8.

*H*

«Cosa stai facendo?» una voce arrochita mi giunse alle spalle mentre stavo frugando nei ripiani del pensile centrale. Sobbalzai con tanto di urletto neanche fossi stato sorpreso a rubare. Ero così assorto in quello che stavo facendo da non aver sentito lo sconosciuto scendere le scale.

Voltandomi di scatto urtai la scatola di cereali semi-aperta – che avevo appoggiato sul piano in marmo per controllare meglio il fondo del pensile – e questa finì a terra riversando il proprio contenuto sulle larghe piastrelle bianche.

«Merda!» fissai impotente la scia di palline al cacao che rotolava ai miei piedi.

Non ebbi il coraggio di alzare gli occhi sul padrone di casa ma lo sentii sbuffare. «Erano pure gli ultimi».

«Scusa, io... mi dispiace». Fissai il pavimento per qualche istante, le guance che mi andavano a fuoco, e mi chinai a recuperare quel poco che non era uscito dalla scatola e poteva ancora essere salvato. Riportai la scatola sul bancone e mi abbassai a raggruppare il resto dei cereali in piccoli mucchietti.

Con la coda dell'occhio notai lo sconosciuto uscire dalla stanza liberando uno sbadiglio e rientrare meno di un minuto più tardi con una scopa elettrica, una di quelle senza filo che avrei tanto voluto acquistare ma che costavano quasi come il mio intero stipendio di tirocinante. Niall mi prendeva spesso in giro per questo, diceva che svolgeva lo stesso compito di un qualunque altro aspirapolvere al triplo del prezzo.

Lo sconosciuto pulì tutto in pochi gesti rapidi ignorando le mie numerose offerte di farlo al posto suo e abbandonò l'elettrodomestico contro l'isola al centro. «Posso almeno sapere cosa stavi facendo?»

«Cercavo la farina». Incassai la testa tra le spalle, nell'improbabile tentativo di rendermi invisibile.

Lui aggrottò le sopracciglia in una silenziosa richiesta di una spiegazione più esaustiva.

«Volevo prepararti i pancakes per... ecco... ringraziarti dell'ospitalità».

«Non abbiamo la farina» sospirò strofinandosi gli occhi. «E ora la mia colazione si trova nella vaschetta di raccolta dell'aspirapolvere. Non oso immaginare cosa sarebbe successo se al posto di ringraziarmi avessi voluto mandarmi al diavolo». Non sembrava arrabbiato, altrimenti non si sarebbe limitato all'ironia. Forse non era ancora abbastanza sveglio per reagire come avrebbe voluto.

«Mi dispiace, posso rimediare preparandoti il pranzo?»

«Perché tu sai cucinare». Non era proprio una domanda, piuttosto un mix di sospetto, sorpresa e curiosità.

«Beh, me la cavo».

«Ovviamente». Mi parve di captare del sarcasmo.

*L*

Louis ricapitolò nella sua mente tutte le informazioni che aveva su quel ragazzo: sfacciatamente bello anche con l'espressione triste, gentile, sensibile, attento ai dettagli, uno che non si ferma alla prima impressione e che non ti fa sentire giudicato o sbagliato. Già questo era un mix difficile da trovare in un'unica persona ma se le abilità culinarie a cui aveva fatto riferimento erano vere anche solo in parte, Louis aveva di fronte una perla unica. Provò un improvviso senso di inadeguatezza di fronte a quell'adorabile esemplare d'uomo.

«Ti prego, mi sento terribilmente in colpa» lo guardò serissimo afferrandogli un polso.

Adorabile era l'unica cosa che sentiva ripetersi senza sosta nelle sue orecchie.

«Se prometti di non far esplodere il bollitore, puoi prepararmi un tè» concesse Louis senza interrompere il contatto con i suoi occhi o con la sua mano. Il ragazzo si illuminò in un ampio sorriso e cominciò subito a trafficare con l'apparecchio.

«Sei davvero sicuro di non volere che prepari qualcosa per pranzo?» riprovò mentre aspettava che l'acqua bollisse.

«Oh, sono davvero curioso di assaggiare uno dei tuoi piatti ma temo non ci sia niente che tu possa utilizzare. A meno che non ti bastino ketchup e latte».

«Quindi cosa contavi di mangiare a parte i cereali?»

