CAPITOLO 86
Sanguinare
Jennifer
Non so quanto tempo sia passato, ma ancora nessuno dei due, si è accorto che ho le mani libere, anche se le mani continuano a tremarmi per il dolore e la pelle urlare per le abrasioni.
Continuano a restare in macchina senza fiatare, e come unico accompagnatore, il vento che soffia contro all'auto e le foglie che a volte sbattono contro la carrozzeria.
Cerco di controllare il mio istinto di aprire la portiera, anche perché Jonathan continua a girarsi, per guardarmi, per controllarmi con il suo sguardo invasivo.
Come si sentisse che in qualche modo, che sto per fregarlo, che sto pianificando qualcosa. E lui sta aspettando solo quello, per poter avere ancora il diritto di rimettermi le mani addosso, di farmi male.
Se potessi ucciderlo lo farei ora.
Una suoneria squillante riempie l'abitacolo, riempiendo l'abitacolo, e il mio cuore perde qualche battito colto dall'ansia e dalla paura.
Jonathan risponde, per poi girarsi a guardare fuori dal finestrino in modo furtivo, perché la parte più primitiva dentro di lui gli sta dicendo che tutto questo è sbagliato, e che presto qualcuno lo troverà.
«Sta arrivando?» chiede spazientito, e io trattengo il respiro, cercando di captare la voce del mittente, ma invano, è troppo lontana.
«Perfetto, noi lo stiamo aspettando» farfuglia, per poi girarsi a guardarmi, con un sorriso beffardo. Quanti vorrei tirargli un'altra testata.
No, no, no...Matthew sta venendo qui. Devo fare qualcosa. Devo inventarmi qualcosa, ma non so cosa, soprattutto in uno spazio così ristretto.
Jonathan prende qualcosa dal cruscotto che non riesco a vedere, per poi chiudere violentemente lo sportello, e poi velocemente esce dalla macchina.
«Tienila d'occhio, non deludermi un'altra volta» ordina con tono severo all'uomo tatuato, per poi chiudere la portiera con forza, facendo tremare l'intera vettura.
Devo trovare un modo per distrare e disarmare l'uomo, tutto questo in poco tempo. Allungo le mani sotto ai sedili anteriori e sospiro profondamente.
Deve esserci per forza qualcosa da usare come arma.
Eppure rimango delusa e mi graffio tutte le mani con la plastica dei sedili, trattenendo un'imprecazione. Dannazione!
Riprovo, questa volta nei sedili posteriori, infilando la mano in una piccola fessura che non avevo notato, e per poco non salto dalla felicità quando tocco del ferro. Lentamente, ma con una presa decisa tiro fuori l'oggetto, e solo con il tatto scopro che è uno svita bulloni a croce.
Lo conosco perché è stato mio padre ad insegnarmi a cambiare le ruote, proprio con uno simile. Tasto la superficie fredda e liscia, mentre nella mia mente preparo il piano, e più ci penso più mi sembra terribile e suicida. Però devo provarci.
Probabilmente sarà fallimentare come la mia fuga, ma se non ci provo, non me lo perdonerò mai.
Ignoro il pesante pensiero di uscirne ferita, e prendo un bel respiro. Ce la posso fare, devo andare a salvare Matt.
Sento l'uomo girarsi a guardarmi negli occhi, facendo dondolare la poltrona a fianco la mia faccia, controllando il mio respiro per poi tornare a guardare davanti a sé.
Lentamente e silenziosa in pochi secondi e senza farmi prendere dal panico, mi metto in ginocchio e appoggio la corda, che poco prima legava le mie mani, intorno al collo dell'uomo con la faccia tatuata, tirandola forte verso di me, così velocemente da non farlo reagire immediatamente.
Lui cerca di ribellarsi, di afferrare la corda che sta solcando il suo collo, ma io stringo di più la presa, tirando i lembi verso di me.
Riesco a sedermi sul sedile posteriore e per aumentare la presa, spingo i piedi legati contro al suo schienale, sentendo i suoi respiri mozzarsi.
«Hai una pistola?» gli chiedo con voce fin troppo acuta ed insicura.
«Lasciami stare stronza o giuro che te la faccio pagare», mormora ma le sue parole sono più dei rumori strozzati che parole di senso compiuto.
Guardo fuori dal finestrino, attenta che non ci sia Jonathan in giro, pronto a sopraffarmi.
Ma cogliendo il mio attimo di distrazione, cerca di afferrarmi le mani facendomi allentare la presa solo per qualche attimo , dandogli il tempo di conficcarmi nel sotto coscia destro un coltellino svizzero.
Urlo, mentre il dolore mi acceca e mi fa perdere la ragione per qualche istante. Ma non mi permetto di perdere il controllo e con le mie ultime forze aumento la presa, facendo uscire dalla sua bocca un altro verso strozzato.
«Ti ho chiesto se hai una pistola?!» richiedo irritata, rimanendo delusa appena lui scuote la testa.
Ormai arreso e senza fiato lascia la presa della corda e noto la sua testa spingersi il più possibile contro il poggia testa, alla ricerca di ossigeno.
Con una mano tengo i lembi della corda, mentre con l'altra afferro lo svita bulloni appoggiato sui sedili, dietro di me.
Ci penso qualche secondo, esitante, ma poi glielo tiro sulla testa, che immediatamente ricade contro il finestrino con un rumore sordo.
