Atto II: Converse Nere

     Jessica indossava una graziosa gonna rosa. Affacciata al davanzale della finestra, accerchiata dal chiasso dei ragazzi durante la ricreazione, si aggiustava la scollatura. Se non faceva attenzione, rischiava che più pelle del necessario sfuggisse ai vestiti.

Non che la cosa le fosse dispiaciuta, quando aveva attirato lo sguardo di Alessandro. Così sopportava i brividi di freddo con il sorriso sulle labbra, pensando alle sue attenzioni.

Oltre il vetro della finestra, tre ragazzi se ne stavano nel cortile a ridere e spintonarsi a vicenda; l'ombra di un albero li inglobava.

Un albero alto, robusto, senza foglie.

Si ritrovò nel bosco, i pianti di Asia che le riempivano le orecchie, la sensazione della carne che si squarciava sotto la lama. Strinse le dita, poi le riaprì di scatto.

Era di nuovo a scuola, fra le mura giallo sporco. Quella notte ormai era passata. Due interi giorni la separavano da quel momento, due giorni in cui la vita era andata avanti invariata.

Arrivò un grido dall'aula. Jessica si voltò, gli occhi sgranati. Solo le sue compagne, le stesse che preferivano restare dentro durante la ricreazione a spettegolare in libertà degli affari altrui; adesso sghignazzavano. Chissà quale grande segreto si erano appena confessate. Una parte di lei la pregò di indagare, tuttavia rimase con le mani ancorate al davanzale freddo, immobile.

Inspirò a fondo. Lanciò un'occhiata veloce all'orologio sulla parete. Che fine avevano fatto Roberta e Flavia? Erano già più di cinque minuti che si erano allontanate con la scusa di prendere un caffè alla macchinetta.

«Jess? Posso parlarti un attimo?»

Alessandro, così vicino che il suo profumo le solleticava le narici. Un odore tutt'altro che particolare, un semplice miscuglio fra bagnoschiuma e dopobarba, ma la avvolgeva e le dava conforto. La faceva sentire al sicuro. La riportava indietro nel tempo, a quando era solo una bambina e il padre la stringeva fra le braccia.

Si sporse verso di lui, una mano a carezzare la collana che le dondolava dal collo. «Sì?» Le uscì una voce troppo acuta. Si morse il labbro, sperando che lui non se ne fosse accorto.

Alessandro seguiva il movimento delle dita di lei, lasciò scendere lo sguardo poco più giù, sulla scollatura. «Stai davvero bene, oggi. Hai qualche appuntamento importante dopo la scuola?»

Un formicolio piacevole la attraversò fra le gambe. Jessica lo immaginò venirle incontro, sentì il suo tocco sulla pelle; si lasciò spogliare, piano. Ma l'immagine svanì in una nuvola, ed eccola di nuovo lì, nel corridoio che puzzava di adolescenti e sudore. «Grazie.» Si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «No, nessun appuntamento.»

Sperò in un sorriso, un ammiccamento, un qualsiasi segnale che mostrasse sollievo in lui. Invece Alessandro lanciò un'occhiata all'interno della classe, dove le altre ragazze ancora lanciavano gridolini da oca di tanto in tanto. «Asia non c'è nemmeno oggi, vero?»

La punta di un coltello le affondò nel petto. «No.»

«Sono due giorni che non la sento.» Alessandro si passò una mano fra i capelli, li scompigliò. Era ancora più bello, sfoggiava un fascino disordinato, ribelle. «Sai per caso se le è successo qualcosa? Se sta male?»

Jessica cercò il sostegno del davanzale. Non doveva preoccuparsi, si disse. L'uomo della sua vita avrebbe presto dimenticato quella sgualdrina. Un giorno Asia avrebbe trovato il coraggio di uscire di nuovo di casa, e allora Alessandro avrebbe scoperto il suo nuovo aspetto e sarebbe corso tra le braccia di Jessica. Doveva solo avere pazienza.

«Non lo so. Forse ha un po' di febbre.»

C'era un tremolio nella sua voce? Non ne era sicura. Allargò le labbra nel classico sorriso di circostanza.

«Non mi risponde ai messaggi. Sono un po' preoccupato.»

Flavia e Roberta comparvero alle spalle di Alessandro. La prima fissava il pavimento, gli occhi sgranati e un colorito pallido, sembrava stesse per svenire; la seconda si passava di continuo la mano fra i capelli corti, con quel taglio troppo sofisticato addosso a una come lei.

«Jess, dobbiamo dirti una cosa.» Roberta si fermò accanto ad Alessandro e le agguantò il braccio.

«Ehi, ciao!» le salutò lui.

