11. Undiscovered (prima parte)
"Gli abiti che portiamo sono l'unico indizio di chi fossimo prima di diventare nessuno"
Warm Bodies - Isaac Marion
«PORCA PUTTANA!» impreco quando il mio sedere impatta al suolo; e non per il dolore, ancora una volta il grande assente, ma per lo sconcertante sbigottimento di trovarmi in mezzo al nulla, precipitata da chissà dove tra polvere e paglia, abbracciata dalla nebbia scura di cui non ho per nulla sentito la mancanza.
«Che cazzo!» proseguo il monologo, alzandomi da terra e guardandomi attorno. Dove diamine è finito il Motel? E, soprattutto, come ha fatto a sparire anche il letto in cui stavo dormendo?
Deve trattarsi di un sogno, non c'è altra spiegazione, un nuovo capitolo-incubo della storia malata che sto leggendo e... vivendo. In certi casi, fare subito mente locale è l'unica potenziale soluzione al problema, prima che il cervello si surriscaldi e si porti via i dettagli fondamentali per la ricostruzione degli eventi recenti.
La proprietaria del motel, la Signora Sandra, mi aveva accompagnato in camera e si era poi congedata, schiaffandomi in mano le chiavi e augurandomi una buonanotte. Dopo aver dato un'occhiata all'ambiente, avrei voluto riacciuffarla e chiederle se, per caso, esistesse una connessione tra il confort della stanza e il fatto che fosse... gratis. Sì perché, con tutto il rispetto per la beneficienza e la solerzia dei benefattori: che schifo! Dieci stagioni di Supernatural, centinaia di frame dei fratelli Winchester mezzi nudi nei bagni dei Motel, decine di hamburger e bottigliette di birra dopo, non mi avevano neanche lontanamente preparata alla dura realtà dei pellegrini della east coast. Il materasso era orribile, la Tv non funzionava, il frigobar era rotto, la finestra non si apriva e nel bagno mancava acqua calda; all'abbondante penuria di arredi funzionanti, si era aggiunta anche la fame - o almeno quello che ritenevo fosse appetito - ma, dato che nessuno mi aveva offerto del cibo o prestato del denaro per procurarmelo, la stanchezza aveva avuto la meglio e così, dopo una doccia polare, ero letteralmente svenuta a letto.
Tutto sommato, la ricostruzione è accurata, e credo non mi sia sfuggito nulla, quindi rimangono da valutare la mia salute mentale e se, o meno, sono davvero in coma. Non necessariamente in quest'ordine.
Okay, forse ho omesso un paio di particolari, devo essere onesta perché il gioco funzioni. Il primo: c'era un armadio, una sola anta un solo cassetto, cinque abiti neri modello sottoveste attira-stupro e cinque completi intimi, identici, sul genere. Avevo indossato sia la biancheria che il vestito, perché i jeans e la maglietta erano troppo sporchi...
Oh, merda! I miei jeans... la mia maglietta nera dei Counterfeit! La rabbia sale, e con essa il bisogno di capire se, oltre al coma e al sogno, nel frattempo fosse scoppiata anche l'apocalisse. Quest'ultima ipotesi mi infonde coraggio, sono preparata, dopo sei stagioni di The Walking Dead lo sarebbe chiunque, balestra di Daryl Dixon a parte, con o senza il machete di Rick Grimes. Sorrido perché, nonostante la drammaticità del contesto, quella serie è la mia preferita e non ci penso nemmeno a perdermi la prossima stagione per colpa di una scuderia di anziani e un sindaco che forse non ha nemmeno l'età minima consentita per bere alcolici.
A proposito di Metcalfe, mi ricordo il secondo particolare sfuggito alla lista mentale degli accadimenti della notte scorsa: avevo fantasticato su di lui. Probabilmente, era da imputare all'estenuazione, alla chiassosa babilonia nella mia testa e al perpetuo pessimismo, ma lo avevo comunque sognato ad occhi aperti. Come avevo fatto a pensare al sesso in una situazione come quella, rimane un mistero; prima di addormentarmi la bellezza di Metcalfe Nott aveva invaso ogni mio pensiero, lavando il marcio che vi era dentro e calpestando gli interrogativi sparsi senza alcun criterio, aveva trasformato l'uomo incredibile che è nell'oggetto assoluto di ogni mio desiderio. Questo è stato distruttivo, la goccia che ha fatto traboccare un vaso già stracolmo di problemi.
Non sono mai stata tanto sensibile al fascino maschile, le relazioni sono, per me, solo il frutto di un istinto intrascurabile, come la sete, e scoprirmi attratta da Metcalfe, da tutto quello che è Metcalfe, dipendente dalla sua sintesi, mi fa paura. Se avessi la sicurezza di riuscire a mettere da parte le stranezze che lo circondano, farei di tutto con lui... anche solo una volta.
A differenza di ieri, che non vedevo dal palmo del mio naso alla punta dei miei piedi, oggi la strada principale è ben visibile e, malgrado la nebbia fitta, posso facilmente distinguere i campi di fiori smorti tra una fattoria abbandonata e l'altra. Esatto, abbandonate è il termine corretto; sono semi diroccate, sporche e completamente disabitate: se questi non sono indizi di abbandono...
«In marcia lussuriosi amici!» alzo le mani al cielo e grido a squarcigola la battuta di un film. Non so come io riesca a riesumare tutta questa fiducia, questa forza abbranchiata al coraggio, voglio pensare che l'istinto di sopravvivenza sia entrato in campo e sia lui a muovere i fili del mio corpo smarrito, determinato a riportarmi a casa, nel caldo abbraccio della mia vita.
«Signorina Morgan» stride una voce di donna da un punto indefinito. «Signorina Mooor-gann?!» Sento nuovamente la voce, e la cantilena con cui pronuncia il mio nome diventa agghiacciante.