Louis recuperò la scatola dal piano in marmo e svuotò quel poco che era rimasto nel palmo della mano. Prese poi quella dello sconosciuto ruotandola in modo che il palmo fosse rivolto verso l'alto a creare una specie di coppa e vi lasciò cadere metà dei suoi già decimati cereali. Gli rivolse un sorriso incoraggiante prima di buttare la testa all'indietro e lasciare che le palline gli riempissero la bocca.

«Visto che questi non bastano più, c'è un intero cassetto del congelatore dedicato ai miei amati cibi pronti» spiegò facendo scrocchiare i cereali tra i denti.

«C'è un supermercato nei paraggi?»

«Il più vicino è a dieci minuti da qui».

«Perfetto perché nessuno può mangiare quelle schifezze in mia presenza».

Louis aprì la bocca per protestare ma l'altro glielo impedì infilandoci qualcuna delle sue palline al cacao. Mangiò quelle che gli restavano e rivolse la sua attenzione al bollitore che aveva preso a fischiare. Recuperò una tazza dal ripiano alla sua destra e la riempì di acqua bollente. Louis lo guardava esterrefatto mentre si muoveva con sicurezza come se abitasse lì da sempre. Si immaginò di trovarlo così ogni sera, di ritorno dal lavoro, magari con indosso uno stupido grembiule.

Interruppe quell'immagine con un colpo di tosse, aggiunse una bustina di tè alla tazza che il ragazzo gli aveva porto e aspettò che la bevanda raggiungesse la temperatura perfetta.

Lo spilungone restò di fronte a lui, un fianco appoggiato al bancone della cucina, a osservarlo. Louis poteva percepire il suo sguardo a ogni movimento anche senza ricambiarlo.

«Tu non vuoi niente?» gli chiese per spezzare il silenzio e la pressione dei suoi occhi su di sé.

Lui scosse la testa. «Ho bevuto un'intera bottiglietta d'acqua poco fa. Sai, dopo tutta la vodka di ieri sera...»

«Ragazzino» gli rivolse un ghigno di scherno prima di portarsi la tazza alle labbra.

«Oh davvero? Mangi ancora i Coco Pops e sarei io il ragazzino?»

«Sono i cereali migliori al mondo».

«Sì, se hai sei anni».

«Attento a come parli, ti ho già messo ko un paio di volte senza alcuno sforzo. Posso farlo con una mano sola mentre con l'altra continuo a sorseggiare il mio tè».

«Ah sì?» lo sfidò facendoglisi più vicino. Molto più vicino. Una scintilla di divertimento nello sguardo che teneva fisso sui suoi occhi.

Louis stringeva la tazza con entrambe le mani lasciandola sospesa in aria poco sotto il mento, gli occhi pieni delle fossette e delle labbra rosse dello spilungone, piegate in un sorriso e invitanti come la più matura delle pesche. Pensò di lasciarsi soccombere, di cedere all'istinto e rubargli il respiro proprio lì, contro lo sportello del frigo ma una vibrazione improvvisa catturò la loro attenzione.

Il telefono del ricciolino stava vibrando con insistenza sull'isola lì accanto. Il ragazzo lanciò un'occhiata interrogativa a Louis.

«Scusa, mi sono dimenticato di dirti che non ha fatto altro che vibrare nell'ultima mezz'ora. Quando mi sono svegliato ho visto che non c'eri e sono sceso a cercarti ma c'è stata l'emergenza cereali e l'ho appoggiato sul bancone».

In due passi il ricciolino raggiunse il piano e afferrò il cellulare. «Che c'è, Niall?» rispose scocciato prima di dare le spalle a Louis.

«Tra un'ora? Non potevi cercare di dissuaderla?» aggiunse alzando appena la voce.

Sospirò e si passò una mano tra i capelli. «Sì, ok. Sto arrivando».

Quando si rigirò, non vi era più traccia dell'allegro e spudorato ragazzo della sera prima. Di lui non restava che una copia sbiadita con gli occhi stanchi.

«Devo andare» annunciò prima di correre di sopra a recuperare le sue cose.

«È successo qualcosa?» chiese Louis al suo ritorno.

«Niente di grave, solo la mia iper apprensiva madre che decide di farmi un'indesiderata visita a sorpresa».

Dal modo in cui l'aveva detto, non sembrava essere una cosa inaspettata ma Louis ipotizzò che le altre volte fosse stato avvisato con maggiore anticipo.

«Grazie per... tutto» gli regalò un sorriso prima di scivolare oltre la porta d'ingresso. «Ciao, Tocky».

