Elisabeth
Matthew
Quando ho ricevuto la sua chiamata questa mattina, ero tentato di non rispondere. Ero ancora abbracciato a Jennifer che dolcemente dormiva al mio fianco, e per non rischiare di svegliarla ero uscito a rispondere.
«Ciao figlio mio» la voce piagnucolosa di mia madre mi ha dato il buongiorno. Cosa che mi ha messo subito in allerta.
Quelle poche volte che mi chiama, ha sempre questa voce e vuol dire che è successo qualcosa oppure come sempre mi chiama quando lui non c'è e vuole farmi vedere il suo vittimismo.
Ed è vero è una vittima, io ricordo tutto, e posso solo immaginare come sia stata la sua vita anche quando me ne sono andato. Ma sebbene tutte le volte che io vado da lei cerco di convincerla di lasciarlo e di denunciarlo, lei si rifiuta dicendo che è l'amore della sua vita.
Ma dubito che un amore sia così, che sia doloroso e nocivo. L'ultima volta che l'ho vista circa tre anni fa, era completamente un'altra persona. Lei è sempre stata una bellissima donna dai lunghi capelli corvini, dagli occhi verdi che mi ha donato e un sorriso che passava sopra ogni intemperia. Ma avevo faticato a riconoscerla.
Osservo l'aeroporto di Chicago dal finestrino dell'aereo e un peso grosso come un macigno, sembra essersi bloccato sul mio stomaco. Di nuovo qui.
Quando mio zio mi aveva preso sotto la sua custodia, mio padre gli aveva fatto la guerra, portandolo in tribunale. Io non avevo mai voluto tutto quel trambusto. Avevo solo dodici anni e volevo rimanere a New York, e stare nella casa di zio Richard che profumava sempre di biscotti. Ma mio padre non tollerava che io preferissi suo fratello a lui. Ricordo che mi aveva preso per il collo e mi aveva sbattuto la testa contro al muro, minacciandomi di smetterla con queste idiozie, che presto saremmo partiti per l'Europa, che avrei dovuto darmi una svegliata e crescere se volevo un giorno prendere le redini della sua attività, la Dallas Transport.
Aveva sempre odiato l'azienda di mio zio, quello che lui sognava di sistemare, diceva che era da perdenti. La realtà è che è sempre stato geloso, perché quando qualcuno sentiva il nome Dallas, pensava subito a Richard, non ad Andreas. E questa cosa gli ha sempre fatto perdere le staffe.
Ricordo che avevo raccontato tutto a mio zio, al quale avevo sempre nascosto tutto quello che succedeva sotto al nostro tetto.
E lui mi aveva stretto tra le sue braccia, mentre le lacrime inondavano il mio viso. Gli avevo mostrato i miei lividi e lui li aveva curati. Mi disse che d'ora in poi si sarebbe preso lui cura di me, che avrebbe sistemato tutto e che non avrei più rivisto mio padre.
E lui lo fece, prima mi adottò, poi fece fallire l'azienda di mio padre e poi passò il resto della sua vita a crescermi e a volermi bene come un figlio. Sebbene lo chiamassi zio, era lui mio padre.
***
Quando arrivo davanti alla casetta azzurra, un conato di vomito risale lungo il mio esofago, ma da come era arrivato ritorna giù. Sarà una cosa veloce, perché l'unico posto in cui vorrei essere in questo momento è nel letto con Jenny. Non mi ha ancora scritto, mi aspettavo un messaggio dopo il bigliettino che gli ho lasciato, ma niente, calma piatta.
Una sensazione di bagnato sul naso mi fa alzare gli occhi verso il cielo. Sta nevicando, ancora. Le strade sono completamente innevate e lo so benissimo, visto che ci ha messo un'ora l'autista ad arrivare fino a qui, perché stava passando uno spazzaneve.
Motivo in più per finire velocemente questa storia, ci manca soltanto una bufera di neve.
Esitante faccio per bussare alla porta ma mi rendo conto che è socchiusa e che si apre davanti a me appena ci appoggio il pugno.
Questa cosa non mi piace per niente, chi lascerebbe la porta aperta con questo freddo.
«Stai zitta!» urla una voce infondo al corridoio e la riconosco all'istante. Lui non doveva esserci, mi ha detto che era via, come ogni volta che sono andato a trovarla.
Lui, il mio padre biologico, che non vedo dal processo. Ricordo i suoi occhi che mi minacciavano silenziosamente.
Prima che possa pensarci attentamente inizio a camminare verso il vociare.
