CAPITOLO 72
La consapevolezza della fine
Jennifer
Venti giorni, sono venti infernali giorni che Matthew né mi guarda né mi rivolge la parola. Pensavo che la notizia sulla mia partenza l'avrebbe fatto reagire, che mi avrebbe preso tra le braccia dicendomi che mi credeva, che mi chiedeva scusa per il dolore che mi ha provocato.
Ma tutto questo era solo un sogno che man mano passavano i giorni, sembrava sempre meno possibile. In più la foto aveva raggiunto i giornali di New York, trasformandomi in una stronza traditrice, cosa che non mi aveva reso la vita facile, sebbene avevo cercato in tutti i modi di difendermi, inutilmente.
Guardo la valigia che ancora non ho tirato fuori dall'armadio per paura di riempirla, perché quando lo farò, in quel preciso momento, sarà veramente finita.
Vorrei baciarlo, farmi cullare dalle sue braccia e dirgli che voglio solo lui, ma sono sicura che se solo ci provassi, lui non mi permetterebbe nemmeno di avvicinarmi.
Sospiro scoraggiata ed esco dalla stanza, ho bisogno di un caffè, doppio possibilmente.
Il mio sguardo viene attirato dalla porta socchiusa davanti a me, da cui arriva una luce artificiale che illumina il corridoio oscurato.
Esitante mi avvicino e busso contro la superficie piatta della porta, senza ricevere alcuna risposta.
Prendo coraggio, e il diritto di essere ancora sua moglie e apro totalmente la porta, avanzando dentro alla stanza.
Lo trovo davanti al letto, intento a infilare dei vestiti in una valigia nera, che ha appoggiato sul letto.
«Dove vai?» gli chiedo, osservando le sue spalle irrigidirsi, ma ancora una volta non ricevo una sua risposta.
Con irrequietezza mi avvicino e prendendogli il mento, lo obbligo a guardarmi negli occhi. Sono i soliti smeraldi verdi che ho imparato prima a temere, e poi ad amare. Eppure sembrano spenti, privi di vita e di quella luce che li animava, vuoti come me.
«Ti prego parlami, non riesco più a sopportare questo silenzio», lo prego, mentre lui toglie le mie mani via dal suo viso e indietreggia, come se non sopportasse il mio tocco.
«Sto andando ad Atlanta per il contratto McKinton», sussurra tornando ad ignorarmi, per concentrarsi sulla sua valigia, buttandoci dentro delle calze.
«Oh», sussurro colpita e affondata della sua dichiarazione.
«Avevi promesso di portarmi con te quando...se saresti partito di nuovo», pronuncio con voce amara. E tu gli hai detto che te ne saresti andata giorni fa, eppure sei ancora qui, ad elemosinare la sua attenzione.
Chiude la valigia e la posa per terra, cercando di uscire dalla stanza, ma io lo blocco, spiaggiandomi contro la porta.
«Matt ascoltami ti prego...» chiedo in una supplica.
Esitante gli poso le mani sul petto, alla ricerca di un suo contatto, ma quando lui si sposta, cerco di ignorare la fitta al cuore, acuta e lancinante. Finalmente dopo giorni mi guarda negli occhi, e mi concedo qualche attimo, per perdermi nelle sue sfumature verdi, rendendomi conto che tutta questa sua ostilità è insulsa e perfida.
Come il senso di colpa che mi comprime il petto. Io non ho fatto nulla. Io sono la vittima. Io non mi devo sentire in colpa.
Annullo la nostra distanza e gli punto un dito contro al petto, pronta a vomitargli tutti i miei sentimenti addosso.
Tanto più in basso di così, non posso di certo cadere.
«Sai una cosa? Ho passato questi giorni a commiserarmi e a chiederti scusa, ma io non ho nulla da farmi scusare, dannazione Matt!» sbotto con voce strozzata.
«Ti ho detto che mi è saltato addosso e tu non mi ha creduto. Ti ho detto che non ero con lui quel pomeriggio, e tu non mi hai creduto. Ti ho detto che mi sono sentita così male e miserabile con me stessa che ho vomitato l'anima, e tu non mi ha creduto. Quello che mi deve chiedere scusa sei tu, non sono io, perché se davvero hai mai tenuto a me, avresti creduto ad ogni mia parola...».
