7.

*H*

Ho sempre pensato di essere un buon osservatore. In parte a causa della mia innata curiosità verso tutto ciò che mi circonda, in parte perché per diventare un buon psicoterapeuta è richiesta una particolare attenzione a ogni minimo segnale lanciato da chi si ha di fronte, soprattutto ai gesti inconsapevoli.

Lo sconosciuto era rimasto a occhi chiusi, in silenzio per qualche minuto, le spalle contratte e le gambe contro il petto come a fargli da scudo. Il respiro era diventato più profondo, mi sembrava di percepire il dolore uscire dai suoi polmoni insieme all'aria. Dovevo dargli qualcos'altro su cui concentrarsi.

«Fammi vedere qualche mossa» proposi scattando in piedi.

«Scherzi?» lui spalancò gli occhi, sorpreso.

«Volevo chiedertelo appena hai menzionato di essere un istruttore ma non era il momento adatto».

«Adesso lo è?»

«Sì, è perfetto».

Sollevò un sopracciglio, scettico.

«Cos'è quella faccia Tocky? Hai paura di fare brutta figura?» Se c'era una cosa che avevo capito di quel ragazzo era che l'orgoglio era il modo migliore per farlo reagire.

«Ok, come vuoi». Si alzò in piedi e, dopo aver acceso la luce, si posizionò nello spazio tra la finestra e il letto invitandomi a raggiungerlo. Mi avvicinai di qualche passo.

«Tranquillo, non ti farò male» lo sfidai.

Lui non rispose alla provocazione se non con un'espressione divertita sul volto. Poi cancellò lo spazio che ci divideva fino a che non fummo petto contro petto. Mi mise una mano sulla spalla e con una sola mossa della gamba, mi fece cadere a terra.

Non rimasi sorpreso né particolarmente scosso dall'accaduto. Mi rialzai e senza dire una parola lo fronteggiai di nuovo. Non avevo di certo perso la mia determinazione.

Lo afferrai per le braccia nel tentativo di immobilizzarlo ma lui fece forza sugli avambracci e scivolò via in un gesto fluido. Non gli diedi il tempo di preparare qualche altra mossa, gli presi il polso e dopo averlo fatto ruotare su se stesso, gli circondai la vita con entrambe le braccia premendomelo contro. Sentii i suoi addominali contrarsi, il profumo dei suoi capelli riempirmi le narici. Mi distrassi giusto una frazione di secondo, a lui sufficiente per liberarsi dalla mia presa e premere su una delle gambe per farmi cadere di nuovo. Questa volta, però, fui abbastanza rapido da aggrapparmi al suo collo e così trascinarlo con me.

Ci ritrovammo a terra, io steso di schiena, lui con l'intero corpo sopra di me. Scoppiai subito a ridere nonostante la botta al sedere, lui invece mi guardò come se gli avessi fatto un affronto imperdonabile.

«Nei hai abbastanza?» mi chiese soddisfatto.

«Mmm... sto ancora decidendo».

Alzai la testa dal pavimento, strinsi la presa sui suoi fianchi e avvicinai il viso al suo spostando lo sguardo dai suoi occhi alla sua bocca. Aveva le labbra schiuse come in procinto di dire qualcosa ma per qualche motivo le parole sembravano non voler uscire; gli occhi ricambiavano le mie attenzioni, li sentivo incidermi la pelle e poi accarezzarla per lenirla. No, non gli ero indifferente. Era innegabile e reciproco. Mi sarebbe bastato così poco per chiudere la distanza e baciarlo e lui avrebbe risposto al bacio, ne ero certo. Ma l'alcol cominciava ad annebbiarmi la mente e volevo essere completamente lucido per il nostro primo bacio, volevo godermi appieno ogni attimo e non rischiare di avere vuoti di memoria la mattina dopo.

Sfruttando il suo momento di debolezza feci leva sulla gamba destra e capovolsi le posizioni. Portai le braccia ai lati della sua testa puntellandomi sui gomiti per non pesargli troppo. Per quanto potesse essere allenato allo sforzo fisico, ero più alto e di sicuro più pesante.