Louis rimase fermo, a guardarlo andar via e solo quando la sua sagoma sparì in fondo al viale, si rese conto di non conoscere nemmeno il suo nome.

*H*

«Tesoro, sei così silenzioso oggi. E quasi non hai toccato cibo. Cosa c'è che non va?»

«Niente, mamma. Sono solo un po' stanco». Mi alzai e cominciai a raccogliere le stoviglie sporche. Mi serviva una valida motivazione per allontanarmi da quel tavolo anche solo di pochi metri.

«Lo trovo dimagrito, Niall. Mi assicuri che mangia regolarmente?» chiese al mio coinquilino come se non la potessi sentire.

«Sì, certo. Cucina anche per me» provò a rassicurarla lui.

«Ma guarda che occhiaie! Hai difficoltà a dormire?» si rivolse di nuovo a me. «Forse puoi chiedere al dottor Peterson di darti qualcosa per prendere sonno».

«No, mamma. Sto solo studiando molto».

«Non sarà che... hai problemi con Ben?»

«Chi è Ben?» chiese Niall, perplesso.

«È solo un mio compagno di università, mamma. Non stiamo insieme» ribadii per l'ennesima volta.

Lo avevamo incrociato per caso diversi mesi prima durante una passeggiata per il centro e lei si era messa in testa che ci fosse qualcosa tra noi solo perché mi aveva salutato in maniera molto calorosa.

«Tu non me la racconti giusta. Quelle non sono occhiaie da studio. Solo perché sono single da anni non significa che non sappia come vanno certe cose...»

Stava davvero facendo allusioni a una presunta nottata di sesso?
Niall quasi sputò l'acqua che stava sorseggiando mentre io desideravo che quel pranzo terminasse il prima possibile.

«Dolce?» provai a indirizzare la conversazione verso terreni più morbidi.

«Non c'è da vergognarsene, tesoro. Sono stata giovane anch'io. L'importante è essere responsabili».

«Mamma» la ripresi.

«D'altronde è sempre stato molto apprezzato, fin dalle scuole medie» confidò a Niall come se stesse spettegolando con una sua amica. «C'era questa sua compagna, Susy...»

«Mamma, ti prego. Ancora con questa storia?»

«Tutte le mattine lo aspettava davanti a casa per fare il tragitto fino a scuola insieme» continuò imperterrita. «Dovevi vedere come lo guardava, con gli occhi sognanti. Lo chiamava Harold o principe H».

Tornai all'angolo cucina per prendere dal frigo la torta al limone che Niall aveva comprato alla pasticceria sotto casa. Non avevo avuto tempo per preparare qualcosa con le mie mani.

«Se ti vedesse adesso con questi capelli mossi... chissà se ti chiamerebbe ancora principe H».

«Ne dubito. Le ho ripetuto allo sfinimento che, oltre a odiare tutti i nomignoli che provava a rifilarmi, tra noi le cose non avrebbero potuto funzionare e quando mi ha sorpreso a pomiciare con suo cugino si è messa il cuore in pace» dissi con freddezza per stroncare il racconto.

«Hai capito il piccolo Harold, proprio un principe» mi prese in giro il mio amico liberando una fragorosa risata.

«Ora possiamo smettere di usare nomi che non siano il mio?» Mi sforzai di restare calmo e relegare il fastidio a un angolo della mente.

«Cos'hai contro i soprannomi?» chiese Niall, innocente.

«Sono inutili. Ci viene dato un nome con cui essere chiamati, perché usarne altri?» Senza volerlo posai la torta sul tavolo con più forza del necessario facendo tintinnare i bicchieri e le bottiglie al centro.

Non potevo continuare a reagire in questo modo ogni volta che si toccava l'argomento. Avevo cominciato a rifiutare ogni tipo di soprannome quando avevo otto anni. Non importava che fossero nomignoli affettuosi con cui mia madre mi aveva sempre chiamato, dopo quel viaggio niente era più stato lo stesso. A partire dal mio improvviso rifiuto verso qualsiasi epiteto con cui le persone si rivolgevano a me che non fosse il mio nome per intero. Persino mia madre non era esente dalle mie sfuriate. Mi sforzavo di non riprenderla ogni singola volta solo perché mi ero accorto di causarle dolore e lei col tempo aveva imparato a rispettare il mio nuovo me fino a riuscire a limitarsi a dei tollerabili 'tesoro'.

