16. Metcalfe

"La notte si stende sulla città come una puttana quando si inginocchia e gli edifici si curvano come siringhe vuote. Qui il male si centrifuga in un vortice di crudeltà e l'unico respiro è quello delle... anime morte. "

The Crow [Libro Secondo: Paura] - James O'Barr


Ho salito le quattro rampe di scale con la furia in ordinato aumento, aprendo con una spinta decisa la piccola porta della soffitta, infischiandomene di domandare un permesso che, arrivati a questo punto, mi pare più ridicolo che superfluo. Non sono in grado di calcolare quanti secondi mi sono occorsi da quando ho varcato l'ingresso a quando sono giunta qui, ma posso confermare che il tragitto, breve o lungo a seconda di come viene ora interpretato il tempo, è stato sfruttato per generare quanta più rabbia ho potuto. E questa irritazione si sta ingigantendo ancora, mentre impedisco a me stessa di scandagliare la stanza alla ricerca di Metcalfe.

A volte capita, no? Di avere qualcosa proprio davanti agli occhi e non riuscire a vederla, o di nascondersi dietro lo shock per evitare di guardare... vero? Mi pongo questi interrogativi, e farlo, contro ogni mia intenzione, raffredda la collera e lascia spazio all'ansia di non trovarlo qui come mi aspettavo.

Sono morta. Morta nel significato più crudo del termine, e ormai non esiste altro espediente per sciogliere questo vincolo tra me e la mietitrice. Se avessi saputo almeno con un po' d'anticipo di questo appuntamento, avrei provato a sistemare il sistemabile, lasciando il più possibile le cose in ordine.

Respiro una decina di volte, l'aria entra ed esce senza travaglio e senza alcun sollievo, mi asciugo l'acqua sugli occhi con il dorso della mano, ma non ottengo un gran risultato dato che anch'esso è bagnato.

E va bene, lo cerco...

Metcalfe è seduto sul davanzale della finestra triangolare senza tende; il suo corpo è rinsaccato, indossa una camicia bianca e dei pantaloni scuri, la fronte appoggiata al vetro e una mano graffettata ai capelli spettinati. Tutto il mio meticoloso lavoro di arrabbiatura si sfalda alla vista di quest'uomo che, semplicemente esistendo, è capace di scatenare in me un paradisiaco inferno.

«Non riesco più a sentirti, sai?» sussurra, le labbra incollate al polsino della camicia.

«Cosa intendi?» chiedo di getto, curiosa di conoscere il significato di quelle parole, speranzosa di vederlo voltarsi.

Non lo fa. «Adesso che sai tutto sei esattamente come gli altri, non riesco più a distinguerti» chiarisce mesto. «Se sei tornata con l'intenzione di uccidermi... sappi che non puoi».

Ucciderlo... A sconvolgermi non è tanto quello che ha detto, ma il modo in cui lo ha detto: pacato, freddo, concreto come l'ipotesi di bere da una sorgente dopo una settimana di cammino nel deserto arido. Come può anche solo pensare che sia questa la mia intenzione?

«Ucciderti? Ma che stai dicendo, Metcalfe?» faccio un passo avanti e mi sposto accanto al camino. «Non ho alcuna intenzione di ucciderti».

Sorpreso, si gira di scatto e sgrana gli occhi. «Oh, Shelly...» la sua voce è dolorosa e rispecchia la sua espressione sconfitta. Smonta dal davanzale e fa per avvicinarsi.

«No, fermo!» tendo il braccio nella sua direzione, il palmo leggermente aperto, e lui si irrigidisce all'istante, annuendo al mio ordine rispettosamente. «Rimaniamo così... per ora. Io mi siederò qui», indico il pavimento a sinistra dei miei piedi, «e potremo parlare. Sempre se sei d'accordo».

Si infila le mani in tasca. «Sono d'accordo». Manca un sorriso sul suo viso bellissimo, una ginnastica facciale che strappi le rughe profonde dalla sua fronte e le trasporti agli angoli della sua bocca, ma posso comprendere quanto debba sentirsi a disagio in questo momento, soprattutto dopo quello che c'è stato tra di noi e che non so se poteva accadere.

