19 #Octopus - I tre cuori
Un giorno l'ammiraglio pirata Roger si stufò dell'egemonia sui Caraibi, era giunta quell'età in cui si ha il bisogno di rompere i confini delle acque conosciute. In questo caso si trattava dell'orizzonte meridionale, tracciò una rotta che puntava contro il sole per passarci sotto e lasciarselo alle spalle. Arrivato nell'ignoto avrebbe deciso dove andare a seconda di quel che avrebbe trovato.
Approntò la sua nave ammiraglia e due gemelle poco meno armate, compose tre equipaggi di persone fidate e ordinò che la sua cabina di comando fosse bella e arredata come la corte di una principessa, infatti Roger non poteva lasciare i Caraibi senza sua figlia. Gin, la piccola sirena, sarebbe venuta con lui. Si raccontava che l'ammiraglio l'avesse avuta dal rapporto con una creatura marina. Nessuno però lo dava per certo, cose avvenute molti anni prima: quella sirena non era più tanto piccola.
Anche Gin si trovava in un'età nella quale si sente il bisogno di rompere i confini, nel suo caso però non erano confini geografici, ma i rigidi confini tracciati dal padre.
«Papà, devo proprio venire?»
«Altrimenti con chi staresti?»
«Non lo so, preferirei non partissi nemmeno tu. Posso almeno nuotare da una nave all'altra? Oppure andare a conoscere la gente nei porti che troveremo?»
«Certo.»
«Intendo da sola.»
«Allora no.»
Per chi non avesse mai sentito di Roger, basti sapere che l'ammiraglio era noto per la capacità di fare l'amore con chiunque, dalle dame di corte ai molluschi, ma per quanto riguardava amare gli riusciva soltanto con lei, sua figlia Gin. Lei lo sentiva e, se non fosse accaduto nulla, forse i confini del padre non li avrebbe mai voluti varcare. Quella vita la appagava, un divano per lei sul cassero dell'ammiraglia, Roger abbastanza vicino da poter allungare un braccio e stringergli il polso, l'orizzonte delle acque oltre la prua e tutto il resto del mondo lontano. Qualcosa tuttavia accadde.
Ci sono abissi nei mari del sud che i grandi velieri sorvolano senza coscienza di cosa nascondano. Nessuna idea almeno finché i loro legni non si spezzano e i corpi del loro equipaggio non spalancano gli occhi nel buio prima di soffocare annegati.
L'ammiraglio Roger puntava le sopracciglia corrugate verso una delle sue navi ausiliarie mentre, senza capire come, pareva che si fosse incagliata in mare aperto. Chiese il cannocchiale, un paio di ufficiali già guardavano nelle lenti ma non spiccicavano parola. Attraverso il tubo Roger vide due tentacoli, grandi e lunghi quanto l'albero maestro, che si avvinghiavano sullo scafo della nave ausiliaria.
«Papà, cosa succede?»
«È una bestia marina.»
«Sirene? Qualcuno con cui chiacchierare?»
«Ne dubito, tesoro», raccolse il megafono e lo mise sulla bocca per lanciare l'ordine: «preparate la batteria di cannoni di tribordo.» Poi si rivolse al timoniere. «Manovra di abbordaggio.»
«Facciamo fuoco sui nostri?»
«Una sanguisuga non molla la presa, bisogna strapparla.»
La nave ammiraglia accostò verso l'altra finché le grida e gli spari della battaglia non si sentirono nitidamente. Roger si protese sul parapetto e ancora col megafono lanciò un avviso: «Stiamo per sparare alla bestia: rifugiatevi nel lato opposto della nave, stiamo per sparare alla bestia.»
«Cannoni pronti» avvisò un ufficiale.
«Ve lo devo dire io quando sparare? Ma è rimasto qualche vero pirata su questa nave? Fate fuoco, maledizione. Semmai ne avrò voglia vi dirò quando smettere. Fuoco!»
Gin strisciò fino al parapetto, con le orecchie otturate dal tuono dei cannoni, osservò le palle di metallo bersagliare i tentacoli e inseguirli sott'acqua tuffandosi con schizzi altissimi. Esplosero tre salve in un solo passaggio e, chiusa una manovra ad anello ne esplosero altre tre, finché i tentacoli non si ritirarono sott'acqua.
«Ora ba...»
«Cosa avete detto, ammiraglio?»
