Tra Zampogna e Zabaione

Titolo: Tra zampogna e zabaione.
Autore: Etroom
Pacchetto: Napoli

​La chiesa di Piazza del Mercato è la più imponente e frequentata del quartiere.

Il cortile è circondato da un recinto di granito e cancelli in ferro battuto, le cui guglie aguzze impediscono l'accesso dall'alto. Un beige sbiadito colora le facciate esterne della struttura. Sulla principale si staglia un portone di legno, sulle altre rosoni e vetrate che riflettono i raggi del sole mattutino. Da qualche mese è diventata per lui un'ottima fonte di guadagno. Eppure, Matteo non ha ancora avuto l'onore di varcarne la soglia.

La prima volta che l'ha adocchiata gli ha subito ricordato un tendone da circo, ed effettivamente di spettacolini grotteschi ne ha visti tanti da quelle parti: le protagoniste sono sempre persone che si presentano fuori i portoni della diocesi profumando di banconote e che durante la messa, quando arriva il momento del 'fate un'offerta a vostro piacere', non esitano a ficcarsi le mani nelle tasche e a ricacciarle colme di monete scintillanti, ma che all'uscita lo sorpassano senza nemmeno degnarlo di uno sguardo, neanche fosse trasparente.

Sono loro a scegliere di non vederlo. Sono loro a dare i propri soldi a uomini ricoperti d'oro e non a lui che va in giro con calzini e scarpe bucate. Dopotutto, si dice, è di questo che è fatta la vita: scelte.

Le campane suonano, segnando la fine della messa mattutina, e i fedeli si affrettano a fare ritorno alla realtà quotidiana. È una catarsi quella a cui molti di loro partecipano ogni giorno. Entrano in chiesa e lì vi lasciano i pensieri più violenti, così che all'uscita possano comportarsi in modo esemplare. I peccati gli vengono lavati via dall'anima e sono pronti a ricadere in tentazione, senza mai imparare dai propri errori ma consolati dall'idea di poter essere sempre perdonati.

Matteo è pronto ed entra in azione. Allunga il suo berretto sbiadito con il logo della PlayStation stampato sopra. Aspetta e spera - spera, soprattutto, ma non parla perché sa che i complimenti e la cortesia non funzionano.

Se non vogliono cacciare i soldi, non cacciano soldi. Infatti, alcuni si tastano le tasche dei cappotti di lana e fingono di cercare spiccioli, il resto nemmeno si volta nella sua direzione. Preferiscono non vederlo e far finta che non esista, così che la loro coscienza rimanga pulita e la loro morale intatta.

Una bambina lo fissa intensamente. Matteo le rivolge un sorriso. Quella strattona il braccio della madre e le chiede un euro.

"Che ci devi fare con un euro?"

La bambina lo indica. La donna abbassa lo sguardo e lo vede accovacciato a terra, così ingobbito che non si capisce quanto sia alto. Il volto le si contorce in una smorfia di disgusto. Matteo sa che gli sta guardando i capelli sporchi, i ricci scuri e unti. Sa che gli occhi si ancorano al viso stanco, alle occhiaie e alle guance infossate, al monociglio e al principio di barbetta che non sa come rasare. Sa che poi esamina la sua pelle alla ricerca di buchi d'ago. Non ne trova. Quindi si perde nelle chiazze mimetiche che colorano i suoi pantaloni cargo.

​Lo guarda e lo giudica. Matteo è una macchia del tessuto sociale che a tutti ripugna ma che nessuno si degna di pulire. La donna desidera scrostarlo via dalla pavimentazione di marmo sulla quale è seduto, glielo comunica con gli occhi assottigliati e le labbra arricciate. Eppure, non fa nulla. Si limita a tirare via sua figlia. La costringe a camminare, a scappare, prima che cominci a vederlo per davvero, prima che gli appaia come un essere umano e non come una busta di piscio da evitare.

"Scustumatə," pensa Matteo.

Mendicare non è un mestiere facile, lo sa bene, l'ha imparato a sue spese. Ci sono giornate no e giornate sì, persone no e persone sì. Giornate in cui si ritira alla stazione di piazza Garibaldi dove di solito dorme con solo una manciata di euro nelle tasche e giornate in cui elemosina così tanto che può permettersi un letto in un motel malandato.

