13 #Cyberpunk - La sirena di metallo
Il cavallo d'acciaio corre a eseguire la nostra estinzione, sulla sua sella qualcuno dal viso familiare, non il teschio dell'angelo dell'Apocalisse, il nostro.
Sopra questa scritta un murale che copriva tutto il piano terra del grattacielo Skybreaker. Per quanto il murale si alzasse di dieci metri sopra la folla, nessuno degli inquilini si sarebbe accorto della sua presenza. Chi abitava in quei palazzi entrava al centesimo piano, dalla piattaforma d'approdo per elio-taxi, appena sopra la coltre di smog. La vista dall'attico doveva dare l'idea di abitare in paradiso, sopra le nuvole, dove spuntavano solo torri e si poteva volare a piacere da una all'altra. Sotto lo smog facile credere nell'opposto, di abitare all'inferno.
«Assurdità da vecchio millennio», borbottò un senzatetto di cui Aratouth non si era accorto, «quel grosso disegno mi da fastidio: sono sempre stato qua davanti a raccogliere le briciole degli altri. »
«Fastidio?» Aratouth, aggiustò la sua borsa di attrezzi sopra la spalla, spinse gli occhiali fin alla radice del naso e schioccò le labbra: «è una condanna all'uomo avido, che col potere della cibernetica oltrepassa il limite e raggiunge solo la propria morte.»
«La propria morte?» Il senzatetto stese una mano metallica verso il giovane ingegnere, uno scintillio di laser baluginò nei suoi occhi artificiali e nella voce vibrò qualcosa di elettronico: «hai da sbriciolare qualcosa nelle mani di chi ha sempre fatto elemosina qui?»
Aratouth corrugò le sopracciglia e gli mollò due batterie. Con "sempre" quell'uomo intendeva almeno due centinaia di anni e l'ingegnere sapeva ci sarebbe rimasto ancora: le parti meccaniche di un cyborg si usuravano poco e non andavano cambiate, non prima di qualche millennio.
L'ingegnere controllò il peso della sua borsa, si trovava ancora tutto lì dentro, la strinse sotto il gomito e proseguì nel fiume di gente della strada. Attorno agli ascensori si accalcavano in pochi, un viaggio costava cinquanta crediti e non si trattava del prezzo di consumo dell'ascensore, si trattava della barriera tra gli strati della città. Arotuoth si poteva permettere la tariffa fino al cinquantesimo piano. Lassù ci si poteva levare la maschera d'ossigeno due volte al giorno, almeno per coloro che possedevano ancora dei polmoni vecchio stile, organici, tuttavia fuori dalle finestre si trovava solo nebbia e il parapetto delle terrazze si ergeva fin sopra la testa della gente.
Arrivato al cinquantesimo e attraversate un paio di terrazze sulla parete di un magazzino in disuso una porta scorse rapida, incassata nel muro quando Aratuoth fece sentire la propria voce: «Sono io.»
«Ciao», miagolò la voce di Gingko, «hai trovato quello che cercavi?»
«Sì.»
«Nei bassifondi, sul serio?»
Una ragazza, con orecchie da gatto sulla testa e una coda sinuosa, camminò sul tavolo che dominava il centro della sala. Quel genere di creature nessuno ricordava quando fossero nate, umani-animali o animali antropomorfi, forse rimaneva scritto in qualche server impossibile da vagliare per intero. Aratouth non si capacitava di come un essere così tanto organico occupasse gran parte della sua vita, quella di un ingegnere cibernetico. Allungò la borsa sul tavolo ma Gingko posò il piede sull'unico spazio libero da attrezzi, ingranaggi e prototipi.
«Ahah», sghignazzò lei, «voglio vedere.»
«C'è poco da vedere.»
«Il nucleo cristallino di un cyborg? Non puoi dire "poco".»
«Ho dovuto strapparlo dal petto di un vecchio droide.»
«Un cimelio del tuo maestro?»
«A quanto pare. Era ancora attivo, proteggeva un laboratorio dismesso, senza chiedersi perché», tolse dalla borsa una pistola al plasma e la mise sul banco, Gingko levò il piede e lui ci posò anche il nucleo. Una sfera metallica da cui spuntavano lamierini storti e cavi, sul fianco il segno di una bruciatura da plasma che lasciò fuliggine sulle dita dell'ingegnere. «Senza più chiedersi perché», sospirò, «l'oblio dell'eternità è la fine più terribile.»
Gingko fece spallucce: «L'eternità è la parte più divertente della vita: quando sarò cresciuta ancora di qualche centimetro mi farò sostituire per intero, andrò in qualche paese lontano dove tutti muoiono e mi spaccerò per una divinità, Bastet mi chiameranno.»
«"Bastet"? Smettila Gingko, e poi dubito che crescerai più di così.»
Balzata giù dal tavolo la ragazza atterrò a quattro zampe, tornata in piedi davanti all'ingegnere gli raggiungeva giusto la spalla e, col naso arricciato in su gli sfiorava il mento. Aratouth la prese per le mani e la spostò di qualche passo.
«Lasciami lavorare, Gingko, penso a te stasera.»
«Sei maleducato: io non sono mica un impegno da sbrigare. Stasera potrei non esserci.»
«Aiutami piuttosto, per favore. Capisci che è importante?»