«Ora basta coi cannoni. Lo vedi che è scappato?»
Sulle navi tornò silenzio, un silenzio che parve molto più profondo di quello prima delle esplosioni. Da una nave all'altra si osservavano gli uni gli altri con una domanda in testa che probabilmente era comune a tutti, se avessero davvero affrontato un mostro marino o stessero sognando.
«Ecco perché siamo partiti», esultò l'ammiraglio, «Gin, l'hai visto?
«Ho visto, papà.»
La sirena batté le mani. Le batteva ancora quando sul ponte scoppiarono due colpi di pistola, salirono delle grida e tra queste ne spiccò una che si ripeté lungo la nave fino a raggiungere il cassero: «Degli uomini-polpo sono saliti a bordo.»
Sorrise di gioia l'ammiraglio, estratta la sciabola e caricata la pistola si sentì di nuovo al primo imbarco da pirata. Accanto a lui anche Gin sorrideva e caricava la propria pistola.
«Vai a nasconderti in cabina», le ordinò Roger, lei smise di sorridere.
«Papà, ma mi hai insegnato a sparare.»
«Non hai le gambe, non puoi difenderti da una spada: va in cabina.»
«Ma sono diventata brava.»
Ce la fece portare in braccio e la chiuse con due giri di chiave. Gin accettava i confini tracciati da suo padre, li accettava e ci conviveva, come accettava di essere chiusa nella cabina di comando mentre fuori la giostra della vita e della morte impazzava, scandita da scoppi e colpi di spada.
Dopo un po' la giostra si acquietò e la serratura schioccò due volte prima di aprirsi. Gin attese con la pistola ancora carica alta in mano, finché non sentì la voce del padre:
«Vuoi vedere i cadaveri, tesoro?»
«Sì!»
Roger prese in braccio sua figlia e la portò in giro per il ponte. Incidentati, infetti o trafitti, i cadaveri non mancavano mai sull'ammiraglia pirata. Eppure Gin osservò i corpi di quel giorno come una bambina sul primo campo di battaglia. Quegli esseri perdevano sangue di colore blu.
«Li hai visti i tentacoli?» domandava il padre, «li hai visti? Ne hanno otto come un polpo.»
«Assieme alle braccia fanno dieci.» Lei non osava dirlo ma le davano la sensazione di assomigliarle, forse più di quanto il padre avrebbe voluto. «Sapevano parlare?»
«No», fece lui senza riuscire a convincerla, «però erano feroci, cercavano pescioline da avvinghiare.»
«Smettila», sogghignò lei. Roger non sapeva che, da qualche mese, l'idea di un giovane pirata che la cercasse non le dava più paura ma qualcos'altro che non voleva confessare.
«Per qualche ragione erano difficilissimi da abbattere: che tre colpi di pistola al cuore bastavano appena.»
«Ma dai!»
«Questo è ancora vivo», esclamò qualcuno della ciurma e tutti si accalcarono per vederlo.
«Spostatevi!»
Accompagnata tra le braccia di Roger, Gin guadagnò la prima fila e poté vedere l'essere per intero. Il busto di un ragazzo muscoloso, il viso affilato ricordava una certa meschinità pirata ma delle ciglia lunghe che, se non fosse stato svenuto, avrebbero dato al suo sguardo un qualcosa di innocente. Portava una bandana in testa e i tentacoli uscivano dal suo bacino grandi e poderosi, di un color nero inchiostro. Di lui Gin si sarebbe potuta ricordare tutto a occhi chiusi, quella stessa notte e anche le successive, senza doverlo rivedere. Ciò che però le rimase più impresso furono i tatuaggi che questo portava addosso, arabeschi e tribali di colore nero sulla pelle e bianco sui tentacoli.
«Respira?» chiese.
«Sì», borbottò il padre prima di ordinare, «rinchiudetelo in una delle gabbie di sotto: se la piovra gigante tornasse avremo un ostaggio.»
«Nella gabbia degli animali, giusto», commentò Gin, «perché in effetti è un...»
«Un polpo, esatto, è un...» Roger ringoiò quella parola mentre ricordava come sua figlia portasse dalla vita in giù la coda di un pesce: «Scusami, è stata una giornata vecchio stile: sono tornato giovane e sciocco.»