​Il suo è uno stile di vita altalenante, che dipende dai passanti delle strade di Napoli. È già da due anni che le cose vanno avanti così, da quando ha deciso di scappare via di casa, stanco dei soprusi di suo padre. Ha preferito finire per strada, piuttosto che continuare a vivere nel fatiscente vascio dove è nato, proprio nel cuore dei Quartieri Spagnoli. Ma sin dal primo giorno si è fatto una promessa: non rubare, non importa quanto cadrà in basso, non lo farà mai, a costo di non mangiare per giorni e dormire tra i bidoni della spazzatura.
Sfolgoranti luminarie natalizie decorano le strade e le piazze. L'aria di Natale vorrebbe invadergli le narici e assediare il suo cuore, riscaldando i ventricoli polverosi, ma a Matteo il Natale non piace, non è mai piaciuto. Serve a ricordare ai poveri quanto sono poveri e a chi è solo quanto sia solo, e per un tipo sfortunato come lui è facile annegare tra le onde dei brutti ricordi.

Matteo è nato in una famiglia indigente: quando si avvicinavano le feste natalizie non c'era niente di cui essere felici perché non c'era niente che potesse avere tutto per sé. I genitori non gli facevano trovare nulla sotto l'albero, solo il cibo sulla tavola.

Meglio riempirsi lo stomaco che il cuore.

​I suoi Natali sono sempre stati molto tristi, passati solo in compagnia dei genitori, tutti e tre attorno a quel triste tavolo, in quella triste casa, in quella triste vita. Mangiavano e si addormentavano come se fosse un giorno qualunque, e tra le lacrime asciugate contro la federa del cuscino Matteo pregava in un futuro migliore.

Poi, quando iniziò a frequentare il secondo anno dell'Istituto Tecnico Nautico, sua madre scoprì di essere malata di cancro della mammella. Stadio avanzato. La malattia se la portò via nel giro di pochi mesi e Matteo rimase da solo col padre, che toccò presto il fondo.

Quel primo Natale senza sua madre lo passarono in maniera squallida, Matteo guardava la neve cadere fuori dalla finestra mentre suo padre si faceva di eroina nel bagno adiacente. Il resto della famiglia sapeva, e fingeva di non sapere. Nessuno lo aiutò. Si era ritrovato a vivere con un mostro che sfogava su di lui ogni minima frustrazione.

Quando compì sedici anni, abbandonò la scuola e andò via di casa. Ha dovuto dire addio al suo futuro migliore per accontentarsi della sopravvivenza. Il Natale per strada è meglio del Natale a casa. Ogni tanto capita che qualche passante gli regali del cibo, un cappello, una sciarpa, e si sente tornare bambino, a quando ancora si incendiava di speranza e meraviglia.

Il rintocco delle campane si affievolisce fino a cessare del tutto. Il cortile della Chiesa di Santa Croce e Purgatorio al Mercato si svuota nel giro di pochi minuti e Matteo resta con a malapena tre euro ad appesantire il berretto che stringe tra le mani.

Riuscirà a comprarsi giusto il pranzo e una bottiglietta d'acqua. Già si visualizza costretto a tornare fuori dalla chiesa quella sera, in occasione della messa della Vigilia, per elemosinare la cena.

D'improvviso, uno schianto cattura la sua attenzione. Proviene dall'altro lato della strada. Sul marciapiede c'è un uomo che con uno scatto violento ha appena spalancato il coperchio di un bidone dell'immondizia; ha una zampogna caricata in spalla e il volto arrossato dalla fatica. Piega le ginocchia e la lancia nel cassonetto. Altro schianto, questa volta più rumoroso del primo.

Matteo è immobile, guarda la scena come se fosse bloccato in un fermo immagine. L'uomo grugnisce, si pulisce le mani sbattendole tra loro, sbuffa e si tira su i pantaloni allentati. Poi rientra nel palazzo da cui è uscito.

Un'idea gli si arrampica lungo la spina dorsale, ma prima di permetterle di aggrapparsi al cervello, Matteo vuole assicurarsi di averci visto giusto. Allora, abbandonando la sua postazione, si ficca in tasca le monete, il berretto se lo porta in testa, la coperta la infila nello zaino, si sgranchisce le gambe, e poi parte all'attacco.

