CAPITOLO 74

La stanza

Jennifer

Quando apro gli occhi, mi agito vedendo solo oscurità intorno a me, e trovandomi con gli arti legati. Urlo ma mi rendo conto che non posso fare nemmeno quello, mentre i ricordi tornano violenti nella mente.

I tre uomini, il bosco e il mio rapimento.

E poi sono svenuta. Ancora adesso mi sento intontita, come se il mio cervello fosse così leggero, da domandarmi se è ancora lì.

Sono stata drogata, e sono quasi sicura che sia stato il telo che ho in faccia. Che ancora puzza, ma molto meno di prima, ecco perché questa sensazione di intontimento. Che sembra iniziare a scemare, facendomi sentire i colpi che ha subito il corpo.

Calmo il mio respiro e trattengo un gemito di dolore quando cerco di sistemarmi in posizione seduta.

Tutto il fianco è dolente dalla botta presa contro alla parete dell'abitacolo, in cui mi ritrovo, per non parlare del mio ventre, che ancora pulsa per il calcio che quell'uomo mi ha tirato e per la botta quando mi hanno abbattuto al suolo.

«La puttanella si è svegliata» urla uno degli uomini abbastanza vicino a me, per poi ridere.

La viscerale e ripugnante sensazione di invulnerabilità e paura, mi mozza il respiro, stringendo in una morsa il mio stomaco.

Mi viene da vomitare, ma non posso ora, no non posso fargli vedere la mia vulnerabilità. Quante cazzate, sei già vulnerabile, sei legata, e quasi tutti i tuoi sensi sono oscurati.

«Cosa volete?» vorrei chiedere, con voce aggressiva, ma con lo scotch sulla bocca, l'unica cosa che esce è un mugugno incomprensibile.

Invece di ricevere una loro risposta, scoppiano a ridere prendendosi gioco di me.

So benissimo cosa vogliono, i soldi di Matthew, ma loro non sanno, che di sicuro lui non sborserebbe nemmeno un centesimo per me, in questo momento. Che probabilmente è già partito e che quando tornerà non vedendomi a casa, penserà che finalmente me ne sono andata, smettendo di asfissiarlo, e non penserà che sono stata rapita. E anche se lo scoprisse, probabilmente ignorerà la cosa. Infondo non sono più nulla per lui, almeno non sulla carta.

Qualcuno mi tira un calcio sulla gamba e non riesco a trattenere un urlo che mi esce dalla bocca, anche se attutito.

«Stai zitta!» mi urla contro, quello della sigaretta, ormai ho la sua voce nulla mia testa, come un disco rotto.

Vorrei ribattere, ma invece rimango zitta e appoggio la testa contro la superficie dura, piangendo in silenzio e ingoiando ogni gemito di dolore.

Dopo un tempo interminabile di completa confusione e stordimento, il furgone si ferma, facendomi sbattere la testa contro alla parete fredda e dura.

La paura che si era attutita, ritorna, aumentando il mio battito cardiaco, irrigidendo tutti i miei muscoli e ampliando gli unici sensi rimasti.

«Prendila e portala subito dentro!» ordina l'altro uomo, che dalla voce riconosco come quello che mi è saltato addosso, imprigionandomi a terra e a cui ho morso una mano.

Di colpo sento la portiera scorrere e un'aria fredda mi entra nei vestiti, congelandomi le ossa. Quante ore sono passate?

Sarà già mattino? Oppure è ancora notte?

Non ho il tempo di metabolizzare, che delle mani mi afferrano bruscamente i fianchi e mi alzano, posizionandomi a testa in giù, sopra ad una spalla.

Urlo, cercando di dimenarmi, ma qualcuno mi ferma, tirandomi uno schiaffo sulla guancia, attraverso il telo. E cazzo se brucia.
«Stai zitta, se non vuoi peggiorare la situazione» mi minaccia, con l'odore del suo alito al tabacco, che mi entra nelle narici, disgustandomi.

Rassegnata rilasso i muscoli, sono in tre uomini contro di me, non posso vincere, neanche se ci provassi di nuovo. È una guerra persa.

Mentre l'uomo cammina portandomi via con sé, una suoneria attira la mia attenzione. Sembra quella di un vecchio telefonino, di quelli che si aprivano a conchiglia, squillante e fin troppo rumorosa. Ricordo che mia madre aveva la stessa, e io la prendevo in giro. Quanto non sopportavo quella stupida melodia che una volta che ti entrava in testa, non usciva più.

Però e strana per un rapitore, non dovrebbe essere più discreto? Forse il posto lo permette...forse siamo così isolati, che nessuno ci circonda. Cazzo

«Sì è qui» risponde con voce aggressiva, il fumatore, mentre quello sotto di me si allontana da loro. Il silenzioso, perché ancora non ho sentito la sua voce.

«Si è avvicinata al bosco...abbiamo risparmiato tempo e fatica» risponde, sulla difensiva.

Qualcuno, probabilmente l'artefice di questo piano, non è contento di come mi hanno prelevato? Ma come sarebbe dovuta andare allora? Avrebbero aspettato che sia Matt che William fossero partiti, per poi entrare in casa, senza nessuno a contrastarli. Quindi qualcuno che sapeva che loro non ci sarebbero stati?