Porto le mani dietro la schiena, tastando il legno ruvido della parete, lasciandomi poi scivolare contro di essa fino a sedermi sul parquet, le ginocchia piegate contro il petto. «Ti ascolto» dico semplicemente, guardandolo dritto negli occhi.

Metcalfe si prende il labbro superiore tra i denti e annuisce di nuovo. «Sono un guardiano, una specie di frontaliere se vuoi, uno che guarda sia all'interno che all'esterno della porta... che è in grado di vedere il passato e il futuro e ha il compito di intrattenere i... passeggeri».

Deglutisco una saliva che esiste solo nella mia immaginazione, registrando tutti i termini che ha usato Metcalfe e cercando un'etimologia nell'archivio impolverato della mia cultura universitaria. «E sei...vivo?» domando esistante, ritenendo questa informazione prioritaria rispetto alle altre.

«Tecnicamente non lo sono mai stato».

«Fantastico...» commento a denti stretti e i miei occhi volano automaticamente al soffitto.

«Il nome che definisce il mio ruolo è Janus, come Giano bifronte, mai sentito?» inclina la testa sulla spalla, chiaramente fiducioso in una risposta affermativa, e io posso accontentarlo.

«Sì, certo. Era un dio con due facce, che presidiava i passaggi nella mitologia greco romana, esatto?»

«Più o meno è corretto» scuote il capo. «Solo che non sono un dio, e che ce ne sono molti altri come me. Fanno il mio stesso lavoro, ma in luoghi diversi, in città diverse».

«Esattamente in cosa consiste il tuo... ehm lavoro?» Con le braccia mi circondo le gambe, stringendole maggiormente contro il petto. Non smetto, però, di fissarlo. Sarà pure un essere senza spazio e senza tempo, ma rimane sempre affascinante oltre ogni definizione, detentore di un potere magnetico nei miei confronti. Devo sforzarmi di tenere a mente ogni secondo che sono morta, che non vivo più, e che tutto deve assumere un'altro significato, anche la mia attrazione per lui.

«Burgos mi è stata affidata una ventina d'anni fa, prima stavo altrove, ci fanno girare. Capisci cosa intendo?». Credo di capire, quindi mimo un assenso con le labbra, sufficiente a farlo proseguire. «Una turnazione necessaria per evitare che il nostro essere venga corrotto. Vengono chiamati cicli, lassi di tempo variabili, durante i quali prepariamo i passeggeri all'imbarco finale, assicurandoci che ognuno imbocchi la direzione scelta».

«Scelta da chi? Da Dio?» azzardo.

«Dal Consiglio» mi corregge, quasi la mia domanda fosse un insulto. «Devi distaccarti dal concetto di Dio inteso come capo di tutto il creato, o colui al quale viene rimessa ogni decisione. Il sistema è molto più complicato. Piramidale. Il Consiglio siede sul gradino più alto e man mano che si scende si incontrano i delegati, personalità che trasmettono gli ordini e si assicurano che, chi sta sul gradino immediatamente sotto, li esegua alla lettera.

«Io, per esempio, sorveglio il trapasso, accertandomi che non vi siano incongruenze con il passato del nuovo arrivato e il futuro che lo attende; gli offro un soggiorno nella mia città, aiutandolo ad acquisire confidenza con il nuovo stato e preparandolo a una fine quanto più possibile serena. In fondo, non è questa gran cosa...» solleva le spalle e sembra un ragazzino mentre lancia un'occhiata alle sue spalle, oltre il vetro della finestra venato di pioggia. «Lo faccio da tanto tempo».

Prendendo atto della sua sincerità, decido che le spiegazioni mi vanno bene. Mecalfe se la sta cavando egregiamente, tutto sommato, ma io voglio più dettagli, specifiche di ciò che è e di cosa siamo io e lui, e perché...

«Okay. Diciamo che fin qui la storia mi sta bene» decreto calma. «Ma come la mettiamo con quello che è successo tra di noi? E' normale? Voglio dire... ti capita di frequente?» Arrossisco, e non posso sapere se lo sto facendo veramente o se è un imbarazzo astratto come il disagio di poco fa.

Metcalfe raggiunge l'ottomana su cui era seduto la prima volta che l'ho visto, mette una mano sullo schienale, stringendolo il bordo decorato con forza, le sue nocche si sbiancano, ed è come se cercasse un sostegno - o un incaglio - per non avvicinarsi a me.