«Ti perdono», gli baciò la fronte e con lui tornò sul cassero a sedersi e guardare l'acqua del mare che scorre via. Un polline nuovo tuttavia aveva investito il cuore di Gin e presto sarebbe germogliata un'emozione, un bisogno, che lei non avrebbe trattenuto.
Alla battaglia vecchio stile seguì una sbornia vecchio stile, del genere che stese Roger sullo scranno del capitano a dondolare la testa a ritmo col rollio. Gin non bevve granché, lei alla battaglia non aveva partecipato, e poi qualcosa di più inebriante la attirava.
Nessuno ardì fermare la figlia dell'ammiraglio quando questa, strisciando con la forza delle braccia, scese sottocoperta, fino al ponte fattoria. Polli e maiali riempivano d'odore quel luogo e nella penombra non si distinguevano i ciuffi di paglia dalle palline di escrementi, rotolate qua e là a ritmo con le onde. Gin si approcciò alla gabbia in cui era rinchiuso l'uomo-polpo con tutta la spavalderia che riusciva a tirare fuori pur strisciando sul pavimento.
«Ehi, schifoso», lo chiamò ma quello ancora dormiva. Al che Gin notò la gabbia accanto in cui agitava le unghie una grossa scrofa. Le venne in mente un'idea e, prima di rifletterci troppo, liberò la scrofa e si chiuse nella gabbia accanto a quella del polpo. Levò la camicetta e si strofinò addosso quella che sperò fosse terra. Rannicchiata in un angolo nuda, come un'innocente sirena rapita alle sue acque, per qualche minuto finse di singhiozzare dalla paura.
«C'è qualcuno?» Ecco la voce del giovane, sapevano parlare e quello in particolare parlava con la forza di una piovra e l'eleganza di un tritone.
«Chi sei?» singhiozzò Gin.
«Una sirena?» il giovane attorcigliò i tentacoli sulle sbarre e avvinò il viso più che poté, «questi uomini non hanno pudore.»
«Quale pirata ce l'ha?» domandò Gin, con più enfasi di quanta volesse. Schiarì la voce e singhiozzò di nuovo: «sono nuda.»
«Scusami, non ti guardo. Ero solo in pena per come ti hanno ridotta.»
«Vigliacchi», le scappò quasi da ridere. Lo avvicinò con un braccio sui seni e gli occhi spalancati verso quel viso che cercava di non aggredirla con lo sguardo. «Ma anche tu sei un pirata, vero?»
«Non ti posso mentire, mi chiamo Octopus, membro dei pirati del Kraken.»
«Kraken?»
«Cavalchiamo una grossa piovra per inseguire le navi e assaltarle. Ma non sono sempre stato pirata, ero tatuatore nelle acque in cui sono cresciuto.»
«Si vede, cosa significano i tuoi tatuaggi?»
«Beh, c'è tanto da spiegare.»
«Io voglio proprio saperlo e poi non possiamo andare da nessuna parte, no?»
«Già», sospirò Octopus e cominciò a raccontare, «anche se non lo sapessi, te lo spiego io adesso: i tritoni coi tentacoli hanno molto del polpo, a cominciare dal sangue blu. Ma quel che dalla bestia hanno ereditato di più importante, a mio parere, sono i tre cuori.»
«Tre? Nel tuo petto ci sarà un'orchestra di tamburi.»
Lui rise, poi si fece serio: «Non più. I tritoni coi tentacoli possono anche cambiare la pigmentazione della pelle, così come fanno i polpi. Quelli della mia specie hanno tre diverse colorazioni, così come abbiamo tre cuori. Siamo abituati ad associare un cuore a ogni colore. Io perdetti il mio assieme al mio villaggio.»
«Cosa significa?»
Il tritone cambiò colore all'improvviso, la sua pelle e i tentacoli si fecero di un bianco cadaverico e i tatuaggi che portava poco prima cambiarono forma, si tramutarono in un disegno di tentacoli rossi che lo abbracciavano da ogni parte, qui si arricciavano attorno alla stilizzazione di una scogliera e lì invece attorno a due occhi di donna: «questi erano i tentacoli di mia madre, gli scogli del villaggio e i suoi occhi che mi guardano. I pirati del Kraken saccheggiavano i villaggi già prima che io mi unissi a loro. Così morì mia madre, rapita e scomparsa, il mio primo cuore si fermò con lei e non indossai mai più questo aspetto.»
«Lo hai ora, solo per me?»
«Non posso che aprirmi a una sirena tanto bella.»
