14. Dove sei... realmente

"La vita era uno squallido baratto, soldi contro tempo. Coi soldi potevano comprarsi un po' di tempo, va bene, ma col tempo che cosa si sarebbero comprati? La possibilità di vedere il loro amore trasformarsi in cenere? Sentire che tutto si svuotava di significato era spaventoso."

Follia - Patrick McGrath

Ho sempre amato i mostri che ti pugnalano alle spalle e le fate che ti sorridono godendo della tua sofferenza. L'ho sempre trovato equo, dato che sono un mostro; lo sbeffeggiamento da parte di esseri buoni è meritato e ben accetto. Mi vengono in mente queste assurdità mentre guardo Shelly Morgan che dorme accanto a me, nuda, e malgrado continui a coltivare certe convinzioni, spero con tutto me stesso che lei non sia una fata pronta a ridere della mia efferatezza.

E' notte fonda, almeno apparentemente, non avendo la luna a disposizione ho acceso una candela nell'angolo più buio della stanza. Voglio solo ombre discrete tatuate sulla pelle della mia dea, volumi poco invadenti tra me e lei.

«Ehi» mugugna con gli occhi ancora chiusi. Si scosta un nido di capelli dalla fronte e strofina il naso sul mio braccio.

«Ciao straniera» dico accarezzandole la schiena. «Arcobaleni e unicorni?»

Ride e soffoca la risata premendo le labbra sulla pelle del divano.

Sbuffo. «Ah, non mi dire che sono ancora tempeste e zombie perché la mia autostima potrebbe risentirne in modo brutale.»

Shelly apre un occhio e mi fissa sospettosa. «La tua autostima?»

«Sì» confermo con un sorriso beffardo. Porto una mano sulla guancia e la fisso con un'espressione fintamente sconvolta. «Mi aspetto come minimo una frase sul genere: "Oh, Met, sei stato strepitoso! Bla-bla-bla... Grazie alla tua prestazione super-eccezionale ho dormito il miglior sonno della mia vita"» sfrigolo con la più credibile voce bianca del mio repertorio, scatenando un'ulteriore cascata di risate in Shelly.

«Ma tu chi sei? Che fine hai fatto fare all'arcigno sindaco di Burgos?» chiede non appena riesce a recuperare la calma. Ha gli zigomi rosso acceso che, insieme alla pettinatura sconvolta e agli occhi lucenti, la rendono la donna più bella dell'universo.

«Non sono mai stato arcigno» ribatto. «Sei tu che ti sei costruita questa idea nella tua testolina matta!». Le picchietto l'indice sulla tempia e poi le incastro tutte le dita nella chioma biondo platino: è più forte di me, non riesco a staccarmi da lei.

«Attento, Signor Nott. Potrei approffittare ancora delle sue attenzioni» miagola socchiudendo gli occhi e strisciando più vicino a me.

Ma cosa sto facendo? Sono così stordito dalla sua presenza da aver completamente dimenticato che questo interludio ha i minuti contati; ho sconfinato, esasperando un'indulgenza che in realtà non mi è stata mai concessa, ho sfidato apertamente una lista di obblighi ai quali non potevo disattendere, spuntando, a uno a uno, tutti i divieti più rigidi della mia carica.

Stringo Shelly tra le mie braccia, coprendo i nostri corpi con il lenzuolo di seta che avevo fatto apparire dopo che lei si era addormentata. Vorrei che questo pezzo di stoffa fosse in grado di farci sparire, di risucchiarci in una dimensione che nemmeno io conosco, che potesse nasconderci da tutti quelli che ci stanno dando la caccia. Perché sono in tanti e... arrabbiati. Molto arrabbiati.

Unirmi a lei era stato qualcosa di indescrivibile: una connessione talmente pura ed estrema, nei picchi di fusione, che stento a credere di essere sopravvissuto. C'era stato più di un momento in cui non ero più io, ero qualcos'altro, di etereo e totalmente libero dai cancelli che imprigionano il mio compito; mi ero sentito così piccolo e meravigliosamente parte del suo essere immenso da avvertire la mia essenza sbriciolarsi dentro il suo corpo, fondersi con ogni brandello della sua carne ed esplodere in miliardi di raggi di luce. Se il mio corpo aveva davvero fatto questo, la mia mente era riuscita addirittura a decuplicare la propria portata, allargandosi a tal punto che mi era sembrato d'abbracciare l'universo intero. Ero così maledettamente vicino... solo a un passo dal comprendere il significato di avere un'anima. Per la prima volta avevo provato una fame diversa, artigliante, un appetito incognito per un nutrimento diametralmente opposto alla mia dieta: la vita.