Attraversa la strada senza guardare.
Una macchina inchioda, consegue un bussare di clacson.

"Strunzə!" urla il guidatore di una Panda blu mentre lo sorpassa, ma Matteo continua ad attraversare, finché le suole consumate non si posano sul marciapiede. Adagio, si avvicina al bidone dell'immondizia. Un mosaico di sacchetti giace al suolo: blu, nero, rosa, bianco e verde. I colori del degrado. I cassonetti adiacenti sono strapieni. La raccolta differenziata non esiste. L'odore che si sprigiona è nauseabondo, gli viene la nausea e i Chicken McNuggets della sera prima minacciano di risalire per l'esofago.

Nonostante ciò, Matteo trattiene il fiato e si affaccia sul cassonetto rimasto aperto. C'avevo visto bene...

Ha davanti una zampogna; conta cinque canne inserite in un ceppo legato all'otre, la sacca di accumulo dell'aria è realizzata con pelle di capra, o forse pecora. Non se ne intende, nota solo che è bianca. Il vecchio proprietario ha legato dei nastri rossi e un cornetto attorno alle due canne più grandi, probabilmente per proteggerla dal malocchio.

L'idea torna a pizzicargli la nuca: potrebbe andare in giro a suonare la zampogna per guadagnare molti più soldi e procurarsi una cena decente. Il problema è che non sa suonarla.

Improvviserò, si dice, tirandola fuori dal bidone.

Storce la bocca, è molto più pesante di quanto sembri. Si sente ridicolo. Non sa come maneggiarla e le sue braccia magre tremano per il peso eccessivo. Eppure, nel momento in cui avvicina le labbra a una delle canne e soffia, producendo un suono stridulo, si ricrede.

Può funzionare.

Studia la zampogna. Non sa suonarla, ma sa cos'è e sa chi sono gli zampognari — musicisti che con l'arrivo del Natale percorrono le vie cittadine eseguendo motivi tradizionali. Di solito suonano in due, infatti la 'coppia' di zampognari è una presenza fissa del presepe. Talvolta bussano alle porte delle case per regalare un po' di musica in cambio di un'offerta.

Matteo potrebbe improvvisare una melodia, e anche se risultasse tremenda e stonata, vista l'atmosfera di festa chi mai si rifiuterebbe di fare un'offerta dopo un'esibizione?

Quello che resta da fare è trovare il quartiere giusto, quello che gli possa far guadagnare più soldi. Pensa subito al Vomero, la zona più ricca e più densamente popolata della città. Matteo si dirige verso la stazione della metropolitana di Piazza Bovio. Scavalca i tornelli quando la guardia è distratta, scende le scale mobili e s'infila nella prima carrozza. La gente guarda male lui e la zampogna durante tutto il tragitto. Quando arriva alla fermata di Vanvitelli si lascia alle spalle una serie di occhiatacce.

L'orologio digitale di una farmacia lo informa che sono quasi le due.

Ottimo, pensa, la maggior parte delle persone starà pranzando.

Cammina per una strada trafficata e colma di passanti. La cacofonia di voci e motori è assordante, ma sono le stradine tutte identiche e in ordine, così in contrasto con la confusione variopinta in cui si immerge ogni giorno, a disorientarlo. Non frequenta molto il Vomero, per lui è come un labirinto; infatti, più volte gli è capitato di perdersi.

Una donna vestita di rosso cattura la sua attenzione. Ha in mano delle buste piene di alimenti, è di ritorno dalla spesa. Si avvicina al portone di un gran bel palazzo: quattro piani, una decina di ampi balconi e una facciata fresca di ristrutturazione e in mattoni rossi, che riluce quasi quanto un diamante grezzo.

Segue la donna a distanza di sicurezza. Non vuole farsi notare, non subito. La osserva poggiare una busta a terra, con la mano destra tira fuori delle chiavi dalla tasca del giubbotto. Le infila nella serratura.

Clic.

Matteo le va incontro e senza farsi notare si intrufola nel palazzo.

All'interno, la temperatura cala. Per qualche ragione misteriosa negli androni fa sempre freddo, quasi come se ci si inoltrasse in un ecosistema alieno che divide le case dalla strada. In un certo senso, la strada è più accogliente di quel luogo di mezzo.

