20. In Fuga (Prima Parte)
"Presi la rincorsa e lo spinsi con forza. Lui fece un passo indietro cercando di non perdere l'equilibrio. "E questo per cos'era?" Chiese. "Per tutta questa serata". Per essere pazza di lui nonostante sapessi che era sbagliato. Lui era sbagliato, sbagliato nell'accezione peggiore del termine. Era così sbagliato da sembrare giusto e questo mi mandava completamente fuori di testa."
Il bacio dell'angelo caduto - Becca Fitzpatrick
E' tutto così tragicamente sbagliato, proprio come avevo letto in quel libro, sbagliato oggettivamente, da qualunque prospettiva io tenti di inquadrare questa situazione assurda, acerba come la più immatura delle scelte, operata dal più irresponsabile degli esseri viventi.
Mentre lego la mia mano alla sua, ho la certezza di quanto sia pesante la responsabilità di cui ci stiamo facendo carico, di come i nostri desideri riescano, in ogni caso, a trovare lo spazio per trasformarsi in rispettivi sensi di colpa. E, continuando a colpevolizzare noi stessi, finiremo per distruggerci. Lo so. Lo sento sotto la pelle, come il freddo che ancora vi ristagna e che non mi dà tregua nonostante gli strati di tessuto pesante.
Metcalfe fa scorrere un dito sulla costola di un libro di cui non riesco a leggere il titolo, inclinandolo verso di noi. «Dovrebbe essere questo» dice sostenendo il peso del volume e contemporaneamente scandagliando il pavimento. «Infatti!» trilla, le sue labbra si piegano in un sorriso, e molla la presa dal libro trascinandomi con sè in un punto sotto la vetrata affacciata sul lago spento. «Guarda, Shelly» dice inginocchiandosi, la voce emozionata.
Mi abbasso e osservo stupefatta una delle assi del pavimento, sollevata quel tanto che basta a rimuoverla completamente. «Porca puttana!» esclamo sporgendomi per guardare all'interno della feritoia, nella quale Metcalfe, senza alcuna esitazione, infila la mano guantata. Il mio stupore non può certo reggere il confronto con la sua eccitazione, dovrei essere più coinvolta nei trascorsi di Metcalfe e Ettore per provare tale fermento, ma sono comunque curiosa e affascinata dell'ingegno dell'ex Janus di Burgos.
«Aspetta un attimo» lascia la mia mano e scoperchia l'apertura, incuneando la mano fino al gomito, livello oltre il quale la manica del cappotto gli impedisce di persistere nell'affondo. Il suo braccio si muove da una parte all'altra dello stretto rettangolo, e Metcalfe si esibisce in una serie di smorfie seccate.
«Vuoi che provi io? Ho il braccio più sottile» propongo.
«No, ecco... forse ho trovato qualcosa» dice affondando gli incisivi nel labbro inferiore. «Ci sono quasi» continua chiudendo gli occhi.
Trascorrono alcuni secondi, che mi sembrano ore persa come sono nelle espressioni sofferenti di Metcalfe, e poi, finalmente, lui si raddrizza e, estraendo il braccio dal pavimento, si porta dietro anche un pacchetto di carta legato con dello spago piuttosto spesso.
«Tieni» dice passandomi l'incartamento che, soppesato, non dovrebbe pesare più di mezzo chilo.
«Che diavolo è?» chiedo rigirandomi l'oggetto tra le mani.
«Ne so quanto te, piccola» adoro quando mi chiama così. «Non ci resta che scoprirlo» dice mentre riposiziona l'asse sul pavimento, gattonando subito dopo fino alla libreria per sistemare anche il volume che aveva aperto il nascondiglio segreto.
Ho ancora poca sensibilità negli arti, ma riesco a mantenere una presa salda sul pacchetto e raggiungere Metcalfe sul divano al centro della stanza, quello su cui abbiamo fatto l'amore la prima volta, in una dimensione che ora mi appare lontanissima e pericolosa.
Libera la carta dallo spago, che infila immediatamente in tasca, e lacera la carta giallognola. «E' un quaderno» stringe il pugno sulla carta e fa sparire anche quella in tasca. Apre il quadernetto di pelle e un pieghevole colorato precipita a terra, finendo sugli scarponi da arrampicata che indosso, trovati sul fondo del baule-armadio di Ettore.
Lo raccolgo. «E' una piantina» la apro e non devo prestare troppa attenzione ai ghirigori stradali per capire che si tratta di New York, più precisamente, di Brooklyn.
«Conosci?» mi chiede Metcalfe in agitazione.
