.
Non mi pentivo di essere entrato nell'esercito, ero fiero del mio lavoro, fiero di servire il mio paese e di aiutare a migliorare qualcosa nel mondo, anche se nel mio piccolo. Ma non potevo dire di essere più quel ragazzo felice e spensierato di un tempo.
Ormai ero un uomo.
Un uomo che aveva visto e vissuto fin troppo in quei paesi di guerra, per poter guardare al mondo in quel modo così ingenuo e speranzoso. Troppo provato da quelle esperienze per potermi permettere di affezionarmi a qualcuno, senza prima pensare ad un milione di possibili tragici scenari.
Il mio psicanalista diceva che il mio carattere scontroso era solo un mezzo di difesa, ma non nei miei confronti, perché io non avevo paura di essere ferito, io avevo paura di far male agli altri. Per questo facevo di tutto per allontanare chiunque di nuovo volesse entrare nella mia vita. Senza rendermi conto che, così facendo, facevo soffrire sia me che gli altri.
Non mi ero mai soffermato a pensare su questo punto, avevo sempre dato per scontato che lui avesse ragione. Insomma, era il suo lavoro.
La prima volta in cui mi erano tornate in mente quelle parole, era stato quella sera sulla spiaggia, assieme a Willow.
Perché io l'avevo ricambiato quel bacio.
Inconsciamente avevo ricambiato quel semplice e puro gesto, staccando la mente per un attimo e allontanandomi da tutti i miei timori. Ma poi, essi erano ritornati tutti in una volta, colpendomi come un pugno sul naso e facendomi, con mio rammarico, rinsavire.
Quella notte avevo fatto esattamente ciò che il mio psicanalista diceva. Ero scappato per evitare di ferirla, senza rendermi conto che, con quel mio gesto, l'avevo forse ferita di più e di rimando avevo colpito anche me stesso.
Quella ragazza era entrata nella mia vita con la stessa potenza di un uragano, basti pensare al nostro primo incontro. Se non fosse stato per via del nostro lavoro, probabilmente non ci saremmo mai conosciuti meglio e io sarei rimasto della mia idea. Ovvero, che fosse solo un'assistente di volo svampita e po' troppo sfacciata.
E invece avevo imparato a scoprire che era molto di più. Nel suo essere caotica e incasinata, risultava divertente, una persona piacevole con cui passare il tempo. Non sapevo mai cos'aspettarmi da lei, faceva battute, mi prendeva anche in giro con quel modo velato di dirmi le cose e quell'espressione furba. E poi magari era in grado di notare quando io mi sentissi a disagio e proprio nel momento in cui ero pronto all'ennesima frecciatina, lei se ne stava zitta e cercava di capire cosa mi passasse per la testa.
Non avrei mai immaginato di passare il Natale con lei e non avrei mai immaginato che mi sarebbe piaciuto.
Ero estremamente in imbarazzo a sapere di dovermi presentare a casa sua dopo quanto successo all'evento di beneficienza. Perciò all'inizio avevo cercato di restare il più distaccato possibile, nascondendo ogni mia emozione.
Ma poi lei aveva tirato fuori il vino e come la volta precedente, grazie a quel piccolo aiuto, ero riuscito a sciogliermi un po'. Diciamo anche troppo per le mie abitudini, ma nonostante questo, non mi ero mai sentito a disagio.
Erano anni ormai che non avevo più un rapporto del genere con una donna. Quando ti arruoli non hai tempo per pensare alla tua vita sentimentale. In missione, in quei paesi lacerati dalla guerra, è l'ultima cosa che ti passa per la testa. A meno che tu non abbia già qualcuno che ti aspetta a casa, qualcuno che ami davvero.
Quando ero arrivato a Vancouver, non ero proprio in vena di occuparmi della mia vita sentimentale. Ero già abbastanza distrutto, emotivamente parlando, e non potevo permettermi di esporre quel mio lato più fragile. Il mio primo e unico vero crollo psicologico mi era bastato. Era un'esperienza che non avrei mai più voluto provare nella vita.
Ma con Wllow era stato diverso. Forse perché non si era presentata con l'intenzione di conquistarmi, anzi, aveva fatto tutto l'opposto. Attraendomi verso di lei, con quei suoi modi di fare distaccati ma curiosi nei miei confronti.
Tutto questo per dire che io non ero bravo con i sentimenti, non ero bravo a gestire le mie emozioni, figuriamoci quelle degli altri, ma ero quasi sicuro che lei mi piacesse.
