Capitolo Cinque - Non ho più l'età

«Prima di tutto, perché hai ancora le chiavi di casa mia? E poi, cosa cavolo ci fai qui? Pensavo di essere stata chiara con te, non voglio più vederti»

Ero davvero arrabbiata in quel momento. Ritrovarmi Harold che entrava nel mio appartamento, come se nulla fosse, dopo quello che era accaduto a Shanghai, mi aveva fatto ribollire il sangue nelle vene.

E soprattutto, in tutti i momenti in cui poteva decidere di presentarsi lì, lui aveva scelto quello, proprio quando Ashton campeggiava nel mio salotto.

Se prima ero imbarazzata per quanto quest'ultimo mi aveva raccontato sulla sera precedente, in quel momento avrei voluto proprio scomparire nel nulla.

Non che mi importasse quello che potesse pensare Ashton, ma, cavolo, ero passata per quel tipo di persona che non sapeva nemmeno chi andava e veniva da casa sua.

Fortunatamente Ashton aveva capito da solo che la cosa migliore da fare era andarsene. E così, con un: "Ehm, io devo proprio scappare ora" si era congedato, lasciandoci soli.

«Sono due giorni che non rispondi al telefono, non ti ho più visto all'aeroporto e mi sono preoccupato» si giustificò lui, alzando le mani. «Ho pensato che ti fosse successo qualcosa. E siccome ho ancora le chiavi del tuo appartamento, ho deciso di passare a controllare che andasse tutto bene. Ma da quel che ho visto eri già in buona compagnia» concluse quel discorso usando un tono e un'espressione infastidita.

«Sì, non mi hai più visto e sentito perché stavo cercando di evitarti. E non ci provare a rigirare le cose o farmi scenate di gelosia, non dopo quello che mi hai tenuto nascosto!» esclamai, passandomi nervosamente una mano tra i capelli.

Il cuore mi batteva a mille nel ripensare a quanto accaduto due giorni prima. Avevamo passato un ottimo soggiorno in quell'hotel di lusso, tra bagni caldi, nella vasca con vista sulla città e colazioni in camera.

Avevamo fatto del sesso fantastico, come se fosse la prima volta, percependo ogni sensazione fino in fondo. Mi aveva portata a fare shopping nei negozi dell'alta moda e a cena in un posto tipico.

E io giuro che avrei voluto parlargli di noi, mettere in chiaro le cose ed evitare fraintendimenti, ma ogni volta che provavo a intavolare quel tipo di conversazione lui sviava con qualche scusa. E mi sembrava brutto insistere dopo tutti i soldi che aveva speso per viziarmi.

«Willow, se solo mi lasciassi spiegare, sono sicuro che capiresti» provò a persuadermi, sbattendo le palpebre e guardandomi con gli occhi dispiaciuti. Ma quella volta non mi lasciai abbindolare.

«Non c'è niente da spiegare o da capire. Harold, tu hai una figlia, cazzo!» il mio tono di voce era ormai decisamente alto, continuavo a ripetermi mentalmente di stare calma, ma avevo un dannato bisogno di sfogarmi.

Avrei voluto farlo con Brandi, davanti a un bicchiere di vino e un'enorme scodella di gelato, ma, dapprima Ashton e poi Harold, avevano rovinato i miei piani per quella giornata.

Le cose erano andate così, sul volo di ritorno, mentre aspettavamo che i passeggeri si imbarcassero, Harold aveva colto quell'occasione per fare una capatina in bagno, e io chiacchieravo con il copilota per far passare il tempo.

Ormai non ero più abituata a prendere un aereo per scopi miei personali e non per lavoro.

Ad un certo punto, il telefono di Harold aveva preso a squillare all'impazzata, costringendomi a recuperarlo per cercare di togliere la suoneria. Ma poi, la sua voce, che attraversò la porta del bagno, mi disse di rispondere e avvisare, chiunque fosse, che stava lavorando.

E così feci.
Lessi il nome sullo schermo: Althea.
Aggrottai la fronte e poi decisi di rispondere a quella chiamata.

«Pronto?» avevo detto semplicemente, curiosa di sapere chi fosse quella ragazza, o quella donna.

«Chi parla?» il tono sorpreso, di quella voce giovane e dall'accento straniero, mi aveva lasciata un po' confusa.

«Sono Willow -mi fermai un attimo, non sapendo come poter presentarmi- una collega di Harold» avevo optato per quell'opzione, la più semplice e veloce.

«Ah, posso parlare con mio padre? O anche questa volta è impegnato a sbattersi una delle sue sgualdrine?» a quelle parole per poco non mi cadde il telefono dalle mani. Avevo spalancato la bocca, incapace di rispondere.

Harold, nel mentre, era appena uscito dal bagno e aveva fatto capolino nella cabina di pilotaggio. Nel vedermi con quell'espressione si era accigliato, chiedendomi subito cosa fosse successo.