Punto il dito sulla mappa, seguento il tratto di pennarello rosso che cerchia un'area specifica. «E' Carrol Gardens, un quartiere di Brooklyn. Siamo fortunati, casa mia non è molto distante da lì».
«Il problema è arrivarci» constata Metcalfe. «Che zona è?».
Ho sempre amato Carrol Gardens. «Be', no ha nulla di speciale. In più quella evidenziata non è una porzione piccola, potrebbe significare qualsiasi cosa. Guarda se nel quaderno è menzionato un luogo preciso, così è troppo vago...».
Metcalfe sfoglia le prime pagine, scritte a mano in una grafia piccola ed elegante. «Forse questo» dice indicando un trafiletto circoscritto in un rettangolo ricalcato più volte. «Sopra ha scritto "Carrol" in grande».
«Leggi» dico sperando lui riesca a distinguere meglio le lettere in questo buio maledetto.
« "... La presenza del ghepardo e non quella dello scimpanzé. Ce l'hanno tutti e due, ma lo scimpanzé deve star lì a far numeri tutto il giorno per farsi notare, mentre il ghepardo, che è un tipo riservato, se ne sta seduto in tutta nonchalance o si muove per un secondo o due nella sua andatura sexy."» allontana il quaderno dagli occhi e mi fissa perplesso. «Che significa?».
Questa cosa... questo aiuto disperato che Metcalfe mi sta chiedendo, la sua inesperienza di vita, la sua verginità... sono davvero spiazzanti. Da che ci siamo conosciuti, di tutto avrei pensato meno a questo ribaltamento dei ruoli, a questo bisogno invertito eppure sempre legato a filo doppio al nostro neonato convivere. Malgrado l'evoluzione del nostro rapporto, non lo trovo affatto meno desiderabile. Lui rimane lui. Rimane il ragazzo stupefacente di quando mi ero risvegliata sul suo divano, rimane l'uomo più raffinato con cui ho avuto a che fare e, perché negarlo, rimane il sesso migliore della mia esistenza.
«Shelly!» mi richiama infervorato.
So che mi sta guardando, e una parte della mia visuale lo ricambia, ma sono come imbambolata... sospesa in un'espressione tra il serio e il faceto, solleticata da questo calore interno che mi fa essere qui e in un sogno nel medesimo momento, con poca voglia di scuotermi e riprendere il discorso, con molta voglia di baciare le sue labbra turgide e dimenticare la follia di questa missione romantica.
«Shelly, sei con me?» ripete pungolandomi con il gomito e, purtroppo, destandomi dall'incanto.
«Ehm... sì» biascico ampliando il mio sorriso.
«Hai idea di cosa vogliano dire queste parole?».
«Certamente» "Io gioco come un ghepardo..." Poteva essere più scontato? «Questa stronzata alla Da Vinci Code, è una stronzata» dico, e voglio tornare ancora là, in quella sospensione, voglio perdermi un'altro po'...
Metcalfe strabuzza gli occhi di cielo. «Prego?».
«Che stronzata...» commento in un sussuro, prolungando il mio sorriso da ebete.
«E siamo a tre...» scuote la testa. «Shelly, ti prego, fammi capire!» insiste esasperato.
Oh, porca puttana Met! Stavo così bene...
Sbuffo. «Dico semplicemente che è ridicolo. Quand'è che siamo passati dall'essere i protagonisti di un idilliaco Gothic-Romance a improbabili ispettori di un Horror-Thriller ?
«Mi devo preoccupare?» la sua fronte di increspa.
Sbuffo di nuovo, il sogno è finito. «No» assicuro, indicando la frase nel rettangolo. «E' un passo tratto dal libro Jim entra nel campo di Basket, una sorta di diario metropolitano anni sessanta».
«E dove starebbe il nesso?» domanda ancora più confuso.
«Oh, c'è eccome, il nesso. L'autore si chiama Jim Carrol» lo illumino, dall'alto della mia preparazione letterario-cinematografica.
Metcalfe mi toglie la cartina dalle mani, ruotandola come se fosse una bussola. «Ha senso» dice infine. «Ma, lo hai detto tu, la zona è vasta: come facciamo a trovare il punto esatto?».
«La X indica sempre il punto dove scavare, Signor Nott!»
«Non abbiamo una fottuta X Shelly...» mi fa notare con una smorfia .
«No, ma abbiamo un un'unico fottuto campo di basket in Carrol Gardens!» replico rivolgendogli l'ennesimo sorriso, fintamente perfido.
***
«Non sarà il primo posto in cui verranno a cercarci?» chiedo a Metcalfe, lanciando nel contempo occhiate preoccupate a ogni cosa animata o ininimata nei paraggi.
