Se la tua vita mi appartenesse [2/2]
Cosa poteva esserci di più sbagliato in tutto ciò? Non pensava all'approfittarsi di quella situazione, no; piuttosto si chiedeva il perché lui sembrasse avere una vita magnifica al contrario dell'altro. Era spregevole. Stringeva i pugni fino a far apparire le nocche bianche, le venature pulsanti. Mille pensieri imperdonabili lo perseguivano, ora che, mentre attendeva in sala, notò una foto incorniciata accanto al mastodontico televisore.
E quella foto aveva la sfacciataggine di mostrare il quadretto idillico di una famiglia felice: il ragazzo perfetto ed i genitori altrettanto perfetti; lei dai capelli biondo cenere, con una mano sulla spalla di Hayden, ed un paio di occhi verdi e amorevoli, orgogliosi. L'altra mano sulla spalla opposta di lui era del padre, un uomo che traspariva sicurezza, occhi scuri, profondi, capelli brizzolati, petto ampio.
La prese tra le mani con stizza ma qualcosa lo bloccava dal buttarla a terra e spaccare il vetro in mille pezzi. Non era rimorso, si era ripromesso di non provare più tale sentimento, non era neanche pietà. Gli era passato. Era rassegnazione.
Quella era la sua vita, doveva solo accettarla.
Ma tutto ciò cosa stava a significare? Forse un sogno lucido che portava ad una morale. Ma quanto pareva durare, non lo sapeva. Tutto l'ambiente circostante lo sentiva, ogni oggetto, ogni contatto, tutto ruotava attorno a quella sua identità fittizia oppure no, voleva tanto avere delle risposte. Diede la colpa al fato, ancora una volta, era l'unica cosa più sensata da fare. Quando, quei giorni, gli capitava di alzare il mento verso il cielo, notava sempre e solo una stella a nord. Non gli dava conforto né compassione, era sola quanto lui, fredda tale e quale a lui. Anch'essa stava lì ferma senza fare niente, come i piedi di Cole sul pianterreno, al di sotto di un cielo quasi spoglio che copriva il ragazzo con un sottilissimo velo, forse tentando di orientarlo verso la giusta via.
Il suono melodico del campanello bloccò il flusso di coscienza del ragazzo, suggerendogli di aprire la porta d'ingresso.
Notò solo dopo che un piccolo impianto elettronico accanto la porta si accendeva appena vi era qualcuno fuori l'entrata, segnalando sagoma dell'individuo, temperatura corporea e un primo piano del volto del giovane Austin.
Titubante Cole aprì, salutandolo con un cenno e invitandolo senza ulteriori indugi. Quell'Austin gli dava una certa inquietudine, camminava rigido verso la sala e ogni due per tre scrutava il padrone di casa quasi pronto per un'aggressione.
È la mia fine. Vorrà i miei organi? Cole deglutì.
Si adagiò cautamente sul divano, l'ospite fece lo stesso. Il tedioso silenzio non fece che aumentare il battito di entrambi, scambiandosi intensi sguardi indecifrabili.
Austin strinse i pugni sulle ginocchia, scuotendo rapidamente una gamba, deviò lo sguardo arrossendo e forse l'altro comprese qualcosa.
«Devi... Andare al bagno?» Chiese senza pensarci troppo. Austin negò velocemente col capo.
«Ti dovevo parlare di ciò... Che è successo alla festa.» Rispose tutto d'un fiato, accennando quanto detto al telefono.
I muscoli di Cole si rilassarono, si sedette più comodo e allora invitò l'altro a proseguire, con un'irrefrenabile curiosità di sapere quale punto debole avesse il fantomatico Hayden. Ghignò improvvisamente, facendo scemare all'istante quella espressione e sperò che l'altro non se ne fosse accorto.
«Ti ascolto».
«Sai cosa intendo... Quello che è successo... Voglio solo capire se è stato volontario o meno...» Si torturava le mani guardando nel vuoto.
«Non ti seguo».
«Quando... Ah, dannazione. Quando ci siamo baciati, quella notte, io... Io... Non ero in me. Credo...»
Cole perse un battito.
«Cioè... No, sapevo cosa stavo facendo e non mi sono tirato indietro... Così neanche tu. Volevo sapere cosa ne pensavi, tutto ciò mi sta divorando da giorni, Hayden.» Austin diventò ancora più rosso.
Cole era pietrificato.
L'ultima cosa che si sarebbe aspettato era certamente quella. Un attimo priva si beffeggiava di Hayden mentre ora voleva sotterrarsi dalla vergogna per aver baciato un maschio. Ma magari era ubriaco, in quel momento. Anzi, doveva essere così per forza, non voleva sentirne ragioni.
«... Ero sicuramente ubriaco. Non c'è nulla di più da dire.» Deviò lo sguardo. In quel preciso istante, Cole voleva sparire.