«Adulatore, non guardarmi troppo e prosegui a raccontare.»
«Da allora mi rimangono due cuori, il primo, quello che sono ancora disposto a perdere, appartiene ai Kraken,» cambiò di nuovo aspetto e riprese quello che poco prima indossava durante l'assalto, «l'altro invece...» tentennò.
«Coraggio.»
«L'altro invece è questo.» Mostrò un corpo intonso da qualsiasi tatuaggio o cicatrice. «Appartiene al mio cuore più grande e lo sto conservando per qualcosa che ancora non so.»
«Forse lo so io.»
«Ah sì?»
«Potresti tatuarci il mio nome, non me l'hai ancora chiesto. Almeno te lo ricorderesti.»
«E quale sarebbe?»
«Gin.»
Octopus sorrise con le sopracciglia schiacciate sugli occhi non si trattenne più dal guardarla, incontrò le iridi color caramello della ragazza e ci rimase per lunghi momenti. Gin abbassò le braccia dal proprio corpo e anche lei si mostrò senza nascondersi, sebbene a dirla tutta stesse nascondendo molte verità.
A un certo punto vi fu fermento sul ponte e i due ebbero la sensazione che di lì a poco sarebbero arrivati da loro per interrogare il prigioniero. «Facciamo così», disse lei, «io so come scappare ma lo faccio solo se ti tatuerai il mio nome sul cuore.»
«Ahah! Sul serio?»
«E ne vorrei uno anche io: un drago.»
«Significa che hai visitato i mari dell'Asia.»
«Allora le rondini.»
«Significano che hai percorso almeno una volta qualcosa come una traversata oceanica.»
«Maledizione...»
«Puoi tatuarti il mio nome: Octopus», ammiccò.
Lei rispose con una smorfia. «È troppo lungo.»
«Ah certo.»
L'eccitazione dell'idea, dal drago all'ancora, fino al nome di un estraneo, s'era spenta dopo averci riflettuto un po'. Lei non possedeva né tre cuori, né tre pelli da cambiare appena una stufava un pochino. Gin aveva un cuore solo e se si doveva chiedere cosa questo cuore contenesse, la prima cosa che le venisse in mente era: «Papà.»
«Cosa?» chiese il tritone.
«Vorrei tatuare Papà sul cuore, l'unico cuore che ho.»
Il giovane abbassò gli occhi, batté le palpebre e una lacrima ne scappò. Cercò di nasconderla ma Gin ormai l'aveva notata.
«Sei sensibile?»
«No», scrollò la testa, «non quando indosso la pelle dei Kraken.» Tirò fuori da sotto i tentacoli una penna fatta con la cima di un dente di narvalo, la intinse nell'inchiostro che gli sgorgava dal sifone che aveva al fianco e avvicinò il petto della ragazza. La carezzò tra i seni per pulirla dalla terra. «Qui, giusto?»
«Sì» fece lei con un filo di voce.
Papà si fece scrivere sul cuore e, mentre osservava il lavoro completato, il tritone disse: «Me ne faccio uno anche io in tuo onore: qual è il tuo animale preferito?»
Avrebbe detto polpo, piovra e seppia, in quel momento ma disse la verità: «squalo.»
«Nei mari asiatici questo tribale a triangoli è simbolo degli squali» e così sulla sua pelle ancora intonsa, Octopus impresse i primi segni: «mi ricorderanno della volta in cui siamo scappati assieme.»
«Aspetta, io ho detto che ti avrei liberato se ti fossi tatuato Gin.»
Il tritone allungò un tentacolo sulla serratura della gabbia, cambiando forma della sua punta entrò nel foro e la fece schioccare, aperta. Fece lo stesso con la gabbia di lei, la prese in braccio e con un rotolare di ventose e tentacoli si precipitò lontano da lì. Raggiunsero il centro del ponte prima di essere scoperti. Octopus rovesciò un intero cannone e aprì la strada verso un portello che dava sull'acqua, abbastanza grande da lasciare passare entrambi.
Gin ebbe un sussulto all'idea di lasciare la nave, s'irrigidì e cadde dalle braccia del giovane. Questi, già fuori per metà le porse una mano e le disse: «Scappiamo.»
Sul petto di Gin ancora bruciava la scritta Papà quando rispose: «Sì.»