Era passato più di un decennio, le cose si erano ormai assestate in una tranquilla normalità ma continuavo a non sopportare che il mio nome venisse abbreviato o storpiato, indipendentemente dalle buone intenzioni del mio interlocutore. Volevo essere Harry, nient'altro.

Sapevo di poter risultare irragionevole, a tratti eccessivo, ma non potevo farne a meno.
«Non ci credo che tu non ne abbia mai avuto uno» continuò il mio coinquilino, incapace di frenare la lingua come ogni volta che qualcosa stuzzicava la sua curiosità.

«Non ne ricordo neanche uno» alzai le spalle senza distogliere l'attenzione dal dolce che aspettava solo di essere tagliato. L'argomento stava assumendo un'importanza che non volevo dargli. «State pronti con i piatti».

«Neanche Haz?» mormorò mia madre sottovoce.

Tre lettere, la prima appena sospirata, leggera come un petalo che ti sfiora la pelle. Due consonanti e una vocale che sembravano capitate lì per caso come le tessere dello Scarabeo. Può il suono di una misera sillaba pronunciata in un sussurro fare così rumore da rendere sordi?
Non sentivo altro che il fischio del silenzio e l'eco di quelle tre lettere che rimbalzava da una parete all'altra del mio cranio come fosse una stanza vuota.

Il profumo della torta che avevo appena portato al tavolo si era dissolto nell'aria rimasta incastrata nei miei polmoni. Al suo posto sentii un'opprimente nota acidula risalire dal fondo della lingua, espandersi fino a ricoprirmi il palato e impastarmi la gola. Afferrai il bordo del tavolo restando con l'altra mano a mezz'aria, stretta attorno al coltello come fosse una spada.

«Cosa?» sussurrai. Mi tremava la voce.

Abbassai lo sguardo su mia madre. Stava avvicinando la pila di piattini da dolce, pronta a passarmene uno per ogni fetta che avrei tagliato. «Ti ho chiesto se hai bisogno di aiuto con la torta». Stava facendo finta di niente.

Niall aspettava con impazienza la sua porzione di dessert, ignaro di quanto fosse appena successo. Per un attimo pensai di essere nel mezzo di un'allucinazione. Ma no, non mi ero immaginato niente.

«Come mi hai chiamato?»

«Non capisco, tesoro» sorrise senza incrociare il mio sguardo. Il tentativo di risultare convincente era così forzato da lasciar pensare che non si fosse impegnata affatto, quasi volesse farsi scoprire di proposito.

«Mamma, ripeti ciò che hai detto» le intimai alzando la voce.

Lei si guardava intorno, alla disperata ricerca di un appiglio o una via di fuga. Prese un respiro profondo, si sedette e si strinse le mani in grembo. «Mi chiedevo solo se magari ci fosse un nomignolo, anche uno solo, che ti ricordassi ancora».

Era un così debole sforzo di sviare il discorso che ne rimasi deluso. Mi conosceva abbastanza da poter prevedere con quanta tenacia, una volta fiutata la sua recita, avrei scavato fino ad arrivare alla verità.

«Come fai a conoscere quel nome?» Il cuore stava per esplodermi, la mano non stretta al bordo del tavolo aveva preso a tremare e cominciava a girarmi la testa.

«Tesoro» cominciò lei in tono affettuoso.

«Niente tesoro» sbattei un pugno sul tavolo facendo sobbalzare lei e Niall. «Basta stronzate, mamma».

Non mi ero mai rivolto a mia madre in quel modo ma mi sembrava di non riconoscere nemmeno lei oltre che me stesso. «Come lo conosci? Non te l'ho mai detto, né a te né a nessun altro».
Sentivo la rabbia scorrere dentro di me e riempirmi come l'elio in un palloncino. Niall mi fu accanto in un attimo e mi sfilò il coltello di mano offrendosi di tagliare la torta al mio posto.

«Harry, che diavolo ti prende?» La sua voce risoluta mi fece distogliere lo sguardo da mia madre e allentare appena la tensione che sentivo attanagliarmi ogni muscolo e farmi mancare l'aria.

«Niente, sto solo cercando di capire come faccia mia madre a essere a conoscenza di un soprannome che conosco solo io».

«Di cosa stai parlando? Hai appena detto di non averne mai avuti».

«Era una cosa tra me e lui» tornai a parlare con lei.

«Lui chi, Harry?» insistette Niall.

«Lui».

Mi lasciai cadere sulla sedia alle mie spalle, incapace di reggermi ancora sulle gambe. «Era una cosa solo nostra» ripetei con un filo di voce.