Un brivido gli corre lungo la schiena. Il silenzio è interrotto solo dall'eco generato dai suoi passi cadenzati.

Matteo sale i gradini della scala a chiocciola e raggiunge il primo piano.

​Solo in quel momento, la realtà della situazione con tutte le sue difficoltà e compromessi lo investe in pieno. Si ritrova paralizzato dal collo in giù, riesce solo a inghiottire un groppo di saliva. L'idea di fare più soldi del solito lo ha accecato al punto da non permettergli di guardare al futuro e pensare a come si sarebbe comportato quando si sarebbe ritrovato a vivere l'imbarazzo della situazione. Una cosa è ipotizzare di poter improvvisare una melodia con la zampogna, un'altra è ritrovarsi nel bel mezzo dell'improvvisazione con le dita che non si muovono, i polmoni che non cacciano aria e un criceto che corre su una ruota di plastica al posto del cervello.

Ha fatto una cazzata.

Si sistema meglio la zampogna sul petto. Porta il braccio destro sotto la sacca di pelle, il sinistro resta libero a maneggiare le varie canne. D'istinto sposta una gamba in avanti e la piega lievemente, l'altra la tende, diventa rigida, pronta a dare supporto. Curvando la schiena, avvicina la bocca alla canna primaria. Chiude gli occhi ed esala un lungo sospiro. Poi prende coraggio e soffia, spazzando via la magia del Natale.

Perché?

La melodia che produce non è una melodia ma un suono stridulo e cigolante, niente che possa essere paragonato alle canzoni di un vero zampognaro, a quelle sinfonie colme di nostalgia che nell'immediato catturano l'attenzione degli ascoltatori, riportandoli indietro nel tempo, ai ricordi belli dei giorni passati in famiglia, belli ma tristi, perché si è consapevoli che le cose non potranno mai più ritornare a quel prima di affetto - ormai si è grandi, ognuno ha imboccato la propria strada e si è allontanato dal nido, di cui però si ricordano le origini, l'odore e il calore che consolano il cuore.

Matteo crede di star suonando un semplice flauto. Muove le dita in modo scombinato e non riesce a soffiare a lungo, è scoordinato, a corto di fiato. Non c'è niente di armonioso nella sua performance, non c'è niente. La sua idea era stata quella di provare a suonare 'Tu scendi dalle stelle' ma la melodia che produce non le assomiglia affatto. Anzi, se potesse sentirlo, Gesù scenderebbe dalle stelle solo per menargli un ceffone e farlo stare zitto.

Sta facendo un casino. Gli inquilini del palazzo, disturbati dai loro pranzi iniziano ad aprire le porte. Non provano pena ma frustrazione. Lo legge tra le rughe che increspano le loro fronti.

Le note dissonanti riecheggiano per tutti i piani del palazzo. Eppure, Matteo continua, non riesce a fermarsi, si sta sfogando, sta rilasciando in ogni soffio tutta la rabbia che si porta dentro.

Sente le porte aprirsi, la gente discutere.

"Ma cos'è sto rumore?"

"Uagliò, lascia stare, non fa per te!"

Le imprecazioni volano come aeroplanini di carta tra le scalinate, tagliando Matteo nell'orgoglio, ma è quando sente qualcuno minacciare di picchiarlo e qualcun altro di chiamare la polizia che smette di suonare.

Allontana la bocca dalla canna primaria, affranto.

Volevo solo fare qualche soldo per mangiare...

Vorrebbe gridarlo ma è troppo umiliante. Si limita a guardare la signora ancora ferma sulla soglia di casa. Sa che ha notato le lacrime incastrate nei suoi occhi, e nonostante ciò non lo aiuta, non sa come aiutarlo - ha gli spicci  in cucina, nel barattolo dei biscotti, li stava conservando per giocare a Tombola, vorrebbe andare un attimo dentro a prenderli per fare la sua offerta, ma al contempo ha paura di lasciarlo solo, quel povero e disgraziato giovanotto, teme che qualcuno possa veramente chiamare la polizia e farlo arrestare.

Il destino li aiuta. Dalla porta dell'appartamento accanto appare un uomo anziano.