Avanzo alla cieca, ruotando su me stessa per capire dove andare, non ho intenzione di rincorrere il possessore di quella voce...
«Ehi, ragazza!» E' un uomo che parla, anche lui invisibile, il suo tono è pesante e cupo. Si unisce alla prima voce e continua imperterrito a ripetere: «Ehi, ragazza!»
Più il richiamo si avvicina e più le voci aumentano, enunciando ognuna una frase diversa. «Vieni, cara. Vieni con noi» Il coro si fa sempre più massiccio e io mi immobilizzo in mezzo alla strada, con l'asfalto come unico amico. «Shelly Morgan, la ragazza perduta.»
Il chiacchiericcio è insopportabile, stonato e privo di armonia. Mi premo forte le mani sulle orecchie per non ascoltarlo, ma è come se tutte quelle voci abitassero nella mia testa, in un flusso perenne di inviti ad assecondarle.
«Signorina Morgan, deve seguirci!» impone un grido sussurrato.
«Torna da noi, ragazza!» comanda un'altro.
Piegandomi sulle ginocchia, la testa tra le mani, fisso il nulla davanti a me e, come ragni affiorati da una ragnatela spessissima, compaiono delle sagome nere che marciano lentamente nella mia direzione. Perdo l'equilibrio, i talloni non mi sostengono e si sbucciano sulla ruvidezza del bitume, cado a terra e, tremando come una foglia, inizio ad arretrare aiutandomi con le mani.
Una sagoma è più vicina delle altre; lo strato di nebbia si sbriciola sotto il suo passo ponderato, presentandomi la vecchia infermiera della clinica, la donna che Metcalfe aveva detto chiamarsi Marta. Indossa ancora la divisa bianca e il cappellino in tinta, sembra più alta ma, a differenza della prima volta in cui l'ho vista, la sua espressione è carica di una beffa amara che le ingrigisce il volto.
«Signorina Morgan» garrisce allungando le braccia ossute.
Dietro di lei, imponenti, compaiono anche l'uomo della zuppa di vermi e l'uomo pelato della vetrina, affiancati e seguiti da tutto il resto della compagnia del Blue Swallow. Somigliano a quei mostri in bianco e nero dei fumetti, quegli zombie non ancora in putrefazione, ma comunque raccapriccianti e pericolosi. Fra loro c'è anche il piccolo Nicholas, ha la mano stretta in quella della madre e metà del viso affondato nel cappotto della donna; cammina ma non parla, come se far parte del corteo lo spaventasse.
Facendo leva sui gomiti, spingo il mio corpo lateralmente e mi alzo; incespicando, recupero l'equilibrio e provo a correre. Il vestito lungo è un impedimento enorme ed essere scalza è uno strazio, non temo il dolore quanto il non avere una presa salda sul terreno incerto. Lancio in continuazione occhiate alle mie spalle, i corpi sgraziati si stanno moltiplicando a una velocità disarmante e le richieste si accavallano diventando un latrato incomprensibile.
Scappo, la mia fuga è un trotto scoordinato, e per confonderli viro bruscamente a sinistra, abbandonando la solidità della strada, spingendomi nel punzecchiante plasticume dell'erba. Vado a sbattere contro il tronco di un albero, inciampo nelle grosse radici che fuoriescono dal terreno, ma fortunatamente non cado. Ormai le case sono lontane e non ne intravedo più i profili, vorrei che fosse lo stesso per i miei inseguitori, purtroppo ho l'impressione che niente sia in grado di fermarli. Sento la loro marcia a pochi metri da me, compatta e assordante, come un battaglione di robot dalle giunture poco oleate. Sono determinata a prestare attenzione a ciò che ho di fronte, per evitare di cadere, eppure ho il cuore a mille e la mente in continuo elaborare allo stesso ritmo. Sarebbe l'occasione perfetta per un primo pianto, di sicuro non tradirei il giuramento fatto tanto tempo fa, questa è una cosa veramente drammatica e nessuno potrebbe accusarmi di aver sciupato la verginità delle mie lacrime per un'inezia.
Intanto che valuto questa possibilità, una striscia di ferro si materializza tra la nebbia e una corona di alberi altissimi; è una recinzione composta da pilastri arrugginiti a punta di lancia, elevata da un muretto di mattoni ricoperti di rami e muschio. Mi sposto un po' a destra e vedo anche l'ampio ingresso, un cancello a due battenti sulla cui cima spicca un pannello semicircolare: CEMETERY.
Cazzo, il cimitero! Mancava solo il quartiere dei morti per completare il macabro show!
«Non andare lì dentro, Shelly!» strilla Nicholas. «Non devi entrare!» urla con maggior vigore per costringermi a seguire il suo consiglio.
Mi fermo, voltandomi verso di loro, e lo scenario è terrificante. Evidentemente ho perso tempo, impegnata a stabilire cosa nascondesse la recinzione, e mi hanno raggiunto, circondandomi su ogni lato. Sono tantissimi, deformati da una sorta di nube cinerea che sfoca i corpi e ne distorce i volti, vincolati nel loro rosario intimidatorio che continua a rimbombarmi nel cervello, schierati come vassalli demoniaci con l'incarico di catturare il fuggiasco.
Arretro, pur sapendo di avere il cimitero sulla mia rotta, e prima di quanto immaginassi la mia schiena si appoggia alle sbarre fredde del cancello che ondeggia leggermente sotto la mia spinta. Il battente si apre cigolando, quasi fosse un lamento umano, e all'improvviso non mi sembra più una buona idea inoltrarmi in quel campo di cadaveri.
Gli abitanti di Burgos si avvicinano e io per la prima volta nella mia vita, finalmente, piango.
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