Capitolo Quattro - Una parola di troppo
Ashton
Dato che ero stato praticamente obbligato a prendere parte a quella serata, avevo deciso, per una volta, di provarci e non passare tutto il tempo a lamentarmi.
Già che dovevo farlo, tanto valeva farlo bene, no?
Avevo passato l'ultima mezz'ora del mio turno di lavoro a fissare insistentemente l'orologio digitale, posto sul mega schermo delle partenze.
Quel giorno era stato particolarmente noioso. Avevamo avuto poco da fare, meno persone da controllare.
Non che di solito quelle giornate lavorative fossero entusiasmanti o piene di impegni. Di certo non avevano niente a che vedere con quello che facevo prima.
Ma quando mi era arrivata la lettera di trasferimento, ero già consapevole del fatto che, in un aeroporto, non ci sarebbe stato da correre e faticare così come dove mi trovavo prima, in Iran.
Ogni volta che le persone mi chiedevano perché avessi deciso di diventare un militare, io non esitavo nemmeno un secondo nel rispondere.
Lo avevo fatto perché mio padre, prima di me, lo era, ed egli aveva perso la vita durante una missione in Egitto. Era stato il mio modo per non dimenticarlo mai. Lui era partito, lasciando me, mia madre e le mie due sorelle a casa. Sei mesi dopo ci erano venuti a comunicare la sua morte.
Non avevo potuto salutarlo, non avevo potuto dirgli quanto gli volessi bene e quanto fosse stato importante per me. Non ero riuscito nemmeno a vedere il corpo, perché di lui restava ben poco e non volevo che il mio ultimo ricordo suo fosse quello.
Avevo sempre frequentato quel mondo, un po' grazie a lui e un po' perché mi affascinava. L'adrenalina, il mettersi in gioco e la capacità di essere padroni di se stessi erano le cose che più mi avevano convinto, quando avevo deciso di intraprendere quella strada.
C'era stato solo un problema, la disciplina.
Un qualcosa che non avevo messo in conto e dalla quale mia madre mi aveva sempre messo in guardia. Non che fossi un ragazzo ribelle, ma mi piaceva vivere secondo le mie regole.
Amavo la mia libertà.
Diventando un vero e proprio militare ed entrando nell'Esercito Canadese, la mia vita era stata completamente messa in pausa.
Non vedevo mai la mia famiglia, non staccavo mai dal lavoro e non avevo più momenti solo per me e la mia vita privata.
Erano stati anni duri e bui, nei quali avevo dovuto affrontare situazioni dolorose, cariche di ingiustizie e violenza. Andare in missione nei paesi di guerra era un qualcosa che cambiava completamente tutto il tuo modo di vivere e di vedere ciò che ti circonda.
Non avevo più voglia di scherzare o di uscire con gli amici. Non riuscivo più a vedere il bello nelle cose, nulla mi entusiasmava. Lentamente stavo perdendo vitalità e diventando arido, come quelle terre cosparse di proiettili e sangue.
A seguito di quel tragico episodio, che aveva segnato per sempre la mia squadra e me in particolare, il Colonnello del mio plotone aveva deciso di farmi inviare quella lettera di trasferimento.
La mia fragilità emotiva e le mie paranoie del momento avevano determinato che la cosa migliore per tutti fosse quella di trasferirmi in un luogo più tranquillo.
In un primo momento non ero stato per nulla contento di ciò. Ma poi, in seguito a un crollo psicologico, avvenuto durante i miei primi giorni in città, mi ero reso conto di quanto avessi bisogno di staccare da quella vita e di cominciarne un'altra, che mi permettesse di ritrovare la serenità.
E quindi, eccoci di nuovo a quella sera.
La prima volta, dopo due mesi che mi trovavo a Vancouver, in cui uscissi con degli amici per svagarmi e comportarmi esattamente come chiunque altro avrebbe fatto.
«Ash, per oggi abbiamo finito, andiamo» la voce di Benjamin mi destò dai molteplici ricordi che attanagliavano la mia mente. Annuii nell'udire quelle parole e non me lo feci ripetere due volte prima di iniziare a seguire lui ed Edwin verso l'uscita.
