15 #Pet - Hybris

Al tempo in cui l'Olimpo apparteneva ancora agli dei, e non ai giocatori dell'NBA, la "libertà di parola" aveva tabù diversi. Divieti dai confini poco chiari, sarà per quello che i discorsi degli avvocati sono tra gli unici sopravvissuti.

Quali erano questi divieti?

Semplice da dire: vietato, vietatissimo, peccare di hybris.

L' hybris non è uno yogurt o un altro modo per dire moussakà, l'hybris è quella che noi chiamiamo superbia. Se ti capitava di voler creare qualcosa che ad Atena non era passato per la testa, quella per punizione ti trasformava in un ragno. Se ti credevi tanto bravo da poter toccare il sole Elios ti aiutava, a sfracellarti al suolo. Mai e poi mai dirsi più feconda di Leto, almeno se volevi tenere in vita i tuoi figli.  Insomma per gli dei il progresso e l'ambizione erano minacce al potere, ai livelli della peggiore monarchia.

In questo quadro risulterà poco chiaro il perché, nella saletta gremita di gente di una locanda fuori Atene, una povera cantante si trovasse in estremo pericolo. Gli occhi di tutti la seguivano, annebbiati dall'idillio, nessuno sentiva altro che la sua voce e le ultime strofe di una canzone che sembrava durare sempre troppo poco.

Non si trattava della prima volta in cui, al termine del canto, seguiva uno scroscio di applausi e grida, e nemmeno la prima volta che tra queste grida qualcuno aggiungesse: «si tratta di Polimnia in persona, la musa del canto», oppure: «vedo in lei una persona divina, da adorare.»

La cantante non smentiva, perché avrebbe dovuto? Ovviamente non era Polimnia, si chiamava Aella, figlia di contadini come quasi tutti al mondo. Tanto meno era divina, non importava che qualcuno lo dicesse, fare spettacolo in una saletta dal soffitto diroccato era l'apice della sua vita.

Tant'è che un giorno arrivò una donna che nascondeva un abito luminoso sotto un pesante mantello, i sandali d'oro non passarono inosservati sebbene questa, come nulla fosse, s'aggirasse per la saletta come una contadina qualunque. Durante lo spettacolo di Aella la donna misteriosa sedette in prima fila e, al termine, mentre gli altri applaudivano si alzò in piedi davanti a tutti.

«Non ho forse udito che qui cantasse una divinità?»

«Sì», le risposero in coro.

«Allora quando arriva?»

«È lì», i presenti gliela indicarono con le braccia tese, «Aella, falle sentire di nuovo. Questa donna è sorda, cantale nell'orecchio.»

La donna dai sandali d'oro, col naso arricciato sporse l'orecchio sulla bocca di Aella e, appena questa trovò il fiato di vocalizzare una nota, dalla gola le uscì solo uno stridulo squittio. Al secondo tentativo uscì uno squittio ancora più forte, qualcosa che ricordava il grido di un'aquila strozzato da un fiato cortissimo.

«Volete sentire cantare una dea?» domandò la donna, a un pubblico che ormai aveva subodorato il pericolo, «io sono Polimnia in persona.»

E Polimnia intonò un acuto tanto potente da far scoppiare i timpani di tutti e rimanere impresso nel loro udito per il resto dei loro giorni. Poi la musa si rivolse ad Aella:

«Tu hai lasciato che questi umani spendessero la loro adorazione per te. Per questo ti tramuterò nell'uccello dal canto più insopportabile della terra, l'agapornis,» si tolse il mantello di dosso e lo lanciò, così come si cattura una preda con una rete. La contadina si rimpicciolì sotto il peso del mantello, così Polimnia poté chiudercela a fagotto e andarsene con quello in spalla.

«Uccello dal canto orrido, in eterno o fino alla fine dei suoi giorni?» Polimnia non ricordava proprio quale delle due avesse promesso. Nel dubbio scelse la peggiore, orrido in eterno ovviamente. Ade se la sarebbe presa solo se lo fosse venuto a sapere, Polimnia conosceva l'unico luogo che l'occhio della morte non raggiungeva: l'Olimpo.

Arrivò nella città divina col fagotto in spalla, comprò una gabbietta dal negozio divino e si chiuse nella sua cameretta divina. Rinchiuse Aella nella gabbia appesa sulla finestra, la livrea dell'uccello splendeva come smeraldo sullo sfondo di nuvole dorate e sole al tramonto, il suo volto rosso vivace dava tutto un altro senso al becco che ne veniva fuori, morbidamente arrotondato e giallo.

«Devo aver fatto torto a qualche divinità a tramutarti tanto bella.»

«Pih!» rispose l'uccello.

«Ecco e questo è il canto orrido.»

«Pih!»

Passò poco più di un giorno, trascorso tutto fuori dalla sua cameretta divina, ma bastò perché Polimnia si stufasse dell'uccello. Non sapendo che farsene, esclusa l'idea di liberarlo, lo rifilò a suo padre, Zeus.

«Me lo tieni mentre vado in vacanza?» classica scusa non per riprenderlo mai più, «te la lascio qui con la gabbia. Mi raccomando, papà, non ucciderla perché è un'umana a cui ho promesso una punizione eterna.»

«D'accordo», Zeus alzò le spalle, aveva altro a cui pensare per far caso alla gabbia appena posata nel suo studio. Se ne accorse dopo, quando l'uccello tirò uno strillo e lui spiccò un salto per lo spavento. A cascare sulla sedia provocò un terremoto tale che Santorini vide la sua isoletta inabissata, un'altra volta. «Ma che?» Stupito si avvicinò alla gabbia, l'uccello lanciò un altro fischio, acuto che Zeus sentì i timpani vibrare anche dopo. «Polimnia!» Corse giù per le scale prima che una biga volante portasse la musa oltre le nuvole, «ma che accidenti di maledizione hai fatto a quella umana?»