Roberta gli rivolse un'occhiata in tralice, ma tornò a girarsi l'istante dopo, come se lui non fosse stato altro che una momentanea allucinazione della sua testa. «È importante.»

La trascinò via di peso. Jessica sventolò la mano libera per salutare Alessandro – le rispose con un sorriso lupesco, così bello, cazzo. Flavia le seguì lungo il corridoio senza mai aprire bocca; aveva il respiro spezzato, sull'orlo delle lacrime.

Roberta la spinse oltre una porta aperta, in una classe piccola e abbandonata. I banchi giacevano ammassati gli uni sugli altri, la polvere li ricopriva, rendendone la superficie di un verdolino opaco. La cattedra restava ancora al suo posto originale, al fianco di una scrivania con su disegnati falli e gesti osceni. In un angolo della stanza, le mattonelle si sollevavano a formare una piccola collina. Jessica immaginò un diavoletto appostato al di sotto, ad attendere il momento giusto per far saltare in aria le mattonelle e liberarsi.

Tenne gli occhi puntati proprio lì, a lungo. Il peso della mano di Roberta le lasciò il braccio. Solo un paio di istanti dopo, Jessica sollevò il mento e se la ritrovò davanti, in tutto il suo metro e settantasette di altezza.

«Che c'è?» Jessica si tormentò il labbro inferiore con gli incisivi. Una brutta sensazione le strisciava lungo le scapole.

«Asia.» Roberta sputò quel nome in un sospiro. «I professori ne parlavano, li abbiamo sentiti mentre...» Si bloccò, cercò Flavia.

«Ha spifferato tutto, non è vero? Quella troia.»

«No, in realtà no.» Roberta continuava a esitare. Si grattava la nuca e sospirava di continuo.

Jessica corrugò la fronte. «E allora che c'è?»

«Ecco, lei...»

Cominciava a spazientirsi. Fino a cinque minuti prima, Jessica godeva della compagnia di Alessandro. Si beava dei suoi sguardi lascivi che le ricadevano sulla scollatura. Ora invece eccola qui, allontanata da lui per colpa di Asia. Come al solito.

Roberta boccheggiò. In uno sbuffo, Jessica voltò i tacchi e fece per andarsene, non aveva altro tempo da perdere appresso a quella puttana di Asia.

Poi Flavia mormorò qualcosa. Due singole parole, che si persero nell'ampiezza dell'aula.

Jessica puntò i piedi nella sua direzione. «Che hai detto?»

«È morta.»

Un pugno le si abbatté sullo stomaco, anzi no, dentro lo stomaco. Proveniva dall'interno. E la mano colpevole le si aggrappò agli organi, si arrampicò fin sulla gola. «Cosa?»

Roberta si liberò dall'incanto che la teneva prigioniera. Si fece avanti di pochi passi. «L'hanno ritrovata morta sul letto.»

Era strano, sentire il flusso del sangue attraversarle le vene, percepirlo raggiungere la testa, avvertire il pulsare di un cervello in cerca di risposte, ma non riuscire a produrre nemmeno un singolo pensiero. Il vuoto.

«Come?» chiese allora.

«Si è suicidata! Si è uccisa, ed è tutta colpa nostra!» Flavia urlò a pieni polmoni, come se sperasse che l'intera scuola la sentisse. Il pallore sul suo viso aveva lasciato il posto a un colorito violaceo.

«Shh, vuoi farti sentire da tutto il paese?» Roberta si portò un dito sulle labbra.

Jessica picchiò il tacco contro il pavimento. Entrambe fecero scattare la testa nella sua direzione. «Come si è uccisa?» chiese ancora.

«Con il sonnifero,» rispose Roberta, piano.

Una possibilità a cui Jessica non aveva pensato. Tutti chiacchieravano dei disturbi psicologici di Asia, delle pillole che prendeva. Un argomento di moda a scuola, per un determinato periodo. Qualcuno affermava di averla vista entrare nello studio di uno strizzacervelli, altri di averla beccata a ingollare una manciata di pillole in bagno, fra una lezione e l'altra.

Ma poi il sorriso era rinato sulle sue labbra, e i pettegolezzi sulla depressione di Asia erano stati dimenticati.

«Quella roba è velenosa,» aveva detto Flavia, nella sua camera, mentre le tre discutevano dei pettegolezzi. «Mio padre c'è quasi morto una volta, si era addormentato alla guida. Quella roba ti uccide.»

«È colpa nostra,» ripeté Flavia, paonazza. Da un momento all'altro la testa avrebbe potuto esploderle. Così, puff, come un palloncino.

Roberta la sovrastava, troppo vicina. Minacciosa, con la sua altezza spropositata e i modi rozzi da tipica figlia di un macellaio. «No, non è vero. Non è colpa nostra se era una debole e una depressa.»