«Ripensandoci, non è poi così male finire a terra, non trovi?»

«Tu giochi sporco» obiettò, il respiro accelerato.

«Devo compensare la mia mancanza di tecnica con quello che ho a disposizione» ammisi a pochi centimetri dalla sua bocca, i miei capelli che gli sfioravano il mento. Accompagnai le parole a un lento movimento di bacino e lui, con gli occhi sempre incollati ai miei, si lasciò sfuggire un gemito.

Non so come, mi scostai da quel corpo tonico che mi urlava di toccarlo e con qualche passo incerto ritrovai l'equilibrio prima di allungare una mano per aiutarlo a rialzarsi. Lui la prese senza obiezioni ma un istante dopo mi ritrovai ancora una volta steso a terra, lui seduto sul mio bacino con un ghigno vittorioso dipinto in faccia. «Sì, non è così male quando sono io a stare sopra».

Ridacchiai e presi a muovere le mani su e giù sulle sue cosce tese. «Ah è così che ti piace? Devi avere sempre il controllo».

Tenendomi per i suoi fianchi, mi tirai su a sedere e gli avvolsi la vita con entrambe le braccia sistemandolo meglio sopra di me.

«Non lo trovi mai sfiancante? Dover pensare sempre a tutto» gli soffiai all'orecchio. «Non sarebbe bello qualche volta lasciare che qualcun altro si occupi di te e concentrarti solo su ciò che ricevi?»

*L*

Louis era certo che non si stessero più riferendo alle arti marziali né a nessun altro sport e non sapeva come ribattere. Non era abituato a fare allusioni esplicite al sesso, era un argomento che evitava con grande attenzione.

Prima che potesse trovare una risposta all'altezza della situazione, lo spilungone, rafforzando la stretta nella parte bassa della sua schiena, puntò i piedi sul parquet chiaro e, con un braccio piantato nella parte finale del letto, si diede la spinta per alzarsi in piedi senza lasciare la presa su Louis.

«Cazzo» imprecò Louis mentre si stringeva più forte attorno al corpo del ricciolino cingendogli il busto con le gambe e il collo con le braccia. L'equilibrio non sembrava essere il suo forte ma la capacità di tenerlo in braccio non gli mancava e la sua intraprendenza era sempre più difficile da ignorare.

Le mani che lo toccavano senza approfittarne, i muscoli delle braccia in tensione per non lasciarlo cadere, gli occhi che lo scrutavano quasi con devozione, come a voler conoscere ogni suo angolo più nascosto. Louis non riusciva a vedere altro che dettagli di quel ragazzo bellissimo, non sentiva altro che lui sotto la sua stessa pelle.

Lo baciò. Con entrambe le mani sulle sue guance, si sporse e premette le labbra contro quelle dello spilungone. Durò troppo poco per rendersi davvero conto di cosa stesse facendo: l'impeto del gesto fece sbilanciare il ricciolino che, nel tentativo di rimanere in piedi e non perdere la presa al corpo di Louis, si spostò all'indietro e inciampò sui suoi stessi stivaletti ai piedi del letto. Caddero entrambi, per fortuna sul materasso, e si lasciarono andare alle risate.

«Propongo un brindisi» esordì Louis quando ebbe ripreso fiato. Si divincolò dal corpo dell'altro e si affrettò a raggiungere la finestra per recuperare la bottiglia di vodka già dimezzata. «Alla tua naturale e assolutamente irrecuperabile goffaggine» sorrise andando a sistemarsi accanto allo spilungone sul letto.

«Vorrai dire irresistibile» replicò l'altro scivolando verso la testata per appoggiarvi la schiena. Sfilò poi la bottiglia dalla mano di Louis, se la portò alle labbra prendendone un lungo sorso e la porse di nuovo al suo proprietario. Louis bevve a sua volta prima di scoppiare a ridere ancora.

«Siamo decisamente ubriachi» disse il ricciolino unendosi alle risate.

«Parla per te, ragazzino» lo rimbeccò con un leggero colpo allo stomaco. Nessuna traccia di imbarazzo nonostante il bacio interrotto.

