22.
*L*
Uno squillo.
Si stava ancora maledicendo per aver accettato la proposta di Liam. Il viaggio era stato lunghissimo e non gli aveva perdonato di averlo mollato su un altro aereo da solo.
Due squilli.
Lo faceva solo perché era tutto spesato. Come avrebbe potuto rifiutare una settimana in un luxury hotel malesiano appena costruito e non ancora aperto al pubblico?
Tre squilli.
Chissà che tipo di affare aveva concluso il padre di Liam perché il suo cliente gli offrisse una vacanza del genere in segno di gratitudine.
Quattro squilli.
Dove diavolo era finito Liam?
«Ehi, Lou» rispose al quinto squillo. «Sei arrivato?»
«Era ora! Perché hai la voce roca come se ti fossi appena alzato?»
«Scusa se sono un po' strapazzato dalle quasi venti ore di viaggio più le quattro che ho passato qui in aeroporto ad attenderti. Vedo che tu sei pimpante come al solito».
Louis sbuffò avvicinandosi al nastro trasportatore che aveva preso a girare. «Il viaggio è stato infernale».
«Per chi ti sedeva accanto di sicuro».
«Tu e il tuo sarcasmo sai dove potete andare? Non so perché sto ancora qui a parlare con te dopo il modo in cui mi hai scaricato».
«Hai solo dovuto prendere un aereo diverso dal mio, non farla lunga. Ma se proprio non vuoi più avere a che fare con me, posso proseguire da solo. Il cliente di mio padre sarà più che contento di prendersi cura solo di me».
Louis ingoiò la lunga lista di lamentele che aveva accumulato durante il volo, gliel'avrebbe rinfacciata dopo aver fatto il check-in in albergo. «Sto per ritirare il mio bagaglio quindi muovi il culo e aspettami nella zona arrivi».
«Sono già qui, seduto sulla mia valigia con un enorme cartello con scritto: Mr Tomlinson. È abbastanza o vuoi anche il tappeto rosso?»
«Tappeto rosso ma niente fotografi» concluse la chiamata scuotendo la testa divertito. Era da un bel po' che lui e Liam non si rimbeccavano in quel modo.
Forse quel viaggio capitava al momento giusto. Gli sarebbe servito per allentare la tensione che aveva accumulato nelle ultime settimane, costretto a barcamenarsi tra il lavoro e la sistemazione di scuola e appartamento.
Non che gli pesasse. Al contrario, era grato di non avere tempo di fermarsi a pensare a Harry e al silenzio radio iniziato subito dopo il loro ultimo incontro.
Infilò il cellulare in tasca, recuperò il suo trolley blu e, superati gli ultimi controlli, si diresse verso l'uscita. Percorse un lungo corridoio dalla moquette a strisce ondulate verdi, viola e arancio, poi un altro piastrellato in bianco e marrone; superò bar, negozi e banchi per ogni genere di servizio e finalmente raggiunse la zona antistante le vetrate dell'uscita. Era piuttosto affollata ma non gli fu difficile individuare il ragazzo seduto su una valigia con in mano un foglio che riportava il suo nome.
«Credevo avessimo preso accordi per un tappeto rosso» esordì avvicinandosi all'amico con il volto ancora coperto dal cartello.
«Un bambino ci ha rovesciato del gelato poco fa e l'ho dovuto togliere. Ma sono riuscito a farti avere un'auto da vera star» rispose l'altro alzandosi in piedi.
No, quella non era la voce di Liam. E nemmeno la bocca, gli occhi o i capelli.
«Harry?» gli ci volle un attimo per realizzare. «Che ci fai qui? Dov'è Liam?»
«Non c'è».
«Ma è lui il lasciapassare per... Aspetta, non c'è nessun resort e nessun cliente facoltoso, vero?»
Harry ridacchiò e Louis si stupì di non averlo ancora stretto tra le braccia. Non desiderava altro dal giorno in cui se l'era ritrovato nel suo appartamento.
«Non credevo che avresti abboccato a una storia del genere» lo rimbeccò infilandosi le mani nelle tasche degli strettissimi jeans scoloriti.