«E' arrivato il momento, vero?» mi domanda, iniziando a tremare.

Appoggio la fronte alla sua. «Cosa te lo fa credere?»

«Lo vedo che sei turbato, e tutto mi porta in un'unica direzione»risponde tristemente.

Sono un idiota. Un misero escremento della feccia stessa della mia razza. Sono questo e basta perché pronuncio la stupida parola: «Quale?»

«Quella in cui finalmente ti decidi a dirmi cosa sta succedendo, dove siamo e...», si morde il labbro, «... chi sei».

Oh, piccola...

«Tu davvero non hai nessuna teoria?» insisto pacatamente; in fondo, deve essere lei a scoprirlo, io posso solo indirizzarla.

«Un paio» ammette dopo qualche secondo di riflessione. «Ma sono talmente assurde che mi imbarazza anche averle solo pensate».

«Assurdo è il mio secondo nome, piccola» cerco di sdrammatizzare. «Quindi non farti problemi».

Infila una gamba vellutata tra le mie. «Forse sono in coma e questo è... è un sogno?» mi scruta timorosa e i suoi occhi diventano più grandi.

Sto perdendo la concentrazione, averla così vicino mi ha fatto eccitare, di nuovo. «E il mio ruolo sarebbe?» Le concedo un piccolo sorriso di incoraggiamento, sono curioso di conoscere in che punto ha posizionato la mia pedina sulla sua scacchiera mentale.

«Non so... l'ultima fantasia proibita prima del trapasso, probabilmente. E se fosse così potrei accettarlo, anche se la delusione sarebbe enorme».

«Mmh... e come la metti con tutta quella gentaglia che prima ti inseguiva? Che ruolo hanno loro?»

La sua pelle si raffredda all'istante sotto le mie dita. «Immagino che possano rappresentare tutti gli sbagli che ho commesso, una sorta di figuarazione mostruosa delle punizioni che mi sono state risparmiate».

Cazzo. Niente di tutto questo mia dolce Shelly Morgan, e io non sono affatto una fantasia proibita elaborata dal tuo subconscio ferito: sono colui che deve... staccare la spina!

Non ce la faccio più: la volontà di svelarle il mistero supera persino il mio intemperante desiderio di fare l'amore con lei. «Io non posso dirtelo, Shelly. Io...» sto per aggiungere altro ma lei mi interrompe decisa.

«Ma ci deve essere un modo!» mormora feroce. «Ci deve essere qualcosa che puoi dire o fare perché io capisca. Ci deve essere...» abbassa per un attimo lo sguardo e poi lo riporta sul mio viso. «Dimmi che c'è, Metcalfe!».

Fra gli indici interminabili dei manuali dei Janus non esiste un capitolo, un sottocapitolo o un'appendice che cotempli anche solo di sfuggita una situazione simile; non viene nemmeno presa in esame l'eventualità che uno di noi possa accostarsi tanto a un precario, alla sua inconsistenza, o al desiderio di tramutare tale precarietà in permanenza al nostro fianco.

«Forse» dico pentendomi immediatamente del possibilismo. «Ma non ti piacerà». Oh, sicuro che non le piacerà...

«Vuoi dire che sarà più terrificante dei mostri della tavola calda, o dei tuoi muri invisibili o... di tutte quelle versioni di Burgos che mi hai mostrato dalla tua finestra?» indaga ironica. E' sorprendente il modo in cui riesce a snocciolare l'elenco di stranezze senza tradire il panico.

«Quelle cose ti hanno terrorizzata?»

Un velo di rassegnazione cala sul suo viso. «Ormai non saprei dirti cosa mi fa più paura. Non so neanche se questa è la realtà, e il mio lato investigativo è molto stanco, Metcalfe. Stento a riconoscermi...»

«Perché dici questo, Shelly? Tu sei ancora...tu. Non dubitare di questo». Le accarezzo le guance bollenti e la scossa tra di noi ricomincia a scoppiettare come una manciata di petardi lanciati in un falò.

«Tu dici?» se ne esce retorica. «Io non credo, sai... Quella che sono, da quando mi trovo qui, è del tutto divergente dalla Shelly Morgan di New York. Io non sono... così. Non cedo agli impulsi tanto facilmente, e soprattutto non... non...»