Assieme si tuffarono e assieme nuotarono veloci e sereni così a lungo da non sapere dove si trovassero ma senza che nessuno dei due se lo chiedesse. Capitò che si abbracciassero, capitò che lui le desse un bacio e che lei ne cercasse un altro. Tra i flutti e vestiti solo di un velo d'acqua, si trovavano entrambi liberi ed entrambi felici.
Octopus la portò al suo rifugio, un luogo nascosto e pieno di schizzi e tribali che si sarebbero potuti trovare sulla schiena di un pirata o sul braccio di una piratessa. Gin trascorse lì una giornata o forse più di una, senza addormentarsi sicché nelle profondità, la notte e il giorno si distinguevano appena.
Tuttavia, anche se il bruciore al petto scomparve del tutto, quello nel cuore della sirena non si affievolì per nulla e presto ammise di dover tornare dal proprio padre. Lasciò il covo del tritone.
«Tornerò.»
«Me lo devi promettere.»
«Promesso.»
Gin ritrovò suo padre con le navi intorno allo stesso punto in cui li aveva abbandonati. Salì a bordo e non riconobbe l'uomo che aveva davanti. Smunto, con due occhiaie che sembravano raggiungere il mento e una bottiglia di liquore in mano, piena sebbene lui non rispondesse ad alcuno stimolo, come immerso nella più profonda stasi.
«Papà?» solo con la voce della figlia si rianimò.
«Gin!» Crollò sulle assi e le baciò la coda decine e decine di volte. «Ti credevo rapita, ti credevo perduta negli abissi, ti credevo mangiata dal mostro.»
«Ho fatto un giro per affari miei. Non mi stressare.»
«Gin», singhiozzò il padre e anche lei non riuscì a trattenersi dal piangere.
«Scusami, ma qualche volta devo farlo.»
«No, non farmelo mai più o mi potrai dire morto.»
Passò del tempo, qualche settimana nella quale Gin, fermamente, credeva di non voler più lasciare il padre. Non si spiegò perché ma una sera, quando Roger crollò ubriaco sul suo letto, lei si tuffò in mare e scappò verso il covo di Octopus.
«Gin!» anche lui la salutava con gli occhi illuminati e un sorriso tenero, come fosse tornato all'improvviso a respirare acqua fresca e profumata. «Mi sono tatuato un dente di squalo per ogni giorno in cui mi sei mancata a morte. Guardami...»
«Sei pieno», sghignazzò lei.
«Era l'unico modo per tenermi in vita mentre ti aspettavo.»
«Che esagerato! Non potevi allora tatuarti il mio nome? Come ti avevo chiesto?»
«Senza sapere se saresti tornata?»
Gin storse il naso, ma passò il resto della notte con lui e, all'alba, tornò di corsa alla nave. Fece così anche la notte successiva. Non ci riuscì quella dopo e nemmeno quella dopo ancora ma tornò dal tritone diverse volte e sempre gli scopriva un nuovo dente di squalo sul corpo. «Quando me li faccio penso a te.»
Arrivò però l'alba in cui, tornata alla nave ammiraglia, Gin trovò suo padre sveglio.
«Papà, mi dispiace ma ormai è una cosa successa.»
«Successa», disse funereo Roger, «e che non succederà mai più.»
Non in una gabbia del porcile, ma nella sua cabina da principessa, Gin venne rinchiusa per mesi con la sola compagnia del padre. Certo lei l'amava e non ne desiderava altra o, se avesse detto la verità, ne avrebbe desiderato solo una in più: quella di Octopus.
Un giorno di quella prigionia la nave sembrò incagliarsi in mare aperto. Gin, chiusa in cabina sentì il rumore di scoppi e i colpi di spada, come al primo assalto dei tritoni-polpo. Ne riusciva a distinguere le ventose susseguirsi veloci una dietro l'altra sui ponti sopra e attorno alla stanza.
Questa volta non sarebbe rimasta lì dentro, caricò la pistola, sparò alla serratura e uscì. Suo padre le aveva insegnato a ricaricare in meno di mezzo minuto, strisciò fin sul cassero e trovò l'ammiraglio Roger intento a battersi con tre tritoni tentacolati. L'uomo ne sconfisse uno mozzandogli un tentacolo e scaraventandolo oltre il parapetto, ne allontanò un altro vuotandogli addosso la canna della pistola e rimase uno a uno contro l'ultimo. Con la stretta della stessa mano con cui da giovane si arrampicava sulle sartie, prese al collo l'ultimo invasore e l'avrebbe strangolato se solo il grido di Gin non l'avesse fermato.