"Cos'è 'sto casino?"

L'uomo è basso e magro ma con la pancia rotondetta. I capelli e i baffi bianchi rilucono sotto il fioco bagliore dei neon delle scale. Ha un volto rugoso, eppure le guance sono tinte di rosso – forse è colpa del terzo o quarto bicchiere di vino. Anche lui, come la gente fuori dalla chiesa, profuma di soldi. Indossa un maglione di cashmere e scarpe in vera pelle, stringate e dalla punta tonda.

"Alfò," urla qualcuno, "è arrivato lo zampognaro ma non sa suonare."

Alfonso muove qualche passo in avanti mentre si arrotola le maniche della camicia sopra i gomiti. Matteo intravede un rolex dorato e diversi anelli scudo. Nonostante ciò, nei suoi occhi scorge un dolore che riconosce: il mostro della solitudine che gli aggrotta le sopracciglia folte e gli tinge di nero le occhiaie già scavate dalle notti insonni.

Quell'uomo è spento e danneggiato, come una serie di luci che si ritrova dopo anni nello scatolone delle decorazioni di Natale – quella serie che si credeva di aver perso e che quando si ricaccia fuori è piena di polvere, quella che nonostante l'aspetto malandato si prova a collegare alla corrente per scoprire se ancora funziona, eppure quando si vede che quindici dei venti led sono rotti ci si costringe a buttarla via. Uno ci ha provato, ma non ha funzionato. Ecco, in passato qualcuno ha di sicuro provato a riaccendere quell'uomo di speranza, però non ha funzionato; perciò, è stato abbandonato e lasciato solo nel suo rancore.

Quel dolore che Matteo scorge gli ispira fiducia. Sa che potrebbero capirsi. E infatti, Alfonso va oltre il velo dell'apparenza, oltre la cattiveria e le brutte intenzioni, capisce subito che c'è un motivo per cui la zampogna risulta essere troppo grande e ingombrante tra le sue mani; vede il mare di lacrime intrappolato negli occhi di Matteo, la tempesta che vi persevera e un ragazzino affamato in balia delle onde salate, della vergogna che rischia di traboccare. Vede le lacrime e a modo suo cerca di asciugarle. Gli ricorda se stesso e fa quello che nessuno ha mai fatto per lui: gli dà un'opportunità, gli mostra quanto calda può essere la luce del sole dopo mesi di oscurità.

Alfonso mette le mani sulle anche e sospira. "Si vede che era solo nervoso," lo giustifica, poi con un cenno del capo indica la porta di casa sua, "forza, entra, ho bisogno di qualcuno che mi benedica il presepe."

A Matteo si mozza il fiato dall'incredulità. "Davvero?"

"Uagliò, non farmi perdere tempo."

"No, no, no," farfuglia, risvegliandosi dalla trance, "certo che no."

Si passa il dorso della mano sugli occhi e tira su col naso. Segue Alfonso dentro casa, mentre il resto degli inquilini fa ritorno ai pranzi bruscamente interrotti.

Il soggiorno dell'uomo conferma le aspettative di Matteo. Un grande albero di Natale domina accanto alle poltrone e a un tavolino basso. Vicino, a riscaldare l'ambiente, c'è un caminetto acceso, accompagnato da una libreria piena di volumi più spessi dei mattoni che lo incorniciano. La luce del primo pomeriggio penetra dai vetri di un'ampia finestra e si diffonde morbida per la stanza, due lampade e varie serie di luci natalizie contribuiscono all'illuminazione.

Matteo sorride. È tutto ciò che non ha mai avuto. Manca all'appello una televisione. Eppure, una canzone ritmata gli giunge all'orecchio: 'Last Christmas' di George Michael e Wham. Proviene da una piccola radio posta sul tavolino.

"Quello è il presepe."

Gli indica l'angolo destro della stanza, lì dove prende vita un piccolo e modesto spettacolo della natività di Cristo.

Ma l'ha capito che non so suonare?

Matteo manda giù un grosso groppo di saliva. "Va bene."

Riposiziona la zampogna. Sospira, poi soffia. Non cambia niente, il suono che fuoriesce dalle canne è lo stesso di prima. Fa rizzare i peli sulle braccia di Alfonso e gli fa maledire il suo stesso udito, che nonostante i settant'anni non ha ancora deciso di abbandonarlo.