«Piangi?» la anticipo sapendo già che avrebbe detto quella parola, per lei difficile da pronunciare quasi quanto l'accettare di essere stata sconfitta da tale emozione.

Annuisce e stringe le labbra. «Perciò dubito che qualcosa possa sconvolgermi più di quello a cui ho assistito fino a ora».

Perché? Perché sto per fare quello che sto per fare?

«Va bene» dico mordendomi la lingua. «Ora ci vestiamo e ti porto in un posto» annuncio fermo, e mentre lo dico mi accorgo che non uno fra i miei muscoli concorda con il pensiero che ho appena espresso.

«O-okay» balbetta Shelly stupita dalla mia accondiscendenza. Sfortunatamente, non riesco a sopportare l'idea che si sposti di un solo millimetro da me.

«Aspetta» la trattengo per i fianchi. «C'è una cosa che dovresti sapere prima. E' giusto.»

«Cosa?» la sua fronte si increspa, ma percepisco chiaramente che la sua voglia di restare qui con me è in netto vantaggio sulla ricerca spasmodica di una risposta logica ai suoi dubbi.

«Ecco, ci sono buone probabilità che tu possa odiarmi, Shelly» dico tutto d'un fiato. «E se il tuo odio si concentrasse esclusivamente su di me sarebbe... diciamo accettabile, per usare il tuo termine di prima. Ma se per caso dovesse esterdersi anche a te stessa io non potrei impedirlo, è bene che tu lo tenga presente questo».

La sua espressione cambia radicalmente, severa. «Basta, Metcalfe! Fammi vedere. Ora!»

***

Shelly Morgan è una foglia dorata, disidratata e prossima a staccarsi da un ramo spoglio che non ama particolarmente il suo peso.

Non ci siamo più detti una sola parola. Ci siamo vestiti nel buio e nel silenzio dei nostri pensieri ululanti, e quando le ho preso la mano per iniziare la smaterializzazione, lei l'ha accolta con risolutezza, fissando l'oscurità che aveva di fronte con una fierezza senza pari.

«Mi dispiace riportarti qui, Shelly...»

«Non c'è problema. Te l'ho chiesto io» commenta, la sua mano, ancora nella mia, tremola leggermente. «Devo entrare?» domanda scrutando tutto il perimetro del cimitero, per accertarsi che io sia l'unico spettatore di questa tragedia deforme.

«Sì» rispondo calmo. «Ma posso accompagnarti se non te la senti di andare da sola».

«A questo punto, credo che sia superflua una sorveglianza ravvicinata, non ti pare?» Mi guarda di sfuggita, un sopracciglio acuminato, poi molla la presa e si incammina verso il cancello.

E' assolutamente escluso che io le lasci affrontare la verità senza un supporto, per quanto inutile e probabilmente peggiorativa possa essere la mia presenza. Mantenendo una distanza di sicurezza, la seguo. Shelly lo sa benissimo e mi lancia un'unica profonda occhiata indecifrabile prima di oltrepassare l'ingresso.

Anch'io varco la soglia, con la mano spazzo un po' della nebbia che abita questo posto, stendo un lieve strato di colore sull'erba e sulle lapidi, ognuna identica all'altra, disposte come il serpente delle tessere di un domino. Posso fare solo questo, è il massimo aiuto che mi è consentito dare al suo istinto, deve trovare la sede con le proprie forze. E lo fa. Le bastano pochi sguardi, qua e là tra le tombe, per trovare quella giusta. Gli ultimi arrivati sono sempre prossimi all'ingresso, è la norma, si parte dal fondo, in tutti i cimiteri delle cittadine.

I pugni mi si serrano automaticamente, e la osservo piegarsi sulle ginocchia davanti alla lapide che io stesso ho scelto qualche giorno prima. Scuote la testa un paio di volte, molto lentamente, e poi la sua mano destra raggiunge la bocca, dove si appoggia ferocemente smorzando un grido d'orrore. La sua mano sinistra, invece, traballando va incontro al marmo grigio, le dita sfiorano appena la prima lettera incisa.

Non ho mosso un passo ma la sto chiamando ininterrottamente da almeno cinque minuti. Non voglio urlare per costringerla a rispondermi, ma questa scena è insopportabile.

Ho quasi abbandonato ogni speranza, quando Shelly, china sulla tomba, senza staccare gli occhi dal suo nome, sussura: «Vattene!».


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