«Ho visto che hai chiamato qualcuno a New York, pensi che sia uno stupido?» gli chiede la voce adirata. E poi lo sento l'urlo e il pianto di mia madre. Il mio cuore si spacca come quando ero bambino e non potevo fare nulla per difenderla. L'ansia mi assale, ma non posso permetterlo, non adesso. Entro nella stanza anch'essa socchiusa e li vedo.
Lei è per terra, con le ginocchia al petto e lui gli tiene il viso con una mano, talmente forte che la pelle di lei è violacea.
«Hai chiamato quel traditore eh?» gli chiede ancora e riesco a sentire tutta l'ira che gronda nelle sue parole. Alza di nuovo la mano pronto a colpirla di nuovo in viso. Ma io gli corro incontro e gli afferro la mano, per poi girarlo per sbatterlo contro al muro fissandolo in faccia.
Sono passati quasi quindici anni dall'ultima volta, e la sorpresa e tale che per poco non lascio la presa.
I capelli che prima aveva di un castano, ora sono radi e principalmente solo ai lati e dietro la testa. Il viso pieno di rughe e vecchio, come se fossero passati il doppio degli anni, per non parlare della lunga cicatrice che gli solca la parte destra del viso.
Non sembra più quell'uomo che quasi tutti temevano quando entrava in una stanza, con il suo atteggiamento superiore, la perfezione che metteva nei dettagli e quello sguardo altezzoso.
«Eccolo qui, il bastardo» gracchia la sua voce piena di disprezzo. Fa per staccarsi dal muro ma io rafforzo la presa, come faceva lui con me. «Cosa ci fai qui? Questa è una mia proprietà o tu e quel traditore di mio fratello volete prendermi anche questa?» chiede a pochi centimetri dal mio viso. Cosa? Non sa di Richard, o vuole solo infierire?
Lo ignoro e sposto lo sguardo su mia madre che sta ancora tremando con la testa fra le gambe, mentre i singhiozzi la scuotono.
«Elisabeth stai bene?» gli chiedo e il suo nome suona strano quando fuori esce dalla mia bocca, ma lo sarebbe anche se la chiamassi nell'altro modo. Ma lei non mi sento oppure semplicemente mi ignora. Vorrei chinarmi e sollevarla, ma vorrebbe dire lasciare andare questo stronzo e chissà cosa potrebbe combinare.
«Mamma!» la richiamo con tono più alto e finalmente sembra risvegliarsi dal suo stato catatonico. I suoi occhi incontrano i miei e il suo sorriso mi fa male. «Figlio», sussurra e poi con gambe tremanti si solleva. È magra, troppo magra. E la sua faccia piena di lividi.
Un pugno mi colpisce lo stomaco e io sussulto quel tanto che lui cerca di liberarsi dalla mia presa. Non così facilmente. Ringhiando lo prendo e lo risbatto contro alla parete. Questa volta con la faccia contro la superficie. Per poi fermagli le mani dietro la schiena.
«Pezzo di merda! Ora chiamo la polizia e ti faccio arrestare!» mi minaccia. Sorrido e mi chino sul suo orecchio. «Sono d'accordo, chiamiamo la polizia e vediamo cos'avranno da dire sul fatto che picchi tua moglie da decenni» sibilo, stringendo ancora di più i suoi polsi, anche se vorrei fare molto di peggio. Fargli sentire almeno un terzo dei dolori che gli ha procurato per tutto questo tempo.
«Mamma chiama la polizia», le ordino voltandomi verso di lei. Lui si irrigidisce e continua muoversi sperando di scappare ancora una volta. Lei esita e scuote la testa, completamente spaventata e scossa dal delle convulsioni. Come l'ha ridotta.
«Mi ucciderà...» susurra, scuotendo velocemente la testa e allontanandosi da me.
«Mamma ascoltami, andrà tutto bene, ci sono io, ma ora chiama la polizia, fallo per me, per tuo figlio». L'idea che possa dire di no e costringermi a lasciarlo mi terrorizza. Ora che abbiamo le prove ed è il momento giusto per far qualcosa...tutto potrebbe sparire come bolle di sapone nell'aria.
Lei esita ancora, ma poi ci guarda, prima si sofferma sul suo carnefice, che continua a contorcersi mandandogli occhiatacce e sibilando minacce. «Fallo e io ti uccido? Hai capito Elisabeth? Ti trovo e ti uccido». Ringhiando lo allontano per poi spingerlo di nuovo contro alla parete.