Anche se pensavo di non averne più, diverse lacrime hanno invaso la mia faccia, rigando e seccando la mia pelle. I miei occhi sono gonfi e stanchi e bruciano come il mio cuore ferito. Il mio respiro è agitato ed interrotto continuamente da singhiozzi. Sono un cumulo di macerie.
Quest'uomo mi ha fatto innamorare, mi ha fatta arrivare al settimo cielo. Ma ora mi sento come se un'auto lanciata a 250 km/h mi avesse travolta, lasciandomi sull'asfalto agonizzante. Mentre la realtà arriva a tenerti compagnia, come un'amica che non vedevi da tempo: ti dà un bacio sulla guancia, ma subito dopo ti sussurra all'orecchio una verità che ti spezza.
Lui ti odia. Lui ti disprezza. Lui ti ha usata. Lui non ti ha mai amata, e mai lo farà.
Con mani tremanti gli prendo il viso fra le mani, lambendo il suo calore e la sua leggera barba, che mi accarezza dolcemente il palmo della mano.
«Guardami Matt» sussurro.
Finalmente mi osserva per qualche secondo, senza allontanarsi dal mio contatto. Ma quel piccolo momento di pace finisce in pochi attimi, mi afferra i polsi e con estrema lentezza li fa cadere lungo i miei fianchi.
«Mi dispiace, non posso portarti con me ad Atlanta», pronuncia abbassando lo sguardo verso il pavimento. In modo robotico e apatico. Dov'è l'uomo che mi faceva le coccole prima di addormentarmi, che mi ha portato a vedere i giardini botanici perché sa che amo il giardinaggio o quello che mi ha aiutato ad affrontare una delle mie più grandi fobie?
Vedo solo il suo involucro, di lui è rimasto solo cenere e fumo.
Lo guardo sconcertata, mentre sento l'ansia corrodermi il petto e stringermi la gola.
«Hai solo questo da dirmi?» gli chiedo con voce acuta e straziata.
Lui mi guarda come se volesse dirmi qualcos'altro, però si trattiene e abbassa lo sguardo.
«Sì...e che William verrà con me, perciò starai con Joyce, almeno finché non ti deciderai ad andartene» commenta con voce seria e senza alcun sentimento. E le sue ultime parole, sono la ciliegina su questa torta amara e contornata di disprezzo.
Lascio che la tristezza si trasformi in pura rabbia, che impetuosa scorre nelle mie vene accendendomi.
«Sei solo uno stronzo! Quando hai baciato per due volte Carrie, io ti ho perdonato! E ora, che quell'uomo mi ha rubato quel maledetto bacio, tu non lo fai?».
So che lui non è così, che tiene a me, come io tengo a lui, ma il fatto che non abbia fiducia in me, annulla tutto.
Annulla il mio amore. La mia fiducia in lui. Le mie forze.
Sospira profondamente come se le mie parole gli stessero dando fastidio o solo noia, e rilassa le spalle, per poi afferrare di nuovo la valigia, per incitarmi a spostarmi.
«Chiudiamola qui Jennifer, abbiamo sbagliato a non rispettare il contratto, io ho sbagliato con te...è stato solo un grosso errore». Ecco l'ennesima coltellata al cuore... forse l'ultima, quella più letale.
«Per me non era così Matt, e sappiamo benissimo entrambi, che non lo era neanche per te», mormorio con voce strozzata per poi correre fuori dalla stanza.
Scendo velocemente le scale, sebbene le lacrime mi offuscano gli occhi, ma il bisogno d'aria mi costringe a correre ed aprire la porta.
Fortunatamente non incontro nessuno davanti al mio percorso, e inizio a correre sull'erba ancora bagnata dalla recente pioggia, che mi inumidisce le caviglie scoperte e i pantaloni.
L'aria fresca della sera mi riempie i polmoni e mi punge il viso, ma lo ignoro e continuo a correre senza fiato, fino ad arrivare al piccolo boschetto in fondo al giardino, che resta molto oscurato dalle luci artificiali della casa. Ci sono venuta spesso qui, durante il giorno per correre intorno alla casa, anche se è da un po' che non lo faccio. È da un po' che non vivi Jennifer.
Eppure non mi ci sono mai addentrata anche se ho dei piani per questa parte del giardino. O meglio, avevo.
Avrei voluto sistemare alcuni rami rotti, mettere dei ciottolati e fare un piccolo sentiero per attraversare il boschetto. Magari metterci anche qualche luce di quelle solari, per illuminarlo.