Conoscevo Benjamin già da qualche anno, perché, per un certo periodo di tempo, si era ritrovato in Iran assieme a me. Solo che, a differenza mia, aveva chiesto lui il trasferimento. Perché era riuscito a rendersi conto da solo quando era avvenuto in lui il punto di rottura.
Quando avevo saputo che mi avrebbero mandato nella sicurezza dell'aeroporto di Vancouver, non avevo perso tempo e l'avevo subito contattato. Ero quindi andato a vivere assieme a lui, in quella villetta in periferia, una casa che già condivideva con Edwin.
Quest'ultimo era un ragazzo originario di Montreal, che era da poco tornato dalla Francia, dove aveva lavorato come addestratore dei cadetti in un collegio.
Una delle persone più gentili che avessi mai conosciuto. Non mi capacitavo di come potesse sempre regalarti un sorriso.
Vivere con lui mi faceva bene, una giusta dose di buon umore giornaliero era quello che mi serviva.
Circondarmi di persone positive era la cosa che più mi aiutava, ed era stato l'unico modo per non ricorrere agli psicofarmaci. Il mio psicanalista aveva accettato questo compromesso, solo perché aveva notato che la mia teoria, alla fine, si metteva anche in pratica e funzionava, in qualche modo che ancora nessuno dei due sapeva spiegarsi.
Comunque, non voglio deprimervi troppo con i miei problemi, non ancora perlomeno.
Un'oretta dopo ci ritrovavamo sulla macchina di Benjamin, diretti in quel tanto decantato bar.
Edwin era seduto dietro, assieme alla sua ragazza. Alta, bionda, capelli sulle spalle, occhi azzurri e un sorriso a trentadue denti stampato in volto sin dal momento in cui aveva messo piede dentro casa nostra.
Praticamente perfetta per lui e nessuno avrebbe potuto negarlo.
Nell'esatto momento in cui li avevo visti assieme, mi avevano ricordato Marshall e Lily di How I met your mother. Un amore puro, sincero, destinato a non finire mai.
Un tipo di amore a me totalmente sconosciuto.
«Tutto okay?» la domanda che Benjamin mi rivolse fu inaspettata, tanto da lasciarmi per un attimo spiazzato e senza una risposta pronta.
«Uhm... credo di sì» dissi infine, mentre osservavo, con un sopracciglio alzato, il profilo del suo viso tondo. Scostò per un attimo lo sguardo dalla strada e scrutò la mia espressione, per accertarsi che nessun cipiglio adornasse la mia fronte. Benjamin si preoccupava sempre fin troppo di come potessi sentirmi.
«Sembra carino da fuori» commentò Edwin, scendendo dall'auto e chiudendosi lo sportello alle spalle.
Feci spallucce, osservando il locale che si ergeva davanti ai miei occhi. Facciata in mattoni a vista rossi, due finestroni in stile inglese, con infissi neri, e una porta in legno dipinto. Aveva l'aria di essere quasi una casa.
Mettendo piede dentro quel posto si veniva subito investiti dalla stessa atmosfera inglese che la facciata già anticipava.
Luci soffuse, tavoli in legno sparsi nel centro e panche a decorare tutti i lati. Il bancone alto e lungo faceva da padrone in quella grossa sala. Dietro di esso si destreggiavano due barman. Sullo sfondo un'enorme credenza a vista, stracolma di alcolici di ogni tipo.
Vi erano due tavoli da biliardo, tre bersagli per le freccette e persino un piccolo palco per il karaoke.
Quel posto era colmo di gente, uomini in divisa da pilota si alternavano a quelli vestiti con dei jeans e una semplice felpa riportante il logo dell'università.
E la stessa cosa succedeva con le donne. Ma, tra tanta gente, i miei occhi riuscirono comunque a incrociarsi con quelli di Willow.
Due grosse iridi, verdi come gli smeraldi, si piantarono nelle mie scure. Un contrasto forte, esattamente come quelli che continuavamo ad avere a ogni incontro.
Persino i nostri occhi ci facevano vedere quante differenze c'erano tra noi due.
Cercai comunque di ignorarla. Come io non stavo simpatico a lei, lei non stava simpatica a me.
La serata scorreva tranquilla, io e i ragazzi ci eravamo ordinati da bere e stavamo parlando del più e del meno, non facendoci mancare qualche battuta e risata.
Mi sentivo, per la prima volta dopo tanto tempo, bene. Ed era una gran bella sensazione.