«Era molto ben studiata» cercò di difendersi Louis. «Inoltre, Liam ha un'ottima dote commerciale, riesce a venderti quello che vuole. Per questo suo padre se lo tiene stretto. Stai aspettando da molto?»
«Un po'» ammise. «Meglio andare, abbiamo un po' di strada da fare».
Louis non si oppose e non fece domande. Voleva godersi ogni attimo che Harry gli avrebbe concesso.
Lo seguì nell'area parcheggio e salì sull'auto che aveva noleggiato. I ruoli e i confini tra loro erano ancora indefiniti, ma sentiva di dover lasciare che le cose accadessero seguendo il loro schema. Senza forzature. Per lui era già fantastico averlo di nuovo a pochi centimetri.
*H*
«Harry» mi sentii chiamare. Mi accorsi subito del velo di apprensione nel suo tono di voce, così mi affrettai a tornare indietro.
«Sono qui».
Il sollievo che lessi nel suo sguardo quando mi vide mi causò una fitta di dolore al petto. «Stai bene?»
«Dove siamo?» chiese con il respiro accelerato.
Doveva aver riconosciuto il paesaggio. Tutto quel verde e la fitta vegetazione non si trovavano nelle campagne inglesi.
«Siamo nella provincia di Phatthalung, in Thailandia».
Attesi che metabolizzasse l'informazione prima di continuare. «Dall'aeroporto di Penang ho guidato verso nord e superato il confine malesiano mentre dormivi».
«È qui che...?» deglutì a fatica.
«Non sono riuscito a recuperare la posizione esatta ma dovrebbe essere da qualche parte nel cuore della foresta». Tenni d'occhio ogni sua minima reazione con la speranza di non aver oltrepassato un limite per lui invalicabile. «E pensare che da bambino l'ho sempre descritto come bosco» sorrisi al pensiero di come la mia percezione di spazio fosse così ridotta.
Louis era rigido come il tronco degli alberi che ci circondavano. «Perché siamo qui?»
Mi avvicinai con cautela. «Abbiamo sempre associato i ricordi di questo posto a qualcosa di doloroso ma se riesci ad andare oltre ciò che è stato ti accorgerai che è bellissimo. Possiamo sostituire i vecchi ricordi con dei nuovi».
Gli offrii la mano ma rimase immobile, la guerra che stava combattendo contro se stesso ben visibile dai suoi occhi agitati.
«Non torneremo lì» lo rassicurai. «Voglio che ci godiamo il paesaggio, senza fretta né paura. Ci siamo persi qui, ma qui possiamo anche ritrovarci e proseguire insieme questa volta».
Era necessario che riportasse a galla il bambino pieno di ferite e senso di colpa, che gli permettesse di riunirsi al suo piccolo amico spaventato e lasciasse andare una volta per tutte il passato.
«Haz» pronunciò ansimando con lo sguardo fisso alla mia mano. Era una richiesta d'aiuto e un ancora di salvezza allo stesso tempo.
Negli ultimi quindici anni avevo rifiutato e stroncato sul nascere ogni soprannome o nomignolo che mi era stato rivolto. L'ultimo ad aver avuto quel privilegio era stato Louis, non poteva essere di nessun altro. Non avevo voluto rischiare che qualcuno pronunciasse quel nome al suo posto. Solo lui avrebbe potuto ridarmelo, per tutti gli altri c'era solo Harry. In quel momento, con quella specie di rantolo, me lo stava restituendo, con l'urgenza di chi mette la sua vita nelle tue mani, nel luogo dove tutto era iniziato.
«Ti fidi di me, Boo?» mi avvicinai di un altro passo.
Mi prese la mano. Lo attirai a me e gli accarezzai il viso finché non vidi la tempesta nei suoi occhi placarsi. Eravamo a casa. Dopo tanto vagare, eravamo arrivati a destinazione.
«Sono qui, Boo. Non me ne vado».
Lo baciai, prima con timore, come quando assaggi una pietanza per la prima volta e aspetti di capire se ti piace o no, poi con trasporto, affinché sentisse la mia presenza lì dove credeva di avermi perso per sempre.
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