«Devi sempre avere l'ultima parola, non è vero?»

«Sempre» confermò Louis continuando a sorridergli. Gli sembrava di non riuscire più a smettere.

Lo spilungone si fece all'improvviso serio: «Spegni la luce, voglio vederti».

«Non puoi vedermi senza luce».

«Quella al buio è la versione di te più vera che tu mi abbia mostrato finora». Senza attendere risposta allungò il braccio alla sua destra fino a raggiungere l'interruttore accanto alla testata e spense la luce. Scivolò fino a poggiare la schiena sul materasso e si voltò verso Louis che lo fissava pietrificato. 

Nonostante i suoi non si fossero abituati del tutto all'oscurità, Louis poté vedere gli occhi del ragazzo al suo fianco osservarlo con attenzione come per registrare ogni spigolo e curva del suo volto.

«Ti si distende il viso quando pensi di non essere visibile e ti si illuminano gli occhi quasi fossero in grado di catturare la luce del sole di giorno e la rilasciassero di notte. Sorridi senza il minimo timore, certo che nessuno lo noti davvero perché tanto hai la tua supponenza a farti da scudo e chi mai potrebbe riuscire ad andare oltre quando il tuo intento è tenere tutti alla larga? E invece, per quanto ti impegni a nasconderti, io non vedo altro che te e la tua assurda bellezza».

Senza parole. Lui, che per tutta la vita aveva fatto delle parole la sua migliore arma d'attacco e di difesa, si ritrovava ora incapace di emettere un solo suono, sconvolto. Era come se la sua coscienza avesse preso le sembianze di quella meraviglia dagli occhi verdi per vomitargli addosso tutto quello che aveva finto di non vedere per anni.

Provò a schiudere le labbra nella speranza che le parole prendessero a fuoriuscire da sole nonostante la sua mente fosse ancora in blackout.

«Ora però non sminuire ciò che ho detto con il tuo sarcasmo sprezzante, ti prego» aggiunse lo spilungone.

Alla vista della sua espressione ferita, Louis provò il bisogno di toccarlo, di stringerlo a sé e rassicurarlo. Scosse la testa con veemenza. «Non stavo per farlo. Sono a corto di parole, in realtà». Distolse lo sguardo dai suoi occhi ora più sollevati e prese a giocherellare con una sua ciocca ondulata. Doveva soddisfare in qualche modo l'urgenza di posare le mani su di lui.

«Allora non dire niente» sussurrò a occhi chiusi, beandosi delle dita di Louis che si muovevano morbide sui suoi capelli.

«Come ci riesci? A vedermi, intendo. La maggior parte delle volte non mi riconosco nemmeno io». La totale sincerità delle sue parole sembrò colpire più Louis che il ragazzo accanto a lui.

«Posso non sapere nulla della tua vita ma so chi sei. Lo so e basta».

Louis sentì un'irrefrenabile voglia di sorridere fino a lacerarsi le guance e tentò di contenerla attaccandosi ancora una volta alla bottiglia di vodka. «Non sai le cose importanti però».

«Quali?»

«Colore, film e cibo preferiti».

Ridacchiarono entrambi.

«Hai ragione. Che imperdonabile mancanza da parte mia».

«Puoi recuperare».

~

Erano chiusi dentro quelle quattro mura da almeno tre giorni. Louis non ne era sicuro perché la piccolissima finestra alle sue spalle era perennemente oscurata da uno spesso telo nero, l'unica fonte di luce una vecchia lampadina che penzolava dal soffitto al centro della stanza. Emanava una luce gialla talmente flebile e tremolante che era convinto si sarebbero ritrovati al buio molto presto.

Louis cercava di tenere il conto dello scorrere del tempo in base ai pasti che venivano concessi a lui e al suo compagno di stanza. Era così che gli piaceva chiamarlo. Immaginare di essere in una specie di campo estivo, anziché imprigionato in uno scantinato, gli dava la forza di non arrendersi alla disperazione. Non poteva permetterselo soprattutto per lui, per quel giovane amico verso cui aveva provato un innato senso di protezione fin dal primo istante in cui aveva incrociato i suoi occhi terrorizzati. Gli aveva subito asciugato le lacrime e l'aveva stretto in un abbraccio sussurrandogli di stare tranquillo perché non era solo e c'era lui lì.