Tutto filava liscio, fino a quando Benjamin decise di offrire quel vassoio di shot a Willow e le sue amiche. Da quel momento, dopo l'ennesima occhiata scambiata con quella ragazza, le cose andarono totalmente fuori dai piani prefissati.
Si erano scolate quei bicchierini nel giro di pochi minuti e il fatto che nessuna di loro fosse più in pieno possesso delle loro facoltà mentali era ormai chiaro a chiunque.
Osservai come ridevano, divertite dal nulla totale e ricordo che pensai quanto sarebbe stato bello poter tornare a lasciarsi andare in quel modo. Passare una serata in compagnia senza pensare a niente, senza brutti ricordi, semplicemente ubriaco e felice.
All'alba delle due e quaranta di mattina, dopo tre bicchieri di whiskey e fin troppo tempo passato seduto su quella panca, decisi che era arrivato il momento di uscire a prendere una boccata d'aria.
Quando misi piede fuori dalla soglia della porta, venni subito investito da un'arietta gelida, che mi colpì il viso e mi provocò un brivido lungo tutto il corpo.
Chiusi la cerniera della mia giacca, avendo l'accortezza di tirarla fino in cima. Mi poggiai con la schiena alla parete in mattoni e osservai il paesaggio circostante.
Uno stradone trafficato divideva quel locale da un parco con qualche scivolo e due altalene. Su entrambi i marciapiedi erano posti dei lampioni alti, che illuminavano il passaggio alle persone che camminavano nelle varie direzioni.
Vancouver era una gran bella città, in cui si poteva girare tranquilli a qualsiasi ora del giorno e della notte. Un luogo pieno di vita e opportunità, tutto da scoprire e più ci vivevo, più mi convincevo che quel trasferimento fosse stata la cosa migliore che potesse accadermi.
Mi godetti quella sensazione di tranquillità, che lentamente si stava infondendo nel mio corpo. Una sensazione che durò ben poco, perché una figura, ormai fin troppo nota, attirò la mia attenzione.
Willow era appena uscita da quel locale, sbattendo la porta e rischiando di inciampare nei suoi stessi piedi.
Vestita solo di quella divisa da assistente di volo, decisamente leggera per la temperatura esterna, ma lei era troppo ubriaca per rendersene conto. Con lo sguardo vacuo cercava di capire cosa dovesse fare, sembrava spaesata, come se si fosse persa.
Non mi aveva nemmeno visto, perciò utilizzai quel tempo per osservarla. I capelli castani erano sciolti e le ricadevano morbidamente sulle spalle, incorniciandole il volto dai lineamenti dolci e arrotondati. Il fisico slanciato, aiutato anche dalla sua altezza, risaltava sotto quella camicetta attillata e le sue gambe venivano rese ancora più lunghe dalla gonna a tubino.
«Tu!» quell'esclamazione mi riportò alla realtà. Willow mi stava indicando con il braccio teso e un'espressione divertita. «Tu, mi devi ancora un cappuccino e una nuova uniforme» mi disse, avvicinandosi, con passo alquanto insicuro e barcollante.
«Saresti più carino se ogni tanto ti sforzassi di sorridere» commentò poi, a pochi centimetri da me, mentre il suo dito sottile toccava la punta del mio naso. Un contatto completamente inaspettato e che mi lasciò alquanto sorpreso.
«Dove sono le tue amiche? Non dovresti stare qui fuori, da sola e al freddo» l'ammonii, preoccupandomi per lei, perché infondo era pur sempre una persona e sapere che potesse andarsene in giro, in quelle condizioni, era una cosa che non mi piaceva.
«Ma io non sono da sola. Sono qui con te» l'espressione imbronciata la faceva sembrare una bambina e il colpo di singhiozzo che spezzò la sua voce la fece scoppiare a ridere. Scossi la testa e alzai gli occhi al cielo.
«Forza, torna dentro e fatti portare a casa» le indicai la porta con il mento.
«Non posso, credo che Brandi sia andata via» una smorfia corrucciò il suo viso e un brivido scosse tutto il suo corpo.
«Oh, Gesù» sbuffai frustrato, togliendomi prontamente la giacca. Quella ragazza mi stava facendo impazzire, sembrava quasi farlo apposta, come se infastidirmi e farmi innervosire la divertisse. Le poggiai quell'indumento sulle spalle, sorridendo impercettibilmente, nel notare quanto le stesse largo.
