12. Undiscovered (seconda parte)
" «Per mia mano, per mia volontà» Sono queste le parole che usa nel suo incantesimo. Sono queste le parole che ti legano a lui per sempre."
Immortal - Alma Katsu
Sento il suo profumo prima di tutto il resto. Un folle, inebriante profumo di legno, accostato a quello che mi sembra il buon odore di uno shampoo per bambini; una miscela senza difetto che satura l'aria inodore e, entrando nei miei polmoni, diventa un balsamo per il mio cuore malconcio.
Le lacrime fanno male, non lo avrei mai creduto; bruciano, scottano e solleticano la pelle, sciogliendo il particolare di ogni cosa, falsando le immagini che ho davanti. Se mi è concesso dirlo, sono in grado di trasformare l'orrore in bellezza, isolandoti dal male, creando una barriera che ti protegge da qualsiasi destino.
Vedo il suo viso attraverso le lacrime. Un incredibile e magnifico volto senza tempo, impreziosito da due frammenti di cielo e incastonato in una chioma spettinata di puro platino.
«Rimettili a cuccia. Tutti! E assicurati che ci restino» dice Metcalfe a qualcuno che non vedo.
«Che ne facciamo di lei?» chiede ansiosa una voce maschile.
«Me ne occupo io» risponde Metcalfe, perentorio. «Tu, vai!» ordina subito dopo. Nel suo tono c'è una sollecitudine equivoca, come se desiderasse sbarazzarsi del complice per occuparsi di altro. Di me.
L'angoscia si slaccia dal mio petto, e ogni mia debolezza viene ammansita dal suo tocco, solido e valente, dalle sue braccia che mi circondano le spalle e mi sollevano; provo una sensazione strana, come l'effeto di un déjà vu, come se fossi già stata più e più volte in questa posizione, ospitata dal corpo caldo di Metcalfe e cullata dalle sue premure. Avverto un gran chiasso e, con ogni probabilità è la comitiva mostrusa che si sta allontando. Non posso fare a meno di immaginare gli abitanti di Burgos spronati a ritornare in paese da un un solerte pastore, ricondotti alla macabra routine che tanto mi spaventa.
«D- do... dov'è Nicholas?» tartaglio contro la maglia di Metcalf; un po' di saliva mi sfugge dalle labbra, quasi fossero anestetizzate e non riuscissero a controllare nulla.
«Non preoccuparti per lui, Shelly» dice intensificando l'abbraccio. «Nicholas starà bene» mi assicura.
Voglio sperare che sia solo colpa dell'adrenalina se un'involontaria cupidigia, attraversandomi come una scossa, ha preso a far vibrare la mia intimità; non potrebbe esserci momento più inadatto per assecondare un simile istinto.
Metcalfe si muove, talmente rapido che non riesco a capire quale direzione abbia scelto, il suo passo non mi fa sobbalzare, consentendomi di esplorare la robustezza della sua muscolatura nervosa sotto la maglietta. Sfiorando le sue forme, le mie dita si caricano di elettricità e il mio cervello si infiamma al solo pensiero di poter eliminare quell'ostacolo.
«Dove stiamo andando?» la mia voce è più compatta, resa tale dalla contentezza di essere finalmente circondata da un qualcosa di buono.
«In un posto sicuro» dice contro i miei capelli. «Dobbiamo mettere un po' di distanza...» si interrompe e sospira. «Cerca di pazientare, non ci vorrà molto». Dò uno sguardo al suo viso e la sua espressione è imperscrutabile, seriamente determinata: è splendido.
«Okay» mormoro con un piccolo sorriso. Alla sete fisica di lui, si aggiunge anche un isterico bisogno di ridere. Non so spiegarmi il perché di questa assurda reazione, ma ogni secondo che passa equivale all'intensificarsi di un prurito che fa la spola dal mio stomaco alla gola, spingendo affinché io gli consenta di esplodere.
Dalla sua bocca escono un sacco di parolacce mangiucchiate mentre vaghiamo tra gli alberi e la nebbia, alcune riesco a capirle, altre mi sembrano in una lingua sconosciuta.
«Cosa c'è, Metcalfe?».
Sbuffa pesantemente. «Niente».
Come sarebbe a dire 'niente'? «Ti prego... dimmelo!» chiedo con fervore.
L'indecisione si propaga in tutto il suo corpo, e io sento le sue dita più in profondità sulla mia pelle, appena sopra il ginocchio.
«La senti anche tu... vero?» dice quasi ringhiando, e io ho paura a dire quello che la mia mente instabile forse ha inteso.
«Cosa?»
Si tortura il labbro superiore con i denti, sensuale da morire. «Questa... cosa, tra di noi...» dice infine sforzandosi notevolmente.