«Capisco.» Nella grande sala piombò su di loro di nuovo un imbarazzante silenzio. Eppure Austin sembrava non cedere, Cole non riusciva a capire a cosa volesse arrivare, quel ragazzo gli stava solo facendo venire un'emicrania.
«Tu sei fidanzato con Klara. Allora, è ufficiale.» Sorrise rassegnato il biondo, nel mentre si alzò dirigendosi verso l'ingresso, «scusa per averti disturbato con questa faccenda, Hayden... Non parliamone più di questa storia, che ne dici?» Puntò i suoi occhi chiari in quelli di Cole.
«Certamente».
«Ci sentiamo, allora.» Fece per andarsene ma Cole lo bloccò per un polso, sentendo l'altro irrigidirsi.
«Aspetta, mi accompagneresti da... Da Marcus.»
«Certo, va bene.» Così camminarono assieme, entrambi le mani in tasca, verso casa del ragazzo esuberante. Per tutto il tragitto, nessuno dei due osò dire qualcosa, se non commentare il cielo particolarmente azzurrino e alcuni bambini correre con dei skateboard che, agli occhi di Cole, erano veramente bizzarri: una tavola piatta senza alcuna ruota, capace di fluttuare a mezz'aria e curvare morbidamente agli angoli. Generavano una sottile corrente d'aria, alzando foglie e rami dalle aiuole passandoci di fianco.
Avrebbe voluto farci un giro.
La casa di Marcus era simile a quella di Hayden, dall'architettura solita con alcuni enormi pannelli sul tetto e delle piante rampicanti che circondavano i balconi. Il cancello in comune con l'intero isolato era però coperto da innumerevoli graffiti, raffiguranti paesaggi fantasiosi, paludi, radure, innumerevoli riferimenti alla natura. Tutto quel verde dava al ragazzo un senso di tranquillità, inconsciamente riuscì a gestire meglio le proprie sensazioni, lasciando spazio al continuo stupore.
«Bello che ci sia anche tu, Austin!» Marcus li accolse sull'uscio, diede un cinque ad entrambi e subito li accompagnò sul retro dove Cole scoprì un secondo mondo: lo stile minimal della sua abitazione era in netto contrasto col boato nell'officina. Tra cianfrusaglie e lunghi cavi a terra, il soffitto che pareva infinito, illuminazione tenue a led, quella stanza rettangolare - che Marcus amava identificare più come laboratorio - sembrava l'apoteosi del futurismo per Cole.
Ed era tutto concentrato in una stanza, dall'umidità assente, le pareti isolanti e tappezzate qua e là di progetti per svariati prototipi. Svariati pezzi erano posti in un angolo, accanto un lungo banco da lavoro, in attesa di esser assemblati e testati.
Cole si guardava intorno con la bocca spalancata, sotto il volto divertito di Marcus.
«È tutto così...» Pronunciò appena, non riuscendo a trovare le parole adatte.
«Eheh, lo so, bello mio! Ho fatto una bella ristrutturazione dall'ultima volta. Ahh, quei robottoni mi avevano dato parecchi guai, che ricordi...» Farfugliò Marcus, ridacchiando e passando una mano tra i capelli.
Ora che Cole gli era accanto, notò che l'amico appassionato di meccanica era piuttosto basso, ma abbastanza forte dal portare avanti e dietro vari pezzi dal calibro esagerato, senza alcuna fatica. Indossava una tuta interamente bianca con guanti e stivali ciano, di materiale a sua volta isolante.
Aveva una certa parlantina, sorrideva troppo per Cole ma non gli recava così fastidio come pensato.
Per un attimo, solo un attimo, vide in lui Dave. Il suo sorriso e il modo strambo di muoversi tra gli arnesi gli ricordavano Dave.
«Muovete le chiappe, è qui il bolide!» Marcus urlò dal fondo della stanza, smuovendo Cole dai soliti pensieri.
Si incantò davanti quella moto: risultava perfetta, lo specchio del suo proprietario, per quanto la carrozzeria risplendeva alla luce fredda dell'officina, quanto risaltava l'azzurro lindo e senza neanche un graffio, circondato da una striatura color antracite che terminava verso le ruote. Vagamente, gli ricordava l'Honda VFR 800 che aveva visto sempre sui giornali, una novità dal mondo giapponese che aveva fatto impazzire tutta la sua comitiva. Quanto ne desiderava una.
Vederne dal vivo, era però diverso, se non possederne, addirittura. Ed ora era impropriamente sua.
«Lo so, ho fatto un bel lavoro, neanche più un graffio.» Marcus batté dei colpetti sul sedile, invitando Cole a fare un giro per testarla. Non che non fosse mai andato su una moto, ma l'idea lo elettrizzava tantissimo che ancora non si rese conto di esserci salito e averla accesa.
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