«Papà»
«Gin!»
Si distrasse a controllare, la sirena non era in pericolo, stava guardando il corpo del tritone e riconosceva una delle tre pelli di Octopus, quella dei pirati Kraken. Roger riprese a stritolargli la gola, tra gli spasmi Octopus cambiò colore di pelle in un miscuglio frenetico finché non smise di scuotersi sull'ultima sua pelle, quella coperta di denti di squalo tatuati.
Gin strisciò fino ai piedi del padre e gli tirò una caviglia, quello cadde sulle assi. Octopus si riprese pronto a combattere, gli levò la spada e fece per trafiggerlo. Gin però gli puntò la pistola al petto e solo in quell'istante i due si guardarono di nuovo negli occhi. Sul petto di Octopus si sfumavano l'una sull'altra due versioni della sua pelle, quella da pirata, col nome Kraken tatuato sulla sinistra del petto e quella intonsa, almeno prima di conoscere lei, che al centro del petto portava tatuato il nome Gin.
Nessuno che aggredisse suo padre sopravviveva, tanto meno nessuno che avesse guardato sua figlia negli occhi a quel modo. La sirena lo sapeva, una parte di lui doveva morire in quel momento perché l'altra sopravvivesse. Solo uno dei due cuori nel petto di Octopus gli era davvero necessario per vivere. Gin non sapeva per certo se quel cuore fosse sotto il nome Kraken oppure sotto il proprio.
Se quel ragazzo l'amava davvero allora non poteva essere che una la risposta. Lo guardò negli occhi e pregò che fosse la verità. Sparò su Kraken.
Il pallettone trapassò il corpo di Octopus e lo lanciò contro il parapetto, lontano dalla battaglia. Gin si mise tra lui e suo padre, guardò il tritone, ancora vivo, ancora con un ultimo cuore che batteva, che batteva per lei. Poi guardò l'ammiraglio Roger.
«Brava, piccola Gin, forse ti avrei dovuta lasciare combattere fin da subito. Però, ti devo dire, è ancora vivo.»
«Non deve morire, è il mio ragazzo.»
«E gli hai sparato?» Roger ghignò. «Hai preso una botta, tesoro?»
«L'ho fatto perché so che l'avresti ucciso.»
«Che lo ucciderò.»
Lei scrollò la testa, mai prima di allora Roger le aveva visto quello sguardo in viso, e sul proprio calò qualcosa di simile a un velo funebre. Fu come se, assieme al cuore pirata di Octopus quel giorno si spezzasse anche quello paterno dell'ammiraglio.
«Parli sul serio? Io come faccio se te ne vai?» La stava pregando, «torna nella cabina. Torna nella cabina e rimettiamo tutto come prima. Risolviamo tutto.»
«Tornerò, papà, un giorno.»
«Gin? Ti prego, non andare.»
Gin strisciò rapida fino al parapetto, Octopus la aiutò a salire, «tornerò papà. Non cercarmi.»
Assieme si gettarono in mare.
Per lungo tempo Roger non diede ordini se non quello di tornare ai Caraibi, scese a terra e per altro tempo non riprese il mare. Privo della voglia di oltrepassare qualsiasi altro confine, svuotato di ogni desiderio se non quello di tornare a qualche tempo prima, all'egemonia sui Caraibi accanto a una figlia più preziosa per lui che viceversa.
In una notte, delle molte che Roger passava sveglio, incapace di distinguere l'allegria del giorno dalla tenebra del crepuscolo, vide una truppa di pirati salire dalle acque della spiaggia e circondare la sua casa. Scese, come si presentasse al patibolo, armato solo di una bottiglia dalla quale tuttavia non gli andava di bere.
«Siete venuti a prendermi? Bravi.»
«Sono tornata», la voce della figlia lo riscosse, quasi sentì il cuore scoppiare, «dove sei?»
Gin gli si presentò portata sui tentacoli di Octopus, andò dal padre, gli diede un bacio e gli porse un piccolo neonato, col busto di un umano e dal ventre in giù i tentacoli di un polpo.
«Vuoi lasciarlo a me?» domandò Roger con le lacrime agli occhi.
«No!» Fece lei. «Ma voglio che passi con suo nonno, tantissimo tempo.»
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top