«C'è tua figlia che vuole parlarti» gli avevo detto, sbattendogli il telefono sul petto e andandomene lungo il corridoio dell'aereo.

Lui, dopo un: «Ti avevo detto che ti avrei chiamato io, lo sai che sono al lavoro!» aveva chiuso la chiamata e mi aveva prontamente rincorso.

E così, avevamo passato tutto il viaggio a litigare, chiusi nella cabina di comando, con il povero copilota che, oltre a dover occuparsi da solo del velivolo, aveva anche dovuto sorbirsi le nostre urla.

«Avere una figlia non è un piccolo segreto che si può tenere anche per sé. È una cosa importante e che uno non può omettere di dire!» ribadii quel concetto, avvicinandomi a lui e puntandogli un dito contro il petto.

Non potevo credere di ritrovarmi ancora a parlare di quell'argomento.

«Lo so, ho sbagliato, ma lei abita a Rotterdam e non la vedo praticamente mai. Perciò ho pensato che non fosse rilevante, non dopo che ci eravamo lasciati» le sue parole non fecero altro che aumentare la mia rabbia.

«Oddio, non puoi essere serio!» esclamai frustrata. «Ascoltami bene, io non ho più l'età per fare queste cose. Sono troppo grande per uno sugar daddy, che mi tratta come una principessa e poi però conduce la sua vita in modo autonomo. E sono troppo giovane per fare la parte della matrigna cattiva» dissi chiaramente.

Harold scrollò le spalle, passandosi una mano sul viso e sospirando pesantemente. Si vedeva quanto fosse dispiaciuto e turbato da quella situazione, ma non potevo lasciarmi sopraffare dall'empatia.

Quel giorno era vestito particolarmente elegante, i pantaloni gli calzavano a pennello e la giacca faceva risaltare i suoi bicipiti allenati. Non sapevo perché si fosse vestito così, ma ero certa del fatto che in quei panni risultasse davvero sexy.

Gli occhi azzurri, chiari come il ghiaccio, vagavano continuamente sulla mia figura, scurando la mia espressione e cercando di trovare un segno di perdono.

Si morse il labbro inferiore, quel giorno particolarmente carnoso e poi mosse qualche passo verso di me.

«Willow... cosa posso fare per farmi perdonare?» mi domandò, sovrastandomi con la sua altezza, mentre cercava un qualsiasi contatto fisico.

Un contatto che gli negai, allontanandomi velocemente. Sapevo che se fosse riuscito ad afferrarmi le mani o il viso, tutta la mia buona volontà sarebbe andata a quel paese.

«Non lo so, credo di aver bisogno di tempo e poi si vedrà» risposi semplicemente, abbassando lo sguardo.

«Okay» ed ecco, di nuovo, quella semplice parola di consenso. La stessa che mi aveva portata a mettermi in quella scomoda situazione partendo per Shanghai.

Harold mi porse quel piccolo mazzo di chiavi, lasciandolo direttamente sul palmo della mia mano. E io decisi di togliermi quella collanina di perle e restituirgliela, per la seconda volta.

So che quel gesto gli fece male, lo so perché i suoi occhi, solitamente vispi e abbaglianti, si spensero per qualche secondo. Lo vidi da come afferrò quella collana e da come la strinse nella sua grossa mano curata.

«Io ti aspetto» mi disse infine, prima di voltarsi e uscire dalla porta di casa mia.

Presi un lungo respiro, chiudendo gli occhi ed emettendo un gemito di frustrazione. Poi mi lasciai sopraffare da un impeto di rabbia e scagliai quel mazzo di chiavi contro la parete del salotto, mancando di poco lo schermo della televisione.

Decisi, dopo essermi vista nello specchio decorativo, che se ne stava appeso davanti a me, che avevo dannatamente bisogno di una doccia e di una sistemata.

Avevo delle occhiaie da far invidia agli zombie del video di Thriller e i capelli tutti arruffati, nemmeno fossi stava investita da un uragano.

Inoltre, indossavo ancora la divisa da assistente di volo, con tanto di calze rotte. E mi venne anche in mente che avevo dimenticato il mio baglio a mano al Roxy Bar.

Sì, perfetto. Un perfetto inizio di una tipica giornata di merda!

L'unica cosa che avrebbe potuto dare una svolta al mio cattivo umore sarebbe stata Brandi.

Così feci l'unica cosa che mi restava da fare: prendere un analgesico per il mal di testa e chiamarla per chiederle aiuto.

ꨄꨄꨄ

«Lui ha cosa?!» l'esclamazione della mia migliore amica attirò l'attenzione di quasi tutte le persone presenti in quel ristorante.

Mi misi una mano a coprirmi il volto, mentre portavo il calice alle labbra e buttavo giù tutto il vino bianco che conteneva.

«Non urlare, siamo in un posto di classe e sono quasi sicura che alle persone qui presenti non freghi niente della mia vita privata» la ripresi a denti stretti e con un tono di voce più basso del normale.