«Intendi questa specie di...», anch'io fatico a trovare il termine adatto, «... scarica?» azzardo.
Metcalfe annuisce immediatamente. «Mm-mm» pronuncia a labbra serrate e poi i suoi occhi cercano i miei, brillando come laser il cui raggio ferisce le miei pupille già martoriate dal recente pianto.
«Sì» confermo senza esitazione. «La sento anch'io. E'...»
«Incredibile» conclude per me. E non è una domanda. Sceglie una parola semplice che, però, non sminuisce affatto l'efficacia della risoluzione che ha trovato per entrambi.
Dunque, la percepisce anche lui, questa scarica, questo incredibile campo elettromagnetico che si sprigiona ogni volta che siamo abbastanza vicini l'uno all'altra da non accorgerci di tutto il resto. Vedo prematuro abbandonarmi alle lusinghe e concedere nuovamente alle mie parti sensibili la pericolosa rilassatezza di poco fa. Sono una donna intelligente e, modestia permettendo, dotata di un'acutezza sorprendente, so che non mi ha ancora detto chi è e cosa sia tutto questo inferno che si ostina a chiamare Burgos; sto lottando contro il timore di avere delle risposte e il rigore che mi intima di pretenderle.
«Là, dove andremo, mi dirai chi sei e cos'è questo posto?»
Rimane in silenzio, neanche un suono esce dalle sue labbra piene, e questo mi preoccupa.
«Metcalfe?» insisto, graffiandogli leggermente la maglia all'altezza del petto.
Scrolla appena le spalle. «Non ho ancora deciso».
«Non vuoi dirmelo...» sussurro rassegnata, pensando a quanto, in fin dei conti, assomigli a ogni altro uomo vagamente attraente conosciuto nella mia vita. Gli enigmatici, i caparbi, gli avvezzi a quelle omissioni che spacciano per riservatezza... sono loro i più pericolosi, e il mio fiuto mi sta dicendo che Metcalfe è senza dubbio un membro attivo della categoria.
«Non posso, dirtelo, Shelly!» mi corregge alzando la voce. «C'è una bella differenza, credimi. Non si tratta di una scelta personale, e se potessi scegliere con chi condividere queste informazioni puoi star certa che sarebbe con te». Suona tanto come: sei l'eletta, la persona giusta per questo segreto che non ti rivelerò mai per il tuo bene; ed è una frase che mi hanno propinato spesso, in tanti, gli stessi che hanno poi finito con il confidarlo alla troia di turno, convinti che levarsi il peso con una donna incostistente fosse meno impegnativo, che impelagarsi in dettagliate descrizioni emotive con chi li avrebbe torchiati fino a spremere ogni goccia del segreto che si portavano appresso li avrebbe resi meno uomini. E' sempre la stessa fottuta storia...
«Certo, meglio una donna ignorante e felice, piuttosto che una istruita e triste» dico con un punta di cattiveria eccessiva.
«Falla finita, non è affatto come dici! Stai straparlando e arrivi a delle conclusioni che non hanno il minimo senso» mi rimprovera, ma c'è sempre questo parossismo di calma misto a ilarità nel suo tono che non smette di confondermi.
Per qualche ragione, che mi è difficile assimilare, le sue parole mi zittiscono, relegando una parte del mio orgoglio nella tana buia e fredda delle offese; l'attimo di risentimento, però, dura poco perché siamo arrivati a destinazione.
Metcalfe si ferma di fronte a una minuscola casetta di legno, poco più ampia di un capanno per gli attrezzi, dietro la quale si intravede uno specchio d'acqua delle dimensioni di una piscina olimpionica, una specie di mini lago ovoidale incassato tra gli alberi e i cumuli di rocce grigie. Mi tiene ancora in braccio quando sale la scaletta che sfocia su un'altrettanto minuscolo ballatoio d'ingresso.
«E' casa tua?»
Sorride. «Diciamo che è in prestito. Qui saremo al sicuro... per un po'». Mi piacerebbe che quantificasse quel po' tanto ostile e temporaneo, e mi piacerebbe chiedergli se è stanco dopo avermi scarrozzata su e giù per il bosco. Ha l'aria riposata e questo è davvero singolare, niente fiatone o tracce di sudore che mi parlano della sua fatica, eppure è piuttosto snello e io non sono certamente un peso piuma. Dà un calcio alla porta, che si spalanca senza difficoltà, fermandosi sulla soglia come se aspettasse il mio consenso per entrare, così sposto lo sguardo dal suo bel viso all'interno della stanza e...
«Cazzo!»
Lui sorride come un ragazzino, e poi ride, espirando più volte di sollievo. Mi deposita a terra, sostenendomi per un braccio per evitare che io possa cadere, e chiude la porta.