Ma ormai tutto questo è solo un vecchio sogno. Una delle mie idee per migliorare questo posto, che andrà a finire insieme alle altre nel dimenticatoio.
Mi avvicino ai primi alberi alti e imponenti, che con l'oscurità del cielo, lasciano una certa inquietudine. Sono solo alberi, cosa potrà mai accadere?
Faccio ancora qualche passo, pronta a toccare la corteccia muschiata, quando inciampo nel fango sporcandomi tutti i vestiti e le mani.
Mi abbandono contro al terreno mentre le ultime silenziose lacrime scompaiono sotto alla maglietta, facendomi il solletico.
Sollevo lo sguardo in alto e cerco di calmarmi, mentre osservo il cielo sereno con qualche stella, e una splendida luna piena, ad illuminare lo sfondo scuro.
Come mi sono ritrovata qui? Sporca fino al collo di fango e completamente da sola alle dieci di sera, in un giardino. Forse chiamarlo giardino è un po' offensivo. Non è grande come alla reggia di Versaille, ma di certo non si fa sminuire.
Se mi fossi decisa ad andarmene due giorni fa come avrei dovuto, ora sarei nel mio vecchio appartamento, che sono riuscita a riavere, anche se con un affitto maggiorato. Probabilmente nessuno voleva uno scadente bilocale, al secondo piano di una palazzina a dir poco rumorosa, e in un quartiere alquanto discutibile.
E invece eccomi qui. Sperando di convincere l'uomo che amo ad amarmi. E ora che ci penso è davvero assurdo. Sono solo una sciocca, che credeva nei sogni e nel lieto fine. Una stupida.
Sono così presa ad ascoltare i miei singhiozzi, che mi accorgo troppo tardi di strani rumori provenire dal boschetto. C'è qualche animale? Magari qualche gufo o roditore, che sentendo la mia presenza, ha deciso di scappare via.
Abbasso lo sguardo e quando scorgo tre figure uscire dal bosco, il mio fiato si mozza nei polmoni. Oh cazzo. Tre figure alte, ma ancora nascoste dall'ombra degli arbusti. Non vedo le loro facce nascoste sotto a dei passamontagna scuri, solo uno di loro ha in bocca una sigaretta, che quando aspira, si accende di un rosso brillante, illuminando degli occhi neri come la pece.
Cerco di alzarmi, sebbene ormai il mio corpo è completamente sprofondato nel fango, diventando pesante e impacciato.
Inciampo ancora nel terreno, ma questa volta riesco a recuperare l'equilibrio e a iniziare a correre.
Ma i miei passi sono lenti, il terreno e dissestato e loro sono più veloci di me.
Mi guardo alle spalle e sbatto gli occhi ancora annebbiati dalle lacrime, sperando che sia una mia immaginazione, ma ormai le tre figure mi hanno raggiunto.
Uno si piazza davanti a me allargando le braccia, e quando faccio per sviarlo, ne trovo un altro alla mia destra, che mi spinge verso il terzo, quello della sigaretta, che spegne sotto alla scarpa, per poi mettersi il mozzicone in tasca. Non vogliono lasciare tracce. Oh no no no.
«Signora Dallas, non l'aspettavamo così presto» m'informa l'uomo davanti a me, per poi sorridermi attraverso quella piccola fessura. «Ci ha risparmiato una grossa fatica, sa forzare le serrature, il correrle dietro, sentire le sue grida imploranti...tutte cose molto noiose», mormora divertito e con un accento molto strano.
Si avvicina a me, mentre io indietreggio, andando a sbattere contro l'altro uomo. Urlo e sobbalzo, mentre la realtà mi cade addosso, sono circondata, sono da sola, sono fottuta.
«Ma lei non ci farà annoiare, giusto? Verrà con noi, senza lottare...» non gli faccio nemmeno finire la frase, che mi volto e chinandomi schivo le due braccia dietro di me, e inizio a correre.
Con tutte le mie forze calpesto l'erba umida, e inizio ad urlare a squarciagola, qualcuno mi sentirà, qualcuno deve sentirmi!
Ma la mia fuga viene interrotta, quando qualcuno mi salta addosso facendomi cadere con la faccia a terra, mozzandomi il respiro. Urlo dal dolore per l'impatto, un dolore acuto proprio sotto al seno. Probabilmente ho qualche costola incrinata. Cazzo. Come se ci fosse una forza invisibile che ti stringe i polmoni, impedendoti di respirare fino in fondo.