Brandi fece aleggiare una mano e con l'altra, che stringeva le bacchette, afferrò un hosomaki al salmone. «Tu sapevi della sua ex moglie» affermò, puntando quel roll nella mia direzione. Io annuii convinta. «Ma non sapevi che avesse avuto una figlia con lei» continuò, decidendosi finalmente a mangiare.

«Beh, è uno stronzo» concluse, facendo spallucce e versandomi dell'altro vino.

Lasciai che il mio sguardo si spostasse fuori dalla finestra, che adornava tutta la parete di quel ristorante. Osservai il panorama mozzafiato. Essendo un locale che si trovava direttamente sul porto, si poteva ammirare l'oceano e il bellissimo contrasto che creava con le montagne imponenti.

File e file di alberi possenti costeggiavano quelle rive opposte alla nostra e davano una sensazione di libertà. Le barche ormeggiate donavano quel giusto punto di civiltà, aiutate dai marinai che caricavano e scaricavano merci.

Il sole splendeva alto nel cielo azzurro e rifletteva la sua luce in quell'acqua cristallina, creando quasi un effetto accecante, se guardato direttamente.

«Io comunque sono contenta. Finalmente puoi staccare un attimo da quel belloccio olandese e buttarti su qualche nuova preda» la voce di Brandi mi costrinse a riportare lo sguardo su di lei.

Alzai gli occhi al cielo, perché già sapevo dove voleva andare a parare. E infatti, un secondo dopo, se ne uscì con la fatidica frase.

«Come ad esempio quel gran pezzo di manzo del militare» con le mie bacchette di legno mi portai un nighiri alla bocca e continuai a mangiare, ignorandola. Sperando che così avrebbe lasciato perdere.

Ma stiamo parlando di Brandi. La testarda e determinata Brandi Jones.

«Com'è che si chiama?» domandò, con fare teatrale, mentre attirava la mia attenzione schioccando le dita.

«Ashton» risposi semplicemente, senza nemmeno rendermene conto. Ovviamente era riuscita nel suo intento.

«Uhm, vedi, già state iniziando a conoscervi. Dopotutto, è stato un galantuomo a riportarti a casa, dopo che gli hai vomitato sulle scarpe» Brandi tirò nuovamente fuori quel discorso, facendomi emettere un verso di disappunto.

«Possiamo non parlare più di ieri sera, è stato davvero imbarazzante» dissi, tuffandomi poi nella scodella colma di riso bianco e gamberetti scottati.

La mia migliore amica sorseggiò un po' del suo vino, si specchiò nelle vetrate, controllando di non avere nulla fuori posto e si sistemò la frangetta.

«Che poi, c'è una cosa che ancora non mi è chiara» incalzò, pulendosi la bocca. «Perché dopo averti portata a casa non se n'è andato?» chiese, con un sopracciglio alzato e le labbra arricciate.

«Ha detto che, siccome non ero in grado di salire da sola fino a casa mia, ci ho messo un buona quantità di tempo per recuperare le chiavi e ho rischiato di inciampare e cadere per terra un paio di volte, ha preferito aspettare che mi addormentassi» le spiegai, riportandole ciò che Ashton mi aveva raccontato qualche ora prima.

«E poi, ha finito per addormentarsi anche lui sul mio divano» conclusi, mentre poggiavo le bacchette nel piatto e cercavo di sedermi meglio sulla sedia, di modo che i pantaloni non mi schiacciassero la pancia gonfia.

Avevo mangiato decisamente troppo.
Ogni volta che io e Brandi andavamo in un ristorante giapponese finiva sempre così, con la solita frase: "Non mangerò più sushi in vita mia".
E prontamente, la settimana dopo, tornavamo nello stesso posto, intente ad abbuffarci ancora.

«Sarà, io comunque rimango della mia idea: sarebbe una bella conquista. E poi chi lo sa, magari anche qualcosa di più» Brandi pronunciò quel discorso, prima di alzarsi dalla sedia e recuperare la sua borsetta.

«Ascoltami bene, io non conoscerò mai quel cafone, arrogante e tenebroso di Ashton Miller» enunciai convinta.

🌟🌟🌟

Eccomi qui con questo capitolo!

Abbiamo scoperto il motivo del litigio tra Harold e Willow.
Vi aspettavate che lui avesse una figlia e una moglie?

La reazione della nostra protagonista vi sembra ragionevole?
Voi avreste fatto peggio? O meglio?

Finalmente abbiamo anche un momento Brandi e Willow.

La sua migliore amica sembra felice della rottura tra i due e determinata a farle conoscere meglio Ashton.
Pensate che ci riuscirà?
E soprattutto, pensate che sia una buona idea?

Lasciate una stellina nel caso il capitolo dovesse esservi piaciuto e non dimenticatevi di commentare facendomi sapere cosa ne pensate.
Per qualsiasi cosa non esitate a scrivermi.

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XOXO, Allison 💕

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