«Debole? Depressa?» Gli occhi di Flavia si sgranarono ancora di più. Ancora un altro po' e plop, sarebbero scoppiati fuori dalle orbite. «Ma ti rendi conto di cosa le abbiamo fatto? Le abbiamo rovinato la vita, e ora tu vieni qui a dirmi che si è uccisa perché era depressa

Jessica incrociò le braccia al petto. All'improvviso l'ambiente era diventato freddo. «Hanno detto qualcosa sui...» La parola successiva le si bloccò sulla lingua. Per qualche motivo, scoprì di non riuscire più a pronunciare la parola "tagli". «Ha lasciato detto perché l'ha fatto?» chiese allora.

«Ma perché, serve pure che te lo dica qualcuno?» Nonostante avesse abbassato il tono, la voce di Flavia scricchiolava ancora, pronta a spezzarsi. «Siamo state noi a ucciderla!»

Jessica inclinò appena il capo. Flavia si era appena trasformata in un disco incagliato; provò pena per lei. «Io non ho ucciso proprio nessuno. E neanche voi.»

Flavia indietreggiò, una mano sulla guancia come se l'altra le avesse appena tirato uno schiaffo. «Mi prendi per il culo? Sei seria? Ci credi davvero?»

Ci credeva?

Jessica batté le palpebre un paio di volte, si prese il tempo per rifletterci. Ma adesso che il sangue aveva smesso di pulsarle nelle tempie, adesso che la mano aveva perso la presa ed era ricaduta nelle profondità dello stomaco, ragionava di nuovo a mente lucida. E sì, ci credeva.

Asia soffriva di depressione. Era stata la malattia mentale a ucciderla.

«So che ha lasciato un biglietto,» intervenne Roberta. Almeno lei sembrava aver ripreso un po' di lucidità. Jessica si aggrappò alla freddezza che le velava gli occhi. «Ma non penso abbia detto niente su di noi. A quanto ho capito, credono che i tagli se li sia procurati da sola in un attacco di follia.»

«Bene.» Jessica annuì, battendo le mani una volta. Il rumore riecheggiò fra le pareti, le squarciò i timpani.

«Bene?» Flavia faceva oscillare la testa in un movimento energico, esagerato, isterico. I capelli tinti di nero ondeggiavano, accompagnati dai suoi lamenti. «Cos'è che va bene? Sono giorni che non riesco nemmeno più a guardarmi allo specchio.»

«Non l'abbiamo uccisa noi!» urlò Jessica. Il secondo dopo, si tappò la bocca. Troppo tardi. Aveva perso la calma.

Doveva riprendersi, o avrebbe fatto la stessa fine di Flavia. Poteva solo sperare che nessuno passasse per il corridoio, che nessuno l'avesse sentita.

«Sì, invece. Come fai a non capirlo? Hai ucciso una persona solo perché vuoi farti quello stronzo di Alessandro!»

Una stilettata, proprio nello stomaco. «No. Come facevo a sapere che sarebbe successo?»

«Porca puttana, Jess! Abbiamo fatto una cosa orribile! Siamo dei mostri!»

Roberta posò la mano sulla spalla di Flavia. «Non è vero, smettila di dire stronzate.» Aveva assunto un tono glaciale. Le emozioni, se ancora ne possedeva, si erano nascoste dietro una barricata indistruttibile. «Era depressa già da prima, no? Sarebbe successo comunque.»

Nella marea di pettegolezzi andati perduti, Jessica ne ripescò uno in particolare: si diceva che la madre di Asia l'avesse trovata addormentata sul letto, in fin di vita, e l'avesse portata di corsa all'ospedale. Asia era stata assente per un paio di settimane.

Il tempo aveva fatto lievitare i pettegolezzi. Quando era tornata, tutti la fissavano ma nessuno parlava. Nessuno sapeva quanto di vero ci fosse in quelle dicerie.

Non potevano essere pettegolezzi campati per aria.

Flavia si liberò dalla presa di Roberta con uno strattone. «Siete due teste di cazzo. Non voglio avere mai più niente a che fare con voi. Vaffanculo.» Caricò verso la porta a testa bassa. Uscì sbattendosela alle spalle, così forte che quella si riaprì.

Jessica la osservò allontanarsi lungo il corridoio. Le spalle curve, la schiena arcuata. Una pallida imitazione della ragazza allegra e con la testa sempre fra le nuvole che era stata.

Qualcos'altro però attirò la sua attenzione. Qualcosa che aspettava in un angolo della visuale. Lì, sulla coda dell'occhio.

Una scarpa. Una converse nera con le borchie.