«Mi dispiace, tesoro».

Mi presi il viso tra le mani sostenendomi alle ginocchia coi gomiti. Nessuno si era mai rivolto a me con quel nomignolo, me l'aveva affibbiato lui il giorno dopo averlo conosciuto e non ne avevo mai fatto parola con anima viva. E se l'unica anima viva rimasta ero io, come poteva quel nome essere uscito da quello scantinato e poi aver raggiunto mia madre?

«Come l'hai saputo?»

«Tramite lui».

«Cosa sign...»

Poi capii. In tutti quegli anni, non mi ero mai permesso di alimentare una speranza simile. Mi ero limitato a fantasticare sulla possibilità che in un universo parallelo fossimo riusciti a scappare insieme e che non ci fossimo più lasciati da allora. Un sogno a occhi aperti che svaniva rapido come scoppia una bolla di sapone esposta al vento.

«È vivo?» chiesi esitante.

Mia madre sospirò e annuì.

Lo schienale della sedia contro cui mi ero abbandonato era l'unica cosa che mi ricordava dove mi trovavo, che mi confermava che non stavo davvero precipitando come invece sentivo. Eppure, mi aspettavo di colpire il fondo da un momento all'altro. Avevo bisogno di sbattere a terra, di interrompere il vuoto che avvertivo stringermisi tutt'attorno fino quasi a soffocarmi.
«Dillo» pronunciai in un rantolo, prosciugato di tutte le energie.

Lei scosse la testa, gli occhi lucidi, ma mi accontentò. «È vivo».

In quell'esatto istante sentii l'impatto con il suolo. Lo schianto. E mi ritrovai distrutto, sbriciolato come un cracker calpestato. «Come è... come?» 

Fissavo mia madre e mi sembrava di vederla per la prima volta attraverso il filtro della delusione e delle lacrime che si stavano preparando a scavarmi le guance.

«L'ho saputo solo alcune settimane dopo il tuo ritorno», confessò sotto lo sguardo attonito di Niall, «l'hanno trovato in stato confusionale che ripeteva—»

«Non dirlo» la bloccai in un tono a metà tra una supplica e un ordine. «Come hai potuto tenermelo nascosto?»

«L'ho fatto per te, per proteggerti».

«Proteggermi da chi mi aveva salvato la vita? Dall'unica cosa che poteva farmi stare meglio?»

«Lui non si ricordava cos'era successo, tesoro. L'hanno collegato a te solo grazie alla tua descrizione». Si allungò sul tavolo e tentò di prendere la mia mano ma la allontanai con un gesto secco, inchiodandola al suo posto con un'occhiata rabbiosa.

«Mi hai detto che era morto!»

«Volevo aiutarti a superare quell'esperienza, farti voltare pagina il prima possibile». Prese un bel respiro e si sistemò meglio sulla sedia. «C'era anche la separazione da tuo padre da affron—».

«Mi hai mentito per quindici anni, mamma» mi alzai di scatto, la sedia si rovesciò all'indietro. «Per tutto questo tempo mi hai lasciato credere che fosse morto per salvare me».

Ce li avevo ancora in testa quei due colpi di pistola che credevo me lo avessero portato via per sempre. Da quel giorno, non ero più riuscito a guardare i fuochi d'artificio senza spaventarmi a morte e, anche ora che ero cresciuto, continuavo a odiarli e a evitarli il più possibile.

«Quante volte mi hai asciugato le lacrime, magari dopo che il ricordo di quei giorni mi aveva tormentato nel sonno fino a farmi svegliare in preda alle urla? Hai passato ore a consolarmi e a ripetermi che sarebbe andato tutto bene sapendo che sarebbe bastato così poco per farmi tornare il sorriso».

«L'ho fatto proprio per questo, per evitare che rimanessi appigliato al passato».

Scossi la testa. Le immagini di quelle notti, di quegli incubi, degli abbracci di mia madre e delle parole che mi sussurrava all'orecchio per calmare le crisi di pianto mi scorrevano a fianco come il paesaggio dal finestrino di un'auto in fuga. Era tutto così veloce e allo stesso tempo vivido. Al familiare dolore di quei momenti di tanti anni prima si era ora aggiunto qualcosa di nuovo. Una nota stonata in una melodia straziante se pur armoniosa. Una macchia rosso scuro nella bianca purezza che avevo sempre associato a mia madre.

«Volevo solo farti tornare alla normalità» riprese lei con cautela.