L'uomo che mi porta in braccio, si ferma, e fa sbattere una porta forte contro un muro, facendomi sussultare dalla paura.

«Lo so capo, ma ci stava per scoprire...» risponde arrabbiato, ma ormai è così lontano che sento solo un sussurro.

Infatti mi ritrovo a dondolare contro la schiena dell'uomo, che sembra calcare i passi sulle scale, come se volesse stordirmi, impedendomi di ascoltare la conversazione. Stronzo.

Finalmente si ferma, e sbatte ancora un'altra porta, per poi adagiarmi su una superficie più morbida rispetto al furgone di poco fa, ma comunque scomoda.
«Ora ti slego, ma prova a fare qualche mossa azzardata e giuro, che passerai il resto dei tuoi giorni appesa al muro» urla con voce arrabbiata, facendomi rabbrividire. Cazzo la sua voce è come ghiaccio nelle vene.

«Hai capito?!» chiede così vicino al mio viso, da farmi sentire il suo respiro attraverso la tela spessa e facendomi sussultare.

Con esitazione mi ritrovo ad annuire, incapace di proferire parola o di lottare inutilmente. Devo prima capire cosa mi circonda, non posso agire completamente cieca.

Anche lui sembra esitare per qualche secondo, ma poi, sento le corde allentarsi e appena libera, mi affretto a massaggiarmi i polsi levigati.

Il bruciore immediatamente si propaga sulle braccia, facendomi sussultare, non mi ero resa conto di quanto fosse stretta, fino ad ora.

«Appena senti la porta chiudersi, puoi toglierti il cappuccio» mi avverte, e senza aspettare una mia risposta, la porta sbatte e il suono metallico della chiave, mi risuona nelle orecchie per qualche secondo, come un diapason.

Rimango immobile con gli occhi chiusi per qualche attimo, mentre il mio respiro si calma e i miei arti tornano liberi di muoversi.

Con mani tremanti, mi levo il cappuccio nero buttandolo il più lontano possibile.

Per poi strappare decisa il nastro dalla mia bocca, stringendo i denti per il dolore. Lascio che la sensazione formicolante e bruciante si faccia strada sul mio viso, mentre mi affretto a controllare che davvero non ci sia nessuno nella stanza, per osservare cosa mi circonda.

Una leggera luce notturna attraversa una finestrella a mezzaluna, fin troppo in alto per poter vedere fuori, ma almeno illumina gran parte della piccola stanza, priva di altra luce.

Abbasso lo sguardo, e mi rendo conto di essere su una piccola brandina cigolante, e con di fianco a me una bottiglietta d'acqua. Mentre dall'altra parte della stanza, noto nella penombra un piccolo catino, e capisco il suo utilizzo solo quando vedo un rotolo di carta igienica affianco.

Faccio una smorfia, per poi lasciare andare le lacrime, che per tutto questo tempo hanno minacciato di uscire rimanendo però incatenate nei miei occhi.

Mi alzo percorrendo con dieci passi l'altra parte della stanza, cerco di osservare ogni muro, notando se c'è qualche buco o telecamera. E anche se con poca luce, non trovo nessun strano dispositivo, ne altre vie d'uscita se per questo.

Mi avvicino alla finestra totalmente coperta da travi di legno inchiodate alla base. Tra una e l'altra arrivano degli spiragli di luce, ma il distacco è troppo sottile, per potermi permettere di guardare fuori.

Tiro un urlo. Un urlo di quelli primordiali, che partono dall'addome, percorrono il diaframma, la faringe, per poi uscire animaleschi e potenti. Perché tutto questo a me?

La testa mi sembra una trottola pronta a fermarsi, mentre un mal di testa lancinante inizia a tormentarmi. Inizio a picchiare le travi di legno con i pugni, sentendo bruciore e dolore, ma non mi fermo finché non vedo del sangue.

Mi lascia andare contro al pavimento, facendomi inglobare dalla superficie congelata, come una lastra di ghiaccio, mentre apro le mani osservando i danni.

Sembrano leggere abrasioni e qualche scheggia, che mi affretto a togliere, ma non faranno mai male come l'addome ad ogni respiro. Come se ci fosse qualcuno pronto a darmi un pugno ogni volta che l'aria entra nei polmoni.

Probabilmente quello che mi hanno dato è ancora in circolo nel mio corpo. Questo spiegherebbe perché la stanza sembra girare, così lenta, che ci metto più di qualche minuto a capire che c'è qualcosa che non va.

Mi trascino fino alla brandina cigolante, che sembra sprofondare nel vuoto con il mio peso.

Mordendomi le labbra per soffocare il dolore mi porto le ginocchia al petto, alla ricerca di un po' di calore...un calore, che in questo momento desidererei ricevere dall'uomo che amo.

Perché tutto questo a me? E se Matthew è già partito, ignorando la mia assenza? Se non ricevendo una sua risposta, decidono di uccidermi? Il mio corpo trema, e scosso dai singhiozzi si rilassa con fatica contro alla stoffa del lettino, mentre vengo invasa da centinaia di domande senza risposte.

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