Poi il suo sguardo si posa sul di me e io lo vedo, tutto l'amore che prova per me, che però è sempre stato messo in ombra da lui. Entrambi ricordiamo quante volte ci siamo messi a curare le ferite dell'altro e a piangere insieme.
Mi fa un cenno di assenso e poi si avvicina al telefono, facendo la chiamata che avrebbe dovuto fare anni fa.
***
Non ci è difficile convincere la polizia della sua colpevolezza. Lo tenevano d'occhi da mesi, per le continue chiamate dei vicini che sentivano urla, ma visto che mia madre non aveva mai denunciato, e perché era un'esponente importante nella cittadina di Naperville, non avevano nessun mai fatto nulla.
Lo portano via e poi si concentrano a prendere le nostre deposizioni e mia madre riesce a raccontare tutto anche se in modo confuso. Lo vedo che è stanca e non vedo l'ora di portarla fuori e lontana da qui.
Ormai è quasi ora di cena, e decido di chiamare Jennifer che non si è fatta sentire per tutto il giorno.
«Pronto» la sua voce è rotta, non come al solito. È successo qualcosa?
«Jenny, va tutto bene?» domando e la sento schiacciare interrottamente i tasti di un computer. È ancora in ufficio?
«Certo, hai bisogno? Io ho molte cose da fare...» mormora e non posso fare a meno di notare la distanza che cerca di mettere tra di noi. Quando fino a meno di dodici ore fa era raggomitolata ancora contro al mio petto. Ma ci penserò una volta tornato a casa, ho troppe cose da sistemare qui.
«Volevo solo sentirti e dirti che ho avuto delle complicazioni e ci metterò un po' di giorni prima di tornare» ammetto per poi voltarmi verso mia madre che mi sta guardando angosciata. La stanno riempiendo di domande da ormai ore, posso capire il suo turbamento.
«Torna quando vuoi, ciao Matthew», mormora per poi chiudermi la chiamata in faccia. Non riesco a capire.
«Matthew...», susurra mia madre, risvegliandomi dai pensieri di Jennifer. Quanto vorrei che fosse qui per aiutarmi, o anche solo per vedere il suo sorriso. Ma questa è l'ultima cosa di me, che vorrei che vedesse.
***
«Lei come si chiama?» domanda mia madre seduta sul lettino dell'ospedale. Gli hanno chiuso e coperto delle ferite, e fatto delle radiografie per vedere se ci fosse qualcosa di fratturato o rotto.
E quello che hanno trovato mi ha sconvolto così tanto che non smetto di pensarci. Diverse fratture sugli arti e una anche alle scapole, che non essendo state curate correttamente, non si sono chiuse in modo omogeneo, formando delle pseudoartrosi che se non curate potevano provocargli delle rotture complete.
Quanto deve aver sofferto in questi anni. Non solo quando la picchiava, ma anche dopo, quanti giorni a passato crogiolandosi nel dolore?
«Di chi parli?» chiedo mentre i miei occhi vagano su tutte le diagnosi che gli hanno fatto finora. Lesioni, ematomi, traumi e chissà cos'altro non hanno ancora scoperto. Presto gli faranno una TAC.
«Matthew ho ancora gli occhi, hai una fede nella tua mano sinistra», alzo lo sguardo e la trovo a sorridermi.
Possibile che non sappia nulla? Sì certo siamo a Chicago un po' lontano da New York, ma l'azienda ha anche una sede non lontana da qui.
«Lui non mi lasciava cercare nulla su di te, non ho contatti con l'esterno da anni ormai, e quelle poche volte che sentivo il tuo nome alla radio o alla televisione, lui la spegneva. Non so nulla su di te, e come hai visto non potevo nemmeno contattarti».
Si mette seduta e allunga la mano verso di me che io prendo e stringo forte. Il senso di colpa mi attanaglia. Potevo tirarla via prima da quella casa, ma lei non voleva e io ero così arrabbiato. Arrabbiato perché non gli importava nulla della sua salute, perché diceva di amarlo, perché mi aveva lasciato con mio zio senza seguirmi. E dannazione se anche mio zio non ha provato a convincerla, gli aveva promesso sicurezza e stabilità, ma lei non ha mai accettato, per lui.
«Allora come si chiama?» chiede di nuovo, passandomi un dito sulla fede.
«Jennifer», mormoro e solo il suo pensiero mi alleggerisce un po' il peso sul cuore. «Non vedo l'ora d'incontrarla», mi confida e sorride ancora, ma come fa? Come riesce a trovare la forza.