«L'ho trasformata nell'uccello dal canto più odioso della terra.»

«L'agapornis?», esclamò il padre degli dei, «e perché?»

«Per farti un regalo.»

«Davvero?»

«Ciao!» La musa decollò, prima che il sorriso inebetito del padre svanisse.

Lo stridio accolse Zeus di ritorno nel suo ufficio, l'agapornis lanciò fischi per ogni passo del dio verso la sua poltrona, ne lanciò mentre si sedeva e continuò a lanciarne mentre Zeus si massaggia le tempie. Dubitò di riuscire a lavorare oltre quel pomeriggio, abituarsi all'uccello divenne la priorità e ci sarebbe riuscito, o almeno così credeva. Accavallò le gambe e aprì una rivista incisa in blocchetti d'argilla, il newsargilla.

«Pih!»

Troia è in fiamme e Achille sta per...

«Pih!»

Apollo sta per raggiungere Dafne e farle di tut...

«Pih!»

Efesto è appena entrato nella sua camera da letto, dopo un anno di duro lavoro in fucina, dentro trova sua moglie Afrodite assieme a quello sozzo di...

«Pih!»

«La vuoi smettere?»

«Pih!»

«Smettila!»

«Pih!»

Zeus scagliò il newsargilla fuori dalla finestra, non riusciva a leggere neanche una notizia intera, nemmeno una delle più oscene mentre quell'uccello:

«Pih!»

«Basta», raccolse una saetta dal portaombrelli la puntò sull'uccello ma deviò all'ultimo e la scagliò fuori dalla finestra, colpì quella famosa aquila ghiotta di fegato, Prometeo rise, ma Zeus precisò: «L'ho fatto apposta, un dio non sbaglia mai.»

«Non è vero» ribatté Pometeo, incatenato giusto sul picco di fronte all'attico di Zeus. Quest'ultimo abbassò le tapparelle. «L'uccello confonderà il buio con la notte e non canterà più» e infatti per un poco fu così, «finalmente.»

«Pih!»

«Come? Adesso lo ammazzo, cosa accadrà a un uccello se viene gettato dal monte Olimpo? E assieme a tutta la gabbia?» riusciva a immaginarlo, anche a immaginare di lanciarlo, fin troppo bene, l'unica cosa che non riusciva a figurarsi era la sua morte, «forse perché è ancora così dannatamente vivo.»

«Pih!»

«Eh già.»

«Pih!»

«Una saetta», lo immaginò incenerito, ma forse gli avrebbe dato meno soddisfazione di qualcosa di più cruento, «una meteora di fuoco.»

«Pih!»

L'uccello continuava imperterrito, impossibile che non capisse le parole del divino, Zeus riteneva molto più probabile che quell'uccello, per demenza o per odio, intendesse semplicemente esasperarlo a morte.

Unica soluzione, si disse Zeus, liberarlo e poi raccontare una scusa qualsiasi alla figlia. Aprì la gabbia e la scrollò fuori dalla finestra, l'uccello però, invece di fuggire, si appiccicò ai suoi capelli e per quanto lui lo cacciasse, quello tornava svolazzando da lui. Si arrampicava sui boccoli canuti, raggiungeva l'orecchio e col becco sul lobo gridava: «Pih!»

Quell'uccello aveva vinto, Zeus decise di umiliarsi ai piedi di Atena per chiederle consiglio, questa, sempre infastidita che le sorellastre minori impartissero punizioni come fossero dee superiori, consigliò questo:

«Falla tornare umana, giusto per il tempo che passerà nel tuo ufficio. Se Polimnia tornasse ti avvertirò per tempo io.» Non l'avrebbe fatto e che il padre imparasse a gestire da solo le sorellastre.

Zeus corse nel suo ufficio e, prima di sentirlo cantare di nuovo, toccò il becco dell'uccello. Aella comparve davanti al padre degli dei, guardarlo la terrorizzò ma di fuggire le mancò la forza nelle gambe. Anche a Zeus capitò qualcosa nel guardarla, non si trattò però di tremori alle gambe, ma di un fremito nel ventre, non si irrigidì dalla paura ma dalla bramosia e subito le gettò le mani addosso per coricarla sulla sua scrivania.

Aella, consapevole della sua impotenza, chiamò aiuto ma non gridando, cantò una supplica e il suo canto fu melodioso e sopraffino al punto che Zeus, ascoltando, si sdraiò sulla schiena e crollò in un sonno profondo.

Aella si trovò così libera, di nuovo umana e quasi certa che, uscita dalla porta, nessuno l'avrebbe trattenuta dall'abbandonare l'Olimpo, il luogo proibito ai mortali. L'hybris però proprio in quel momento sussurrò al suo cuore. Vide il corpo riverso di Zeus e pensò a Ercole, il mitico semidio che ogni madre vorrebbe come figlio. Con questa speranza, salì su quel corpo dormiente e afferrò l'occasione di concepire un semidio. Tuttavia, prima che che l'atto fosse compiuto, Polimnia piombò nella stanza, trovò Aella sopra a suo padre e la ritrasformò in agapornis. Qualcosa però era già successo e, qualche mese dopo Aella l'uccello dal canto orrido depose alcune grosse uova nell'ufficio del padre degli dei, uova dalle quali nacquero le sirene dei testi antichi, metà uccelli e metà donne canterine. 

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