«Visto? Non è difficile. Ora sì che sembri normale» quel commento, rivolto al mio gesto gentile e al mio conseguente sorriso, mi colpì dritto allo stomaco.
Avere l'ennesima conferma di non riuscire ad apparire sereno e disinvolto come gli altri e risultare come un completo estraneo alla vita e ai comportamenti conosciuti, mi lasciò un senso di vuoto nel cuore.
Sapevo quali fossero i miei problemi e sapevo anche da dove erano scaturiti, ma sentirmelo dire, in quel modo totalmente innocente, mi aveva fatto male. Nonostante fossi consapevole del fatto che, Willow, non aveva detto quella frase per ferirmi, non riuscivo lo stesso a scrollarmi quella brutta sensazione di dosso.
«Mi piacciono questi anelli» la sua voce squillante non mi permise di perdermi nei meandri oscuri della mia mente. La mano di quella ragazza aveva appena preso la mia e i suoi occhi osservavano curiosi ogni dettaglio.
Mi beai, per pochi secondi, di quel tocco delicato e disinteressato, di quelle dita curate e dalla pelle morbida. E mentre i suoi polpastrelli sfioravano il dorso della mia mano, i suoi occhi si piantarono nei miei, assottigliati e con sguardo indagatore.
Ero pronto a interrompere entrambi i contatti, sentendomi fin troppo esposto e scomodo in quella situazione, ma prima che potessi fare qualunque cosa, un altro colpo di singhiozzo lasciò la sua bocca.
Willow aveva appena chinato il capo e mi stava vomitando sulle scarpe.
***
«E a quel punto ho deciso di chiamare un taxi e portarti a casa» avevo appena finito di raccontare a Willow il perché mi trovassi nel salotto di casa sua e lei sembrava alquanto sorpresa e imbarazzata.
«Merda... mi spiace per le tue scarpe» mi disse, le gote rosse e le labbra arricciate.
«Tranquilla, ti manderò il conto della tintoria» l'avvertii scherzosamente, mentre si alzava e andava verso la cucina.
Aveva una bella casa. Un appartamento in stile loft, dagli arredi un po' industriali e un po' vintage. Il salotto era dominato da un caminetto a gas, sopra il quale era stata posta una grossa televisione. Il divano ad L, sul quale ero stato seduto sino a quel momento, era coperto da una stoffa grigia a fantasia e qualche cuscino.
Sul tavolino da caffè, in vetro, si trovavano alcune candele e tre piccoli cactus. Tutta la stanza era illuminata da grosse finestre rettangolari, che donavano una vista splendida sulla città.
Prima di poter osservare altro, mi ritrovai a spostare la mia attenzione sulla porta d'ingresso, nel momento in cui udii delle chiavi infilarsi nella toppa. La maniglia si abbassò e un uomo, alto, vestito con un completo elegante e con i capelli biondi, perfettamente pettinati, fece il suo ingresso in quella casa.
Willow tornò immediatamente nel salotto e i suoi occhi spalancati mi fecero intuire che fosse sorpresa tanto quanto me nel vederlo.
«Harold, cosa diamine ci fai qui?!» gli domandò, con un sopracciglio alzato e lo sguardo severo.
E io mi sentii fuori luogo come mai prima.
🌟🌟🌟
Eccomi qui con un nuovo capitolo!
Questa volta abbiamo un punto di vista tutto da parte di Ashton.
Che ne pensate? Vi piace questo suo lato un po' più introspettivo?
Scopriamo qualcosina sul suo passato, il perché ha scelto di diventare militare.
Cosa sarà accaduto di così terribile in Iran?
Ovviamente Willow non si è fatta mancare qualche bella figuraccia. Ma noi la amiamo anche per questo, giusto?
Harold invece sembra aver rovinato un raro momento in cui Ash e Will non stavano litigando. Cosa sarà andato a fare a casa della nostra protagonista?
Lasciate una stellina nel caso il capitolo dovesse esservi piaciuto e non dimenticatevi di commentare facendomi sapere cosa ne pensate.
Per qualsiasi cosa non esitate a contattarmi.
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XOXO, Allison 💕
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