«Vestiti così è impossibile che ci riconoscano» risponde tranquillo mentre prosegue spedito lungo la strada.
Sollevo il risvolto della cuffia, strategicamente calata sugli occhi per accentuare il camuffamento, e lo guardo accigliata. «Stai scherzando, vero? Vedi, forse, qualcun'altro imbacuccato in questo modo, in giro? Diamo nell'occhio come una pornostar seduta in prima fila alla messa domenicale!». E, nell'eventualità che lui stia davvero scherzando, io sono serissima: a ottobre non fa così freddo da giustificare una tenuta da escursioni al Polo Sud! Ci mancano solo i racchettoni ai piedi e due zaini alti come un bambino di prima elementare sulle spalle, e il quadretto sarebbe completo.
«La tua paranoia è ingiustificata, Shelly. Nessuno fa caso a noi.» Cammina sempre più veloce, le mani in tasca e la testa bassa. Sfido io che non abbia notato tutti quelli che ci hanno rivolto degli sguardi curiosi negli ultimi cinquecento metri. Una donna, addirittura, stava innaffiando una pianta, sul davanzale della sua finestra, e quando ci ha visti ha rovesciato metà dell'acqua sul bordo grigio, anziché all'interno del vaso.
«Non capisco se sia peggio la tua ingenuità o il tuo piano illogico che, di fatto, non è un piano».
«L'amosfera mortale ha riattivato la tua lingua biforcuta, vedo» ride. «Mi mancava».
«In compenso il tuo sarcasmo ha battuto in ritirata» dico di rimando e, spiandolo appena, lo vedo rabbuiarsi.
«Sono troppo concentrato» dice serio. «Per me è tutto nuovo. E' molto difficile destreggiarmi in questo labirinto.» Se Metcalfe pensa che Burgos sia un dedalo, non oso immaginare come girerà la sua testa una volta a Brooklyn. Ammesso e concesso che riusciremo a raggiungere il mio borgo natio.
L'idea di chiedere aiuto a Sandra era nata così, dal nulla, tra un imprecazione sua e un sottolineare da parte mia quanto sarebbe impossibile spostarci senza un auto. Avevo provato a proporgli l'aereo, ma non avevamo un soldo e senza documenti ci saremmo fatti arrestare nel giro di pochi minuti. Già viaggiare in auto è rischioso, ma lui è convinto che, una volta usciti da Burgos, recuperarà parte dei suoi poteri, così come gli aveva detto Ettore tanti anni prima: è proprio la dimensione alternativa di Burgos il buco nero, l'unico luogo mortale in cui il Consiglio ha il potere di intervenire per soffocare le capacità del Janus che lo sovrintende. Ma, per verificare l'attendibilità delle parole di Ettore, dobbiamo prima riuscire a superare il confine della cittadina.
Attraversiamo il parcheggio del Motel, zigzagando tra le poche auto parcheggiate; Metcalfe mi tiene per mano, e io mi lascio condurre senza resistenze, trotterellando come una bambina manovrata dalle intenzioni dell'esperto genitore.
«Perché passiamo dal retro?» chiedo, pentendomi immediatamente della stupidità della domanda. Difatti lui non risponde, e si limitai a guardami con sufficienza.
La porta è aperta, e Metcalfe entra senza tante cerimonie in quello che scopro essere l'ufficio di Sandra, dove la donna era stata così gentile da permettermi di usufruire del telefono. La stanza è vuota, ma sentiamo delle voci provenire dalla hall, compresa quella acuta della proprietaria.
«Non ci resta che aspettare» dice Metcalfe sedendosi sulla sedia di fronte la scrivania, vuota come la ricordavo, fatta eccezione per il conosciuto telefono nero.
All'improvviso, ho un'intuizione totalmente insensata. «E se provassi a...» azzardo, allungando un braccio che Metcalfe è tanto rapido da afferrare e stringere con decisione.
«Toglitelo dalla testa, Shelly!» mi rimprovera a bassa voce. «Stavolta funziona tutto... credo. E sarebbe una follia. Loro controllano ogni cosa».
Ah, sì? Allora che ci facciamo qui? Non staranno controllando anche questa stanza oltre alle comunicazioni?
Alzo gli occhi al cielo. «Okay, okay...» lo accontento abbandonando i miei propositi. «Mi lasci ora?».