«No» spinge fuori faticosamente, il suo sguardo diventa blu elettrico e mi trafigge l'anima, lasciandomi per attimo senza fiato. «Non so cosa sia successo con te, cosa sia andato... storto» Muove l'altra mano nell'aria e un asciugamano bianco, perfettamente piegato, appare sul pavimento di fronte a me. «Asciugati, per favore. Sei completamente zuppa».

Lo raccolgo e me lo avvolgo attorno alle spalle, chiudendolo sul petto. «Grazie».

«Quando sei arrivata e sono venuto a recuperarti, appena ti ho toccata, ho avvertito qualcosa... come una scarica, appunto, talmente forte che ero convinto non fossi del tutto passata...»

«Che significa "non del tutto passata"?» lo interrompo.

«Significa che pensavo ci fosse stato un errore, e che tu fossi ancora metà da una parte e metà dall'altra, non saprei come spiegartelo in altro modo».

«Ho capito, ho capito» dico in fretta. «Ma in realtà ero passata, giusto?»

«Sì» chiude gli occhi e si piega in avanti appoggiando la fronte sulla mano che stringe lo schienale della seduta. «Era qualcos'altro... ne ho avuto la certezza quando sono tornato al Blue Swallow e ti ho preso per la seconda volta tra le mie braccia. Improvvisamente starti lontano è diventato incontemplabile, così come lasciare che gli altri ti trovassero e ti spaventassero prima che tu ti rendessi conto di quello che ti era successo. Solo che...» è lui a interrompersi e lo sento mugugnare parole senza senso a voce molto bassa.

«Solo che?»

Respira velocemente, raddrizza il busto e mi dà le spalle. «Solo che nel tentativo di scoprire cosa ci fosse tra di noi ho fatto un bel casino: ti ho mostrato la vera Burgos, cosa che non posso assolutamente fare, e quel che è peggio, ti ho lasciata libera di intrufolarti in un tempo che non può ospitarti nemmeno per un secondo. Così facendo, ho scatenato l'ira di molti e dato il via a una serie di eventi che non ho il potere di fermare, né controllare» confessa con disperazione crescente.

A quel punto mi alzo, l'asciugamano rovina a terra. «Ma quella donna, Sandra... lei mi ha vista!» gli ricordo con enfasi. «Al Motel lei... lei mi ha parlato e io ho anche usato il suo telefono...»

«No, Shelly!» si intromette Metcalfe, tornando a guardarmi; ha la camicia stropicciata sopra il torace rigido e teso. «Lei può vedere i... morti. E'un dono che ha fin da bambina. Per questo ti ho mandata da lei, volevo regalarti qualche ora di normalità».

Oh, porca puttata! Adesso sì che riesco a collegare tutto: le telefonate a vuoto, il modo compassionevole in cui quell'uomo guardava Sandra mentre parlava con me, la sparizione del Motel il mattino dopo...

«Era tutto finto» dico mettendomi le mani nei capelli, l'angoscia si spalma uniformemente su tutta la mia pelle. «Ci ho pensato e ripensato... credevo che almeno quello fosse una sorta di ritorno, un sogno nel sogno magari...»

«Era reale, Shelly» dice Metcalfe alimentando il mio orrore. «E, credimi, lo avrei fatto durare di più se non me lo avessero impedito. Ho fatto tutto quanto in mio potere affinché potessi vivere ancora qualche ora in un mondo... normale». Le sue parole sanno di verità, e una parte di me vorrebbe perdonare tutti gli sbagli che ha commesso durante la sua manovra per farmi dono della normalità, come l'ha definita lui; ma l'altra parte di me, quella straziata dalla miriade di accadimenti sconclusionati degli ultimi giorni, non riesce proprio a farlo, né tantomeno è in grado di accettare interamente il destino impostole con tanta crudele durezza.

Mi guardo intorno e mi sento ancora una volta in trappola, come se appurare l'oggettività della situazione avesse incrementato la paura anziché rendermi libera. Crollo in ginocchio, trascinandomi nell'angolo in cui ero seduta prima. «Non posso accettarlo, Metcalfe» mormoro abbracciandomi le gambe umide. «Io davvero non posso».




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