La ragazza osservò in silenzio l'ingegnere allungare le mani sulla tenda in fondo alla sala. Sebbene lei tormentasse tutte quelle appese davanti ai finestroni, quella in fondo alla sala era ancora intonsa. «Devi proprio scoprirla anche oggi?»
«Devo vedere come sta.»
«Ma non è ancora senziente, senza un nucleo, giusto?»
«Sì.»
Aratouth diede uno strattone e gli anelli della tenda tintinnarono tutti accavallati da un lato. Dietro il tessuto un cilindro trasparente pieno di liquido, la luce verde che sorgeva alla sua base lo attraversava colpendo un essere di metallo in posizione fetale.
«Lei ti spaventa così tanto, Gingko?»
«È che le mancano le gambe...»
«Tutto lì? Tu hai due paia di orecchie di orecchie in più e una coda, chi sei per giudicare?»
«A dirla tutta lei è una donna-pesce in un acquario mentre io sono una mezza gatto: non farmi familiarizzare troppo, o capirai chi delle due è in pericolo.»
«"Pericolo"», l'ingegnere posò la fronte sul cilindro e guardò l'essere dietro la condensa del proprio respiro, «io sono cresciuto nel limbo di questa città, né paradiso né inferno, il cinquantesimo piano. Da qui si vedono i peccati dei demoni e anche quelli degli angeli, senza pregiudizi. Per questo devi rispettare il mio progetto.»
«Rispettare? Io prima di tutto voglio essere rispettata,» Gingko diede una manata alla borsa dell'ingegnere che cadde dal tavolo, «dopodiché deciderò se mi piace il progetto oppure no.»
«Se non ti rispettassi te ne saresti già andata.»
«E tu non puoi fare a meno di me», lo provocò ma, senza vedergli addosso alcuna reazione, il sorriso le si storse in giù. «Aratouth? Perché ti vedo così preoccupato?»
«I droidi del mio maestro avevano un obiettivo in origine, tutti, forse raggiungere un futuro remoto, oppure una fine sensata. Ma li ho trovati lì, senza scopo, li ho dovuti terminare io.»
«Sei uno di quei pazzi depressi a cui spaventa vivere in eterno?»
«Forse» sussurra lui.
«Non mettermi paura, Aratuoth. Che intendi fare?»
«Ma no, non parlo sul serio. Anzi, la mia paura è il contrario, io temo che la fine di questa umanità sia già iniziata, nel momento in cui ha imparato come vivere molto più a lungo di quanto non dovrebbe il suo corpo. La meccanizzazione, la sostituzione degli organi, la digitalizzazione delle personalità, l'umano si sta perdendo nel labirinto che ha creato. Fra qualche secolo non avrà più bisogno di aria, come ha già abbandonato il bisogno di cibo, tanto tempo fa. Ma qualcosa fermerà tutto questo. Uno tsunami, come successe durante lo scioglimento dei ghiacci.»
«Quando c'erano ancora ghiacci? Parli di troppo tempo fa.»
Aratouth piantò gli occhi nella sirena di metallo ancora incompleta che galleggiava nel suo cilindro, «quando arriverà l'onda anomala della Fine lei porterà l'umanità oltre l'estinzione. Sarà l'Arca.»
«Ma...» Gingko si grattò nervosamente la tempia, l'idea di Bastet e di vivere in eterno si sgretolava ogni volta che l'ingegnere aprisse bocca. «Ma siamo troppo avanzati per "estinguerci in una catastrofe", sarebbe ridicolo, sarebbe come un androide guerriero che si inciampa nel cavo di alimentazione.»
«La fine di una civiltà si nota da quanto è esclusiva la sua élite. È sufficiente farci caso: la fine è ovunque nel nostro mondo, dentro casa, fuori dalla finestra, in strada. E ci sono due tipi di ingegneri che si confrontano con l'Apocalisse: coloro che studiano come impedirla e coloro che studiano come aiutare chi sopravviverà.»
«Perché una sirena?»
«In qualunque modo la nostra razza avrà termine, l'unico luogo dove la vita ricomincia è nell'acqua, ergo Eva2.0 avrà la coda di un pesce.»
Aratouth agganciò il nucleo di droide a un braccio meccanico il quale, tra ronzii e cigolii, lo portò fin al ventre della sirena. Il nucleo si incastonò da solo, attratto da una forza magnetica, gli spot energetici della sirena si illuminarono, le sue palpebre batterono qualche volta e i suoi occhi al neon si rivolsero all'ingegnere.
«Sei nata per vivere dopo la fine», dichiarò Aratouth, «porti in te qualche migliaio di embrioni umani, riposerai finché l'acqua non sommergerà la terra e tu potrai fecondare un nuovo mondo.»
Gingko, strisciò lungo la parete fino all'orlo della tenda, senza farsi vedere dalla sirena la tirò a coprire tutto il vetro della vasca. «Ora mi porti fuori a cena?»
«I tuoi bisogni da organica sono estremamente ingombranti.»
«Soddisfare i miei bisogni è una scusa per farti sembrare una persona normale, Ara. Provaci almeno.»
L'ingegnere tolse i guanti, indossò la maschera d'ossigeno, ne diede una alla donna-gatto e la prese a braccetto. Chiuso il laboratorio alle loro spalle, nella vasca cilindrica, in un liquido immobile, la sirena di metallo attendeva la fine della civiltà cyborg.
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