Non appena Jessica diresse la propria attenzione lì, la scarpa scomparve nel nulla. Qualcuno aveva origliato?

«Non darle retta.» Roberta la attirò a sé. Si guardarono per davvero, per la prima volta da quel giorno. «Forse abbiamo esagerato, va bene. Ma che ne sapevamo che sarebbe finita così?»

Jessica annuì appena, la gola troppo secca. Non trovò la forza di risponderle. Si scansò un poco, lo stomaco di nuovo in subbuglio.

Un sapore di bile le annacquava il palato. La sentì risalire, premere per uscire.

Spinse via Roberta. «Devo andare in bagno.»

Il vomito galleggiava nell'acqua del water. Una sostanza liquida e giallognola, priva di consistenza, senza tracce di cibo. Soltanto succhi gastrici che fluttuavano come gocce d'olio nell'acqua stagnante.

Jessica si reggeva i capelli dietro la nuca, aggrappata al bordo della tazza. Si costrinse a respirare a fondo nonostante la puzza del suo vomito, mescolata con l'odore di fumo e merda che aleggiava nel cesso. Poi attese. E attese e attese. Attese finché anche l'ultimo spasmo dello stomaco fu passato.

Lasciò andare i capelli, che le ricaddero scomposti sugli occhi. Si ripulì la bocca con il dorso della mano. Il sapore acre e acido le corrodeva il palato.

Strappò una manciata di carta igienica e se la passò fra le dita; la premette sulle labbra. Così ruvida.

Abbiamo fatto una cosa orribile! Siamo dei mostri!

La voce di Flavia le riecheggiò nella testa. Jessica rabbrividì, perdendo la presa sul pezzo di carta. Scosse il capo, rinchiuse quelle parole in una bolla di sapone e le immaginò volare via. Lontane da lei.

Tirò l'acqua, abbassò la tavoletta e ci si sedette sopra, le mani davanti agli occhi.

Qualcuno le aveva origliate. Lo sapeva, ne era certa. Quelle scarpe... doveva capire a chi appartenevano.

E poi? Anche se avesse scoperto chi fosse la persona appostata dietro la porta ad ascoltarle, cos'avrebbe fatto?

Arrivarono i singhiozzi. La scossero dal profondo. La colpirono da dentro, spinsero per uscire.

La campanella trillò nel corridoio, annunciava il termine della ricreazione. Doveva tornare in classe. Doveva tornare in classe, ma di certo non poteva farsi vedere con il trucco colato. Abbassò le mani, tastò nelle tasche alla ricerca del "kit di emergenza", la piccola trousse con tanto di specchietto che si portava sempre appresso.

Le scivolò dalle dita.

La scatolina cadde vicino alla fessura della porta. La luce malsana del bagno si rifletteva sulla sua superficie in una mezzaluna. Jessica si abbassò per recuperarla, quando udì dei passi.

Trattenne il fiato, le mani premute contro il petto, la schiena piegata su se stessa.

Delle scarpe comparvero al di là della porta. Sfiorarono la trousse con la punta, ma non la spostarono.

Converse nere con le borchie.

Jessica si coprì la bocca per zittire lo strillo che le risaliva lungo la gola. Inghiottì, e lasciò che il grido di terrore e disperazione annegasse sotto un fiotto di saliva.

La persona sconosciuta bussò. Forte. Tanto da farla sussultare.

Jessica affondo i denti nella lingua. Doveva rispondere o far finta di niente? Ma l'altra persona poteva vedere i suoi piedi e la trousse da sotto la porta, proprio come Jessica vedeva i suoi.

Prese un respiro profondo. Si stava comportando in maniera del tutto irrazionale, si disse.

«Occupato,» mormorò allora, con un filo di voce.

Il tempo si fermò. Le scarpe rimanevano immobili. La risposta non giungeva.

Finché la persona al di là della porta non bussò di nuovo.

Jessica chiuse gli occhi. Si pizzicò la pelle del braccio. Svegliati, si ripeté nella testa. Perché magari stava solo facendo un incubo, e prima o poi si sarebbe ritrovata nel suo letto, avrebbe scoperto che Asia era ancora viva, con quella sua stupida bellezza splendente ancora intatta.

Ma non si svegliò mai.

Bussarono ancora.

«Vattene!» Jessica si infilò una mano fra i capelli. Tirò indietro una ciocca, finché non avvertì una punta di dolore alla nuca. E nemmeno allora allentò la presa. «Che vuoi da me? Vattene!»

Con il volto immerso nelle lacrime e il cuore che le scalpitava nel petto, si gettò in avanti e aprì la porta.

Lì di fronte a lei però non c'era nessuno.

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