«Quindi non sai di zio Richard», mormoro e lei scuote la testa guardandomi preoccupata. «Non sta bene?» chiede, e so che dal mio sguardo che ha già capito la verità.
«Aveva un cancro, ed è morto da quasi quattro mesi», mormoro e cazzo se fa ancora male. Come un ferro rovente piantato nella gola.
Una lacrima gli scende lungo la guancia, mentre la sua mano si stacca dalla mia, solo per potermi lasciare una carezza sulla guancia.
«Mi dispiace tantissimo Matthew, era una persona fantastica, e io so che lo amavi tantissimo...so anche che è stato lui a crescerti e non lo dimenticherò mai» mormora con voce strozzata, mentre altre lacrime scendono lungo le guance per poi perdersi nel suo collo. Incapace di resistere mi alzo a l'abbraccio dolcemente.
Sarà sempre mia madre, anche dopo tutti i suoi errori, e una parte di me continuerò ad amarla.
«Ti porto a New York con me» mormoro con la testa appoggiata sopra alla sua.
«No Matthew non puoi...io non mi merito questo da te, ed è giusto così, sono io tua madre, avrei dovuto prendermi io cura di te, non il contrario». Le sue parole fanno breccia nel mio cuore e lo smuovono come un città in preda ad un terremoto.
«Tu vuoi davvero restare qui? Nella stessa città di quel mostro?» gli chiedo con rabbia, allontanandomi e guardandola negli occhi.
«Se dovesse per qualche ragione uscire, mamma verrà a cercarti, lo sai questo vero?» domando preoccupato.
No, devo trovare un modo per portarla via e nasconderla da lui.
«Io ti porterò via mamma, perciò accetta l'idea», l'avviso per poi stringerla di nuovo tra le braccia. Lei annuisce e mi stringe più forte.
«Scusatemi, siamo pronti per gli altri test, faremo una TAC e una risonanza» ci avvisa l'infermiere vicino alla porta. Annuisco e la lascio andare, mentre lui stacca il lettino alzando i blocchi, per portarla via. «Ci vorrà solo un'oretta signore» mi avvisa per poi sparire dietro l'angolo.
Un rumore mi fa svegliare di soprassalto, provocandomi un dolore lancinante al collo. Queste poltrone sono infernali.
Mi passo una mano dietro al collo, per cercare di alleviare il più possibile il malessere, che all'improvviso viene messo in secondo piano, quando mi accorgo che una dottoressa mi sta chiedendo di uscire.
Noto che mia madre sta dormendo, per poi spostare lo sguardo anche sull'orologio. Sono passate tre ore, perché così tardi?
Con passo esitante esco dalla stanza, senza però prima posare lo sguardo ancora una volta su mia madre.
«Signor Dallas devo parlare della signora Elisabeth, gli esami sono durati a lungo perché sospettavamo di una malattia cronica, e infatti l'abbiamo riscontrata. Si tratta di Vasculopatia cerebrale cronica, per spiegarglielo semplicemente, i vasi sanguigni che vanno al cervello si stanno chiudendo, impedendo così il normale flusso. E questo può comportare diversi problemi gravi tra cui anche motori, per quello a volte sembra barcollare, ed le sue parole non escono così fluide», mormora la dottoressa, ma tutto mi arriva ovattato come se non fosse a un metro da me, ma lontanissima.
Mia madre è malata. Avevo notato qualcosa di strano, ma non ci avevo fatto troppo caso, non dopo che la mia attenzione era stata attirata dalle sue numerose ferite.
«Non c'è una cura, ci sono dei farmaci che possono aiutarla a sopportare i sintomi e in caso si possono fare delle operazioni per curare eventuali aneurismi che potrebbero capitare».
Informazioni. Decine d'informazioni che continuano a turbinarmi nel cervello impedendomi di ragionare lucidamente.
«Come? Com'è successo?» chiedo e la sua smorfia mi fa tremare.
«Sua madre ha un diabete di tipo 1, che non è mai stato diagnosticato, perché sua madre non viene a fare un controllo da anni, ed è peggiorato così tanto fino ad arrivare a questo».
Le mani mi prudono così tanto, quanto vorrei avere mio padre di nuovo fra le mani per finire la sua vita ora. Come ha potuto fargli questo? Non vedere che stava male, che stava morendo davanti ai suoi occhi.
«Mi dispiace signore, domani se vuole possiamo informare insieme sua madre, buona serata» e poi si allontana, insieme a un pezzo di me stesso.
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