Per tutta risposta Metcalfe mi tira a sé, e io mi ritrovo seduta sulle sue gambe, circondata da un abbraccio intenso, trafitta dai suoi occhi celesti e poi rapita da un bacio inaspettato. Questa stoffa tra di noi è una novità, uno spessore troppo ingombrante. Sento sulla guancia la punta gelata del suo naso, ma non è una spiacevole sensazione, avevo nostalgia del suo meraviglioso sapore e, non capisco come sia possibile, ma lo trovo addirittura più... delizioso.
«E questa è la tua idea di prudenza?» gli chiedo, scostandomi e accarezzandogli il viso con entrambe le mani, i guanti mi impediscono di saggiare la levigatezza della sua pelle. E' bello da morire, nonostante l'abbigliamento totalmente inadatto alla sua eleganza; anche così, con la cuffia calata malamente sulla chioma disordinata, con le gote arrossate per il freddo illusorio, con le pupille dilatate e concentrate su di me. E' grandioso oltre ogni logicità, e poco mi importa se ha perso i suoi poteri di Janus, o se la clessidra è stata ruotata e la sabbia ha iniziato a scorrere... voglio aggrapparmi a questo tempo limitato e setacciare ogni singolo granello di sabbia, cullarlo tra le dita e aspettare di vederci il più bel diamante che sia mai stato tagliato.
«Non ho resistito».
«Fatico a crederti. Vestita così sembro l'omino della Michelin».
Metcalfe mi guarda stranito.
«Lascia perdere... sono l'antitesi della sensualità» spiego.
«Io ti trovo molto sexy, Shelly Morgan...».
«Oh, santo cielo!» chiosa una voce alle mie spalle. Mi volto all'istante, il cuore che perde un battito e... sì... il mio cuore, per una sequela di altre inspiegabili ragioni, ha ricominciato a battere in modo regolare, conosciuto, famigliare.
Metcalfe inclina il busto, le braccia ancora strette attorno a me. «Ciao Sandra!» saluta la donna con slancio, sfoderando un'irresistibile sorriso.
Sandra sposta lo sguardo da me a lui, tiene la mano destra sul petto, le dita sfiorano appena il collo teso. «Metcalfe!» dice ansante, e poi, con una sagacia sorpendente, chiude la porta dalla qualle è arrivata, facendo pressione sulla maniglia per assicurarsi che sia ben chiusa. «Non è un buon momento, Metcalfe» bisbiglia tornando a noi. «C'è un gran via vai stamattina, persone che non ho mai visto». Il suo tono è concitato, e davvero differente da come lo ricordavo, sembra stia parlando a un bambino e non al ragazzo che non aveva smesso di elogiare un secondo quando l'ho conosciuta.
«Fanno domande?» chiede Metcalfe preoccupato.
La donna annuisce e mi fissa con la coda dell'occhio, sembra indecisa. «Vi cercano. Tu e...lei... la Signorina Morgan.»
«Merda!» borbotta Metcalfe, abbassando gli occhi. «Dobbiamo andarcene, Sandra. E' imperativo che io e Shelly riusciamo a scappare da Burgos il prima possibile. Ci serve un'auto».
Sandra si avvicina cautamente. «Non posso aiutarvi. Se vi prestassi la mia, farebbero due più due e...» sospira sollevando le braccia al cielo. «Insomma, capirebbero che vi ho aiutati e saprebbero come rintracciarvi!». L'agitazione le fa scivolare qualche ciocca rossiccia sul viso pallido, oggi non usurpato dal solito, orrendo, mascherone. Indossa un'ampia gonna azzurra, una camicia a quadri legata in vita, ai piedi degli stivaletti marroni, slabbrati sulle punte, e ha tutta l'aria di una persona già satura delle complicazioni della giornata.
Metcalfe mi sussurra delle parole di scuse all'orecchio, sfiorandomi appena con le labbra ghiacciate, mi fa alzare e raggiunge la donna, prendendole le mani. «Pensavo potessi darci l'auto di Spencer...» non fa in tempo a concludere la frase che Sandra ritira le mani, chiudendole a pugno e puntellandosi i fianchi.
«Ma sei matto?» strilla sommessamente, fulminado Metcalfe con gli occhi castani. «Mio figlio mi ammazza! Non ho il permesso nemmeno di aprire il garage, figuriamoci quello di prestare l'auto a chi che sia!».
«Sandra, ti prego. Cerca di ragionare. Non sarei qui a implorare il tuo aiuto se avessi anche solo un'altra scelta» dice Metcalfe, tentando di far leva sulla sensibilità della donna.
«Non posso, mi dispiace» ribadisce Sandra con livore.
Oh, ma possibile che Metcalfe sia così impreparato?
«Levati.» Con poco garbo mi inserisco nello spazio tra lui e la donna. «Ascoltami attentamente, nonna...».
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