Sbuffai una mezza risata. «La normalità che tu conoscevi ha smesso di esistere nell'esatto istante in cui mi sono sentito afferrare da due mani sconosciute. E lo hai capito anche tu appena hai incrociato di nuovo i miei occhi che l'Harry che avevi davanti non era lo stesso che avevi stretto tra le braccia fino a dieci giorni prima. Per quanto minima, una parte di me se n'era andata per sempre».

La sentii liberare un singhiozzo, avevo chiuso gli occhi senza rendermene conto.

«Ma se il resto di me è qui adesso è solo merito suo e tu non mi hai neanche permesso di ringraziarlo». Sospirai. «È tornato a vivere a Sheffield? Ricordo che mi aveva detto che suo padre sarebbe stato trasferito presto, era una questione di qualche altro mese».

Lei non rispose. L'espressione colpevole lo fece per lei.

«Ovvio» lasciai andare una risata isterica, «mentre tu mi portavi a spasso per l'Europa neanche fossimo fuggitivi lui è sempre stato qui, a pochi chilometri da casa nostra».

Non poteva essere vero. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo proprio a comprendere come mia madre avesse potuto mentire sapendo cosa lui significasse per me.

«Harry, lui non ha mai chiesto di te, altrimenti mi avrebbero contattata». Si alzò a sua volta e provò ad avvicinarsi ma dovette desistere quando mi vide scuotere la testa.

«Tenendomi lontano dalla verità non mi hai impedito di soffrire. Hai visto tu stessa quanto mi ci è voluto per elaborare la cosa e ora scopro che era tutta una menzogna architettata da te».
Se avessi avuto qualcosa tra le mani, l'avrei scagliata contro il muro.

«Harry, adesso però calmati» intervenne Niall posandomi una mano sul braccio. Era rimasto accanto a me per tutto il tempo e non me ne ero neanche accorto.

Sentivo il respiro in affanno, sembrava non esserci più ossigeno in quella stanza. Senza aggiungere una parola, mi allontanai dalla tavolata e, ignorando i richiami di entrambi, presi giubbotto e chiavi di casa e uscii senza preoccuparmi di chiudere la porta.

Lui era vivo. Si era salvato, ci aveva salvato entrambi come promesso. Era ancora vivo e non riuscivo a godere appieno della notizia più bella che avessi mai ricevuto. La gioia era nata malata, già sporca di delusione e tradimento. Questi se la stavano mangiando tutta, un boccone dopo l'altro e non avevo idea di come ripulirla e farla splendere come avrebbe meritato.

~

Non ricordo come raggiunsi casa sua né perché, qualcuno doveva aver inserito l'auto pilota.

Fu un sollievo trovare un'espressione di allegra incredulità sul suo volto, temevo di risultare invadente e infastidirlo ripresentandomi alla sua porta poche ore dopo essermene andato.
«Lumière, che sorpresa».

I segni del cuscino sulla guancia erano scomparsi ma aveva i capelli arruffati come appena sveglio ed era bellissimo.

Dovette accorgersi che qualcosa era diverso in me, il sorrisino e il tono compiaciuti lasciarono il posto a qualcosa di più serio. «Cos'è successo?»

«Vorrei tanto una sigaretta» dissi prima di sedermi a terra, su uno dei gradini.

Lo sentii rientrare in casa. Tornò poco dopo, mi si sedette accanto e senza dire nulla mi porse un pacco di sigarette e un accendino. Lasciò che l'accendessi, ne prendessi un tiro e tossissi a lungo per poi lamentarmi di quanto facesse schifo.

Era evidente che non fumavo ma non commentò. Si accese una sigaretta per sé e mi lasciò ai miei pensieri.

Pensavo a un milione di cose e a niente. A tutte le occasioni in cui mia madre avrebbe potuto dirmi la verità e a come le cose avrebbero potuto essere diverse, a tutte quelle in cui mi aveva invece guardato negli occhi e aveva scelto di tacere; a come saperlo vivo quando avevo ancora otto anni mi avrebbe fatto sentire meno solo, meno indifeso, meno sopravvissuto; a come scoprirlo con quindici anni di ritardo non migliorava niente perché lui non mi avrebbe comunque riconosciuto e anzi, se mi fossi presentato alla sua porta a distanza di tutto quel tempo, avrebbe pensato che volessi ottenere qualcosa. E come avrei potuto sopportare il suo volto corrucciato nel non ricordarsi di me o di quello che avevamo passato?

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