Era un po' come Edwin, sapeva farmi ridere e quando passavamo del tempo assieme mi alleggeriva le giornate. E io avevo bisogno esattamente di quel tipo di persone accanto.
Avevo bisogno di chi, come Benjamin, sapeva prendermi, capirmi e farmi ragionare, perché aveva vissuto le mie stesse esperienze. E di chi, come Edwin e Willow, sapeva farmi divertire e calmarmi, senza che nemmeno me ne rendessi conto.
«Un hot dog e dei nachos, per favore» dopo aver giocato, mi era venuta fame e così avevo deciso di pranzare direttamente lì, senza andare a cercare altri posti. Avevo ordinato e poi ero andato a sedermi su un tronco posto vicino alla riva.
Iniziai a mangiare, con lo sguardo volto verso l'oceano e il suo orizzonte. Guardando quell'acqua limpida e quel cielo chiaro, mi sembrò, per un attimo, di essere tornato a Calgary, seduto su quel pontile, accanto a Kyle.
Mi sentivo bene, come se lui fosse lì con me.
Alla fine ero riuscito a rendergli onore, a passare quel giorno esattamente con lui avrebbe voluto. Ovunque fosse, sapevo che a modo suo cercava di starmi sempre accanto.
Quando parcheggiai la macchina nel vialetto, Benjamin era affacciato alla finestra del salotto, con un pacchetto di patatine in mano e sguardo indagatore.
«Bentornato, come stai?» mi domandò subito, non lasciandomi quasi nemmeno il tempo di entrare dalla porta di casa.
«Sto bene, è stata una bella giornata» risposi, era la verità e lui lo sapeva, perciò mi sorrise e tornò a sedersi sul divano in stoffa blu. «All'aeroporto invece?» domandai di rimando, mentre mi toglievo le scarpe da basket.
«Solito, nessun pazzo psicopatico nemmeno oggi» rispose, accendendo la televisione e poggiando i piedi sopra il tavolino da caffè. Annuii, dirigendomi poi verso le scale, volevo farmi una doccia e cambiarmi prima di cenare.
«Edwin, ti lascio le chiavi della macchina sul mobiletto nell'atrio» urlai, di modo che, in qualsiasi stanza si trovasse, potesse sentirmi. Salii velocemente quei gradini, entrando poi nella mia camera.
Riposi la palla dentro l'apposito mobiletto, mi diressi verso la cassettiera bianca e recuperai un paio di semplici pantaloni della tuta. Dopo aver preso anche una felpa dall'armadio a due ante, lanciai il cellulare sul letto sfatto e mi diressi vero il bagno.
Nell'esatto momento in cui la mia mano stava per poggiarsi sulla maniglia della porta, una vibrazione mi costrinse a fermarmi. Doveva essermi arrivata una notifica e curioso di sapere chi o cosa fosse, tornai indietro.
Mi sedetti sul letto alto e morbido, recuperando il telefono e toccando lo schermo per farlo illuminare.
Era un messaggio.
Un messaggio da parte di Willow.
"Ciao, brontolone. Domani mattina torno da New York, te lo fai offrire un caffè per ringraziarti della cena fatta alla Vigilia?"
Da dopo quella serata passata assieme, ci eravamo scambiati i rispettivi numeri di cellulare e ci eravamo scritti qualche messaggio già il giorno seguente. Nulla di eclatante, Willow mi aveva ricordato di aver dimenticato il mio cappellino a casa sua e poi avevamo parlato un po' di cibo cinese e vino.
Davanti a quelle parole, senza nemmeno rendermene conto, mi ritrovai a sorridere come un ragazzino.
🌟🌟🌟
Eccomi con il nuovo capitolo!
Abbiamo un altro pov Ashton, dove ci racconta qualcosa di più sulla sua vita passata e sulla sua amicizia con Kyle.
Che ne pensate di questa sua parte più introspettiva e riflessiva?
In più ci dice anche un po' di quello che pensa a proposito di Willow.
Secondo voi sta iniziando a capire che chiudersi in se stesso non è la soluzione e che forse dovrebbe dare una possibilità ad un possibile rapporto con lei?
Queste sono solo supposizioni, per scoprire come andrà a finire non dovrete far altro che continuare a seguire la storia.
Lasciate una stellina nel caso il capitolo dovesse esservi piaciuto e non dimenticatevi di commentare facendomi sapere cosa ne pensate.
Per qualsiasi cosa non esitate a contattarmi.
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XOXO, Allison 💕
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