Cerco di alzarmi, scalciando con le gambe l'uomo disteso sopra di me, mentre stringo i denti. Non mi farò prendere solo per un po' di dolore, devo resistere.
Ma mi tiene ferma in una morsa troppo forte, impedendomi anche di urlare, con una delle mani sulla bocca.
Decido d'istinto di aprire la bocca, o almeno per quello che mi consente e di addentargli la mano guantata. Serro, pensando al dolore che mi ha provocato, a tutta la rabbia nel corpo che si mescola alla mia adrenalina, e al fatto che non mi farò prendere così facilmente.
Lui ringhia e sobbalza, togliendomi la mano dalla portata dei denti, allentando la presa su di me.
Ne approfitto per sciogliermi dalla sua stretta, ma qualcun altro mi ferma prima che possa fuggire via un'altra volta, dandomi un calcio sulla spalle e facendomi ricadere sul terreno.
«Sta ferma razza di cagna!» sbraita, chinandosi sul mio orecchio, mentre l'altro a cui avevo morso la mano mi spinge contro il terreno e comprimendomi ancora di più il petto dolente.
«O giuro che non sarò di nuovo, così gentile. Non credo che il tuo maritino ti vorrebbe di nuovo se fossi usata come nostro passatempo. E come ti ho già detto, noi ci annoiamo facilmente» pronuncia divertito per poi girarmi con un piede, mentre l'altro mi afferra i polsi.
Rabbrividisco e trattengo un conato di vomito, mentre la consapevolezza di essere spacciata, forma radici profonde dentro di me.
L'idea di essere presa contro la mia volontà e usata da tre uomini violenti, mi provoca una tale repulsione e ribrezzo, che decido prima che possano tapparmi la bocca, di provarci ancora una volta.
Ed urlo con tutto il fiato che mi rimane, a pieni polmoni, sebbene compressi sul terreno.
«MATTHEW!» urlo e subito l'uomo si china, mettendomi la testa contro il terreno umido.
Ma non smetto di urlare, nemmeno con la terra tra i denti, mentre l'altro mi tira un calcio sullo stomaco, provocandomi un altro dolore lancinante. Dolore acuto, che si propaga per tutto il mio corpo, come una scarica di corrente. Piango e urlo, mentre l'erba mi accarezza la guancia, come una dolce carezza.
«Portami il sacco e le corde» dice quello in piedi, alla terza figura, che entra anche lei nel mio campo visivo, con qualcosa fra le mani, che passa a l'unico che mi ha parlato finora.
Dice all'uomo che tiene fermo il mio corpo, di spostarsi, per permettergli di legarmi, e io colgo l'occasione per tornare ad urlare nel silenzio della notte.
«MATTHEW! WILLIAM!» urlo, ma di nuovo nessuna risposta, nessuna luce, nessun avvistamento. E se sono già partiti?
L'uomo a cui ho morso il palmo, torna a chinarsi su di me e mi prende le guance fra le mani, stringendole forte, in modo da farmi serrare i denti.
«Tu non sai in che pasticcio ti sei messa, maledetta troia» dice tirandomi uno schiaffo, talmente forte da farmi voltare il viso, per poi posarmi, con rabbia, un pezzo di scotch sulla bocca.
Incapace di parlare, cerco ancora invano di ribellarmi, ma bloccano completamente ogni mio arto con le loro mani.
In pochi secondi mi legano mani e caviglie, infine mi mettono un sacco di tela sulla testa.
Provo a sbattere gli occhi sperando che sia un incubo, che presto mi sveglierò nel mio letto.
Ma quando li riapro vedo solo oscurità, causata dal telo, che inoltre puzza di vernice.
La paura che scorre nelle vene, mi fa tremare, mentre dentro di me si crea un vuoto nello stomaco. Continuo a ripetermi che non è possibile, e che presto qualcuno uscirà fuori ridendo, dicendomi che è uno scherzo di cattivo gusto.
Ma l'uomo che ora mi sta tenendo come un sacco della spazzatura, me lo impedisce.
«Metti il codice, dobbiamo muoverci!» sbraita con voce severa, e fa qualche passo per poi fermarsi, mentre un suono metallico simile a una portiera scorrevole, mi rimbomba nelle orecchie. L'ultima cosa che sento, è che vengo sbattuta contro a una parete dura e fredda, per poi perdere i sensi, forse non era odore di vernice. Forse...
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