"Uagliò," lo ferma, mettendogli una mano davanti, "basta, sinnò me faje chiagnere o bambiniello."

Matteo smette immediatamente, rosso di vergogna.

"Da dove l'hai presa la zampogna?"

"Dalla spazzatura, ho pensato di provare a suonarla per fare un po' di soldi,"gli risponde celere, "mi dispiace, non sono un vero zampognaro, non volevo mentire o fingere di essere qualcun altro, mo' me ne vado."

Alfonso gli afferra un braccio. I due si guardano negli occhi, è come se si potessero leggere dentro. "Come festeggerai la Vigilia?"

Matteo si stringe nelle spalle. "Signò, io vivo per strada," gli sputa in faccia la verità. "Non ho un posto dove stare, non ho cibo da mangiare, non ho piani per le feste..."

Alfonso abbandona la presa e si lascia andare a un profondo sospiro di rassegnazione. "Puoi stare qua fino a domani mattina."

"Cosa?"

Matteo fatica a crederci.

"Basta che mi aiuti a preparare il cenone di stasera e a ripulire la casa dopo."

No, non ci crede, è troppo bello per essere vero. Come fa quell'uomo a fidarsi di un pezzente come lui?

"Non aspettate nessun altro?"

Alfonso resta a guardarlo senza rispondere, mentre un sorriso triste gli incurva gli angoli della bocca.

Eccolo il motivo per cui riesce a fidarsi, per cui deve fidarsi, per non passare il Natale in solitudine.

"Mia moglie è morta il mese scorso, non abbiamo mai avuto figli," gli rivela con voce tremante. "I miei fratelli non vivono più qui da anni ormai."

Solo, completamente solo. Proprio come lui.

"Mi dispiace..."

Matteo non sa cos'altro dire.

Alfonso gli dà le spalle, si nasconde per asciugare le lacrime.

Lo sguardo di Matteo cade su una fila di foto appoggiate su un mobiletto lì vicino. La sua attenzione viene attirata da una cornice in particolare, che conserva una foto color seppia. Ritrae un giovane uomo intento a suonare la zampogna, avvolto da un lungo mantello nero tradizionale, alle sue spalle c'è la balaustra di un balcone e in lontananza il porto di Napoli col Vesuvio che ruba la scena.

"Signor Alfonso..."

L'uomo si volta lentamente e Matteo gli indica la foto che sta studiando.

"Quello siete voi?"

Alfonso si avvicina e sorride tra le lacrime. "Sì, uagliò, parecchi anni fa..."

Capisce anche perché l'ha fatto entrare dentro casa sua. Ha visto davvero se stesso in lui, ha voluto davvero condividere la sua bontà per intorpidire la solitudine e ricordare com'è che ci si sente a passare il Natale in buona compagnia.

"Vi ricordate ancora come si suona?"

"Ovvio" risponde Alfonso. "Dopo pranzo posso provare a insegnarti un po', così pure domani puoi provare a guadagnare qualcosa."

A quel punto sono gli occhi di Matteo che iniziano a inumidirsi, ma Alfonso lo ferma prontamente.

"No, uagliò, ti prego, basta chiagnere," lo implora in modo scherzoso, poi gli mette un braccio attorno alle spalle. "Vieni, andiamo in cucina, prepariamo lo zabaglione per il dessert."

Matteo posa la zampogna sul divano e si lascia portare via, non ha il coraggio di rivelare che sono anni che non mangia lo zabaione e che ormai non ne ricorda più il sapore.

Ed è così che passa il resto della loro giornata. Tra zampogna e zabaione. Cucinano, mangiano e suonano assieme. A mezzanotte si ritrovano seduti sul divano a guardare la messa, entrambi coi cuori meno pesanti e decisamente più caldi di una pietra.

Quella sera, Matteo ha modo di farsi una doccia, e mentre si scrosta lo sporco e la tristezza di dosso piange e ringrazia in silenzio l'uomo che quella mattina ha deciso di buttare la zampogna nella spazzatura, poiché grazie a lui ha incontrato Alfonso che gli ha insegnato a suonarla.

Grazie a lui ha finalmente potuto ricordare il sapore dello zabaione.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top