Qualche ora dopo il suo arrivo era anche riuscito a farlo sorridere raccontandogli qualcosa di stupido e il giorno successivo aveva preso a riempirlo di domande, per lo più per tenere le menti di entrambi occupate e non pensare troppo a dove fossero finiti e per quale motivo. 

Dopo una prima notte passata a stringersi da soli agli angoli opposti della stanza piangendo in silenzio e sobbalzando a ogni minimo rumore, fu per loro spontaneo avvicinare i polverosi materassi che avevano a disposizione per dormire e nutrirsi del reciproco contatto, l'unica cosa che riusciva a riscaldarli nonostante fosse piena estate. Il loro non era mai un sonno tranquillo ma quando uno dei due di svegliava di soprassalto, trovare l'altro al proprio fianco era in qualche modo confortante.

Quella notte Louis non riusciva a chiudere occhio. Per quanto la presenza del suo compagno di prigionia diventato ormai un amico allietasse le sue giornate, gli mancavano sua madre, il suo patrigno e sua sorella, gli amici con cui giocava a calcio nel campetto vicino a casa, persino la scuola. Sapeva che con molta probabilità non li avrebbe più rivisti e il pensiero di non aver nemmeno salutato la sua famiglia lo uccideva.

In passato gli era capitato di fantasticare per gioco su cosa sarebbe successo se fosse sparito nel nulla, di immaginare chi avrebbe pianto la sua scomparsa, come sarebbe stato ricordato da chi l'aveva conosciuto ma di certo non pensava sarebbe successo davvero e per di più in un paese in cui non parlavano nemmeno la sua lingua. Se lo avessero ritrovato morto da qualche parte non avrebbero nemmeno capito chi fosse perché non aveva documenti con sé.

Era stata una fortuna che il suo nuovo amico fosse inglese come lui, almeno non avevano barriere linguistiche da superare.

Il corpo accanto al suo prese a tremare sempre più forte. Quelli che all'inizio suonavano come sbuffi si trasformarono presto in gemiti e poi in vere e proprie urla.

Louis si affrettò ad asciugarsi le lacrime che si era concesso di piangere ripensando a sua madre per poi scuotere con dolcezza il suo amico e interrompere l'ennesimo incubo che visitava il suo sonno.

«Lou?» domandò questo, gli occhi sgranati che correvano sul suo profilo come ad assicurarsi che fosse proprio lui.

«Sono qui».

«Lou» piagnucolò con voce impastata, «ho paura».

«Non devi averne, ci penso io a te. Vieni qui» lo invitò ad accomodarsi tra le sue braccia aperte. Poteva fingere che lo facesse solo per tranquillizzare lui ma in realtà a Louis piaceva stringerselo addosso, lo faceva sentire meno solo e un po' più a casa.

«Voglio tornare a casa, Boo» biascicò qualche minuto dopo contro la sua spalla, al limite tra la veglia e l'incoscienza del sonno.

Boo. Era la prima volta che Louis si sentiva chiamare così da qualcuno. Era certo fosse solo il risultato di una storpiatura dovuta al sonno ma gli piacque sentire quel suono prodotto dalla sua voce.

Prese ad accarezzargli la testa, un gesto che aveva notato riuscisse a calmarlo, mentre lui si rannicchiava maggiormente contro il suo corpo.

«Mi piace quando mi accarezzi, Boo» mugolò ancora il suo piccolo amico prima di lasciarsi sopraffare dal bisogno di dormire. Louis sorrise e sperò che lo chiamasse così un'altra volta.

«Boo».

Louis aprì gli occhi di scatto, l'eco di quel nomignolo che gli risuonava ancora nelle orecchie, tanto che gli sembrò fosse stato pronunciato all'infuori della sua mente. Non lo sognava in maniera così nitida da anni, lui era un pensiero ormai occasionale, di certo impossibile da dimenticare ma comunque sbiadito come un ricordo lontano.