Non posso rischiare che ostacoli la mia fuga, sebbene quello che ho fatto mi fa sentire come abbassarsi al loro stesso livello.
La violenza non è mai la scelta giusta, ma questa è un'emergenza.
Mi assicuro che respiri e che ci sia ancora battito e poi slaccio la corda che ancora mi lega le caviglie.
Un altro urlo esce dalla mia bocca, quando sollevo la gamba ferita.
Il coltellino è ancora conficcato nella coscia e del sangue impregna i pantaloni e continua a gocciolare sul sedile e sulla tappezzeria.
Osservo la ferita che è lo localizzata nella parte più esterna e più distale dall'osso. Potrebbe avermi preso qualche legamento, o qualche vena importante. Cazzo, cazzo, cazzo.
Impreco tra i denti serrati, mentre il dolore mi acceca la mente e le lacrime m'invadono il viso.
Afferro la corda che mi legava le caviglie per poi fare un nodo stretto alla coscia, sopra alla ferita e urlo mentre faccio il nodo.
La gola brucia, mentre gli occhi mi annebbiano la vista e le mani mi tremano. Devo farcela, devo scappare. Per Matt.
Con braccia tremanti e dei brividi lungo la colonna vertebrale, afferro il manico del coltello e lo tiro fuori per poi afferrare una maglia abbandonata sul sedile, per stringere intorno alla ferita sanguinante il tessuto, annodandolo.
Sento il dolore irradiarsi in tutto il corpo, ma cerco di ignorarlo, mentre afferro la maniglia a la faccio scattare, per poter uscire da questa maledetta auto.
Apro lentamente la portiera e scendo, attenta a qualsiasi mio rumore, anche se sotto i miei piedi, le foglie e il terriccio fanno rumore impedendomelo.
Quando appoggio la gamba per terra sussulto, ma è meglio di quello che immaginavo. Il dolore è penetrante, ma sopportabile.
Apro la portiera del guidatore e controllo sia nell'auto, sia addosso a lui, se davvero diceva la verità sulla pistola, e mi rattrista il fatto che non mentiva. Come pensava di controllarmi senza una pistola? Potevo anche scappare senza tutto questo.
Guardo intorno a me, ma oltre a una distesa di alberi, non si riesce a vedere altro. Dove sono?
Mi addentro nel bosco, trovando diversi sentieri e cartelli d'indicazione, dev'essere un parco pubblico, eppure sembra non esserci nessuno.
La maggior parte dei segnali indicano un lago, e le diverse direzioni, ma sono talmente vecchi e malconci, che mi chiedo quando è stata l'ultima volta che qualcuno abbia pulito o sistemato.
Forse una zona chiusa da tanto tempo. Jonathan non si farebbe scoprire così facilmente, non è così stupido da fare uno scambio armato, in un posto pubblico.
Proseguo per il sentiero principale, mentre intorno a me, sento solo il rumore del vento fra le foglie, e il fruscio dei piccoli animali tra i cespugli.
Zoppico cercando di non caricare sulla gamba ferita e stringo i denti mentre senza forze mi aggrappo agli alberi che mi circondano.
Quando raggiungo un vicolo cieco sto per tornare indietro. Un cartello dice "uscita", mentre l'altro dice "Nord del Lago".
Dove devo andare?
Mi appoggio contro un tronco di albero e mi prendo un attimo per poter prendere fiato. Mi chino sulla coscia e osservo la maglia grigia, ormai quasi completamente di un rosso scuro. Ecco mi sto dissanguando. Merda, io e le mie stupide idee folli.
Avrei dovuto tenere la lama lì dento, ma avrebbe ostacolato la mia fuga, non sarei potuta scappare.
Sto per cadere sul terreno, pronta ad arrendermi e a scoppiare a piangere. Pronta a morire qui in mezzo al nulla. Da sola.
Quando all'improvviso sento delle voci lontane, leggere e sono più di una.
Mi rialzo e m'incammino verso il sentiero della zona nord del lago.
Cammino per qualche metro, mentre le voci si fanno sempre più vicine, fino a quando mi trovo davanti a dei grossi cespugli. Scosto un ramo ed eccoli lì, davanti a me, i quattro uomini.
Riconosco immediatamente Jonathan, anche se ha cambiato i vestiti, per non farsi riconoscere.
In più ora indossa un passamontagna come gli altri tre, ma dal suo escono, quegli inconfondibili ciuffi biondi.
Di fianco a loro noto un furgone nero, quello con cui probabilmente mi hanno rapito quella sera.
Ignoro i brividi e non sapendo cosa fare, mi accovaccio sul terreno umido, senza però staccare gli occhi da loro.
Spero che a nessuno di loro, venga la brillante idea di andare a controllare l'auto, o troverebbero il loro uomo svenuto e il loro asso nella manica, sparito.
Non posso uscire da questo bosco o mi scoprirebbero, e quindi non posso avvisare Matthew senza prima farmi ammazzare.
Il rumore di un motore d'auto attira la mia attenzione, e quando scorgo l'automobile di Matthew, mi si gela il sangue.
No Matt, perché sei venuto? E ora cosa faccio?
Pensa Jennifer pensa, ci sarà un modo per distrarli. C'è ma non mi piace per niente.
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