«Lo so» dice semplicemente. Lo strattono un poco e lui mi lascia andare. «Vuoi che la faccia sparire?»
«Ecco, io...» Mi guardo intorno, anche se non c'è niente da guardare, e ho il timore di allontanarmi troppo dall'uscita. La nebbia sta diventando la mia migliore amica, o almeno l'unica amica che si presenta al provino per la parte in questo universo alternativo; ma trovarmela qui, spinta a forza in questo ambiente, a prima vista almeno il doppio del volume esterno, è illogico.
Tutto, proprio tutto, è imbacuccato dalla nebbia, e non si vede assolutamente nient'altro. Esterrefatta, mi volto verso Metcalfe, convinta sia risucchiato dalla bruma, e invece lo trovo lì, appoggiato alla porta chiusa, rilassato e con le braccia abbandonate lungo i fianchi; ora posso esaminarlo con attenzione: jeans neri, maglietta bianca e capelli umidi, come se fosse appena uscito dalla doccia. E' dannatamente e indiscutibilmente attraente, di una golosità ai limiti della tentazione.
«Allora, che hai deciso?» Mi inchioda con uno sguardo di umoristica lussuria e le gambe ricominciano a tremarmi. «Nebbia sì, o no, Shelly?»
Mi ricompongo, fissandolo negli occhi con risolutezza. «No».
Metcalfe si stacca dalla porta e fa un passo avanti, alza il braccio e con la mano smuove il fumo bianco che galleggia nell'aria; il suo intervento disegna delle strisce scure che, dilatandosi, puliscono in pochi secondi l'offuscamento che ci circonda.
«Devi spiegarmi, Metcalfe» dico piano, molto prima di interessarmi a ciò che è comparso nella stanza. «Io... non posso continuare così, non ce la faccio più».
«Io nemmeno, ma per motivi diversi temo» mi comunica con un filo di voce, principiando ad ansimare in un modo talmente prepotente che penso si senta male. Non mi stacca gli occhi di dosso, allargandoli a dismisura, e ho come l'impressione che stia per avere un attacco di panico, o qualcosa di simile.
«Ti senti bene?» gli chiedo allarmata da quel repentino cambio d'atteggiamento. Sono indecisa se raggiungerlo per confortarlo, o rimanere ferma dove sono per proteggermi nel caso in cui diventasse violento.
«Non proprio» risponde lui serissimo, schiudendo le labbra per recuperare aria.
Non so cosa devo fare. «Come posso aiutarti, Metcalfe? Parla!»
«Mi dispiace» continua con la voce affaticata dalla respirazione. «Credevo di...» si interrompe, chiudendo e riaprendo gli occhi, si morde le labbra con furia, serrando i pugni come se fosse sul punto di sferrare un colpo. «Pensavo di farcela...».
Scuoto la testa e aggrotto la fronte. «Fare cosa? Non capisco...» lascio la frase in sospeso e gli ingranaggi del mio cervello iniziano a rollare incontrollati, sfornando un'ipotesi dietro l'altra nel tentativo di giustificare il suo cambiamento. Vuole uccidermi? Mi ha portata qui per ammazzarmi lontano da potenziali testimoni? Come farò a difendermi? Il presunto panico che ha colpito Metcalfe contagia anche me, vincolandomi a un'investigazione accurata dei paraggi.
La luce entra pacatamente dalla vetrata in fondo alla stanza, oltre la quale il lago azzurrino è immobile e solitario. Non è apparso granché: pavimento in legno, un baule di ferro, una libreria piena zeppa di volumi impolverati e un quadrato di pelle nera al centro della stanza, più un divano che un letto. A parte questi arredi, nient'altro che possa tornarmi utile come corpo contundente per difendermi da un'aggressione.
«Shelly!» pronuncia Metcalfe con forza.
Lo guardo. «Sì?» Dio... la sua espressione è di pura sofferenza, congiunta a un'impellenza veramente arcana.
«Ho così voglia di baciarti che potrei strapparmi la pelle a morsi se tu me lo dovessi impedire!» confessa quasi urlando.
Il modo si sfalda, e con esso ogni mia elucubrazione. Improvvisamente, vedo come una bolla che ci imprigiona, generando un'irreprensibile atmosfera focosa. E' tutto sottosopra, io, lui, la modesta casetta che ci ospita e gli organi all'interno del mio corpo disordinato. Non riesco a spiegarmelo ma scopro che tutto questo caos mi piace, che ne ho necessità, voglia in senso primitivo. Esiste solo questo tumulto, potente, giusto e straordinariamente ordinato e naturale.
«Allora, baciami».
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top