Il dolore che sentì al petto in quel momento, invece era intenso, lo stesso di quando aveva capito di averlo perso per sempre.

Scandagliò l'ambiente circostante come faceva ogni volta che sentiva i suoi sensi in allerta e si preparava a scappare. Il rumore della pioggia che batteva contro il vetro della finestra e le familiari ombre della sua stanza riuscirono a tranquillizzarlo e solo allora si ricordò dello spilungone steso al suo fianco.

Avevano parlato, riso e bevuto fino ad addormentarsi. Soprattutto si erano guardati di nascosto con curiosità e ammirazione, o almeno questa era l'idea di Louis. Quando l'altro si distraeva, Louis si metteva a osservarlo, sicuro di non essere scoperto, e falliva ogni volta.

Quello era il momento perfetto per guardarlo senza essere colto in flagrante. Era steso su un fianco, un braccio abbandonato sul materasso, l'altro nascosto sotto il cuscino. Aveva le labbra schiuse e l'espressione corrucciata, continuava a muoversi e a stringere il lenzuolo con la mano.
Fuori stava imperversando un temporale.

Louis si era dimenticato di tirare le tende e odiava essere svegliato dalla luce, che fosse del sole o dei lampi la trovava ugualmente fastidiosa. Si alzò e con un unico gesto fece tornare la quasi totale oscurità. Quando si rimise a letto, un tuono ruppe il silenzio facendolo sobbalzare.

Il ricciolino, che non aveva smesso di agitarsi, gridò un debole no e aprì gli occhi, il respiro accelerato.

«Tutto ok?» gli chiese Louis, preoccupato.

Il ragazzo sospirò e si passò una mano sul viso prima di voltarsi verso di lui. «Sì, scusa se ti ho svegliato».

«Non mi hai svegliato» lo rassicurò. «Brutto sogno?»

«Già» disse solo.

Louis poté riconoscere un velo di tristezza nella voce e ne ebbe la conferma quando riuscì a incrociare i suoi occhi. Sembrava così diverso dal ragazzo che gli aveva tenuto compagnia per tutta la sera, come svuotato di tutta la sua vivacità.

Richiuse subito gli occhi e rotolò sul fianco dandogli le spalle. Per la prima volta era lui a mettere distanza tra loro.

Molti minuti più tardi, lo spilungone non si era ancora addormentato e l'agitazione che emanava nonostante la sua immobilità non aiutava Louis a tranquillizzarsi. D'improvviso lo sentiva lontanissimo e questo non poteva accettarlo. Anche quel ragazzo aveva un'anima tormentata, forse era per quello che lo capiva come nessun altro. Forse entrambi si portavano appresso un dolore che li univa nonostante non conoscessero nulla del passato dell'altro.

Louis non riuscì più a trattenersi e lasciò che il suo corpo si muovesse di sua spontanea volontà. Circondò la vita del ricciolino e se lo strinse addosso, poi affondò il naso nei suoi capelli e si lasciò inebriare dal loro profumo. Sentì l'altro rilasciare un sospiro e rilassarsi quasi all'instante mentre Louis venne scosso da un profondo senso di leggerezza, come se fino a quel momento avesse indossato delle enormi catene e fosse riuscito finalmente a liberarsene. Era una sensazione nuova ma bellissima.

Quando pensò che l'altro si fosse addormentato, Louis si concesse un'ultima libertà. Prese ad accarezzarlo con lentezza e dedizione. Non voleva svegliarlo né essere scoperto perché un po' si vergognava di quella voglia divenuta irrefrenabile di toccargli i capelli. Chiuse gli occhi e si concentrò su quei riccioli seducenti che scorrevano tra le sue dita, saggiandone la morbidezza e lasciandosi cullare a sua volta dal movimento regolare della sua mano. Presto la sentì appesantirsi e rallentare la sua corsa, ormai priva di qualcuno che la guidasse con lucidità, fino ad arrendersi al torpore.

«Mi sono mancate le tue carezze, Boo». Gli parve di sognare di nuovo la voce del suo piccolo amico.

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