19.
*L*
«Pronto, Lou?»
«Dove sei?» domandò con gli occhi ancora chiusi e la voce appena comprensibile.
«A prendere i tuoi muffin preferiti, sono appena uscito dal negozio».
«Sei arrivato fin là?» Louis sbadigliò. Spesso dimenticava quanto Harry riuscisse a svegliarsi presto e quanto fosse attivo la mattina. «Perché non mi hai svegliato? Saremmo potuti andare insieme».
«Devo andare a casa, lo sai. Ho una relazione da consegnare entro oggi alle cinque».
«Non posso averti tutto per me neanche nel weekend, devo forse diventare tuo paziente per riuscire a vederti?» batté un piede sul materasso sbuffando.
Louis amava fare il melodrammatico – Harry gli ripeteva che avrebbe dovuto fare l'attore perché era un perfetto connubio di sfacciataggine e arroganza nascoste sotto un volto innocente – e non avrebbe certo smesso in quel momento.
Harry rise. «Tornerò per l'ora di cena e resterò fino a lunedì come promesso».
«Falla qui la tua relazione, puoi usare il computer di Liam». Non gli importava di apparire disperato, voleva Harry lì con lui, sempre.
«Ho tutti gli appunti salvati nel mio e mi servono dei vestiti puliti. E prima che tu lo dica: no, non posso continuare a usare i tuoi perché mi stanno piccoli».
«Beh, allora dovresti portare il tuo guardaroba da giraffa e il resto delle tue cose qui» brontolò fissando il soffitto.
«Vuoi sfruttare il mio odio verso il casino per avere la tua camera sempre in ordine?»
Stava scherzando, l'ironia era il loro principale canale di comunicazione, eppure Louis non riusciva a dargli corda. Non quella volta. «L'unica cosa che vorrei sfruttare è ogni attimo libero della giornata per stare con te».
«Lou, che stai dicendo?»
Harry doveva aver notato la serietà nella sua voce perché aveva smesso di ridacchiare.
«Dico che dovresti spostare la metà dell'appartamento che ti appartiene qui».
Ok, era andata. L'aveva detto davvero. Quasi con rabbia, come una cosa che doveva essere fatta molto prima, ma l'aveva pronunciato ad alta voce.
«Aspetta... Merda, mi scusi» lo sentì dire a qualcuno. «Lou, mi stai chiedendo di venire a vivere con te?»
Louis non sapeva come interpretare il tono di Harry. Sembrava scosso, incredulo. Non capiva se lo shock fosse da non me lo aspettavo ma sono felice o da sei pazzo se pensi che accetti.
«Tecnicamente con me e Liam ma, ecco... sì».
L'unica risposta che udì, però, fu un rumore forte e poi un tonfo, seguito da grida e voci concitate. Riuscì a distinguere una manciata di parole in mezzo a tutto il trambusto e alla sua voce che richiamava Harry: «Chiamate un'ambulanza!»
~
Senza sapere se indossasse dei pantaloni o fosse rimasto in boxer, ripercorse a ritroso il tragitto da casa sua alla pasticceria in cui aveva portato Harry qualche settimana prima solo per fargli assaggiare i suoi dolcetti preferiti. Ma la velocità con cui si era precipitato in strada non era stata sufficiente. Sul luogo in cui Louis credeva si fosse interrotta la telefonata, a pochi passi dalla pasticceria, si trovava radunato un piccolo gruppo di persone ma tutto quello che restava di Harry erano delle tracce di sangue sull'asfalto e il sacchetto mezzo schiacciato contenente i maledetti muffin sul ciglio del marciapiede.
Louis si piegò sulle ginocchia per riprendere fiato, l'eco dei suoi infiniti: «Ti prego, no. Harry no» che avevano scandito la sua folle corsa, ancora si susseguiva nella sua testa.
Solo quando il suo respiro si regolarizzò, poté sentire i commenti di chi sembrava aver assistito all'incidente.
«Lo stanno portando al St. Mary» disse uno di questi.
«Povero ragazzo» pronunciò un altro.
«È bastata una piccola distrazione e... questi giovani di oggi, sempre attaccati ai cellulari» concluse un vecchietto coi baffi.
~
La parte difficile era aspettare. Fare su e giù per il corridoio antistante la sala d'aspetto buttando un occhio all'orologio sopra la sua testa e sperare che Anne si materializzasse oltre le porte dell'ascensore prima che gli venisse una crisi isterica.
Lei era l'unica a poter avere notizie sul reale stato di salute di Harry, Louis era riuscito solo a farsi dire che lo stavano operando – ma operando a cosa? – e lei ci avrebbe messo almeno un'altra ora per raggiungere l'ospedale.
Ricevere la sua telefonata dopo che l'avevano contattata i soccorritori e tentare di restare lucido abbastanza da spiegarle cos'era successo sarebbe rimasto nella top five dei momenti peggiori della sua vita. Ancora una volta Harry era in pericolo e lui era coinvolto. Ancora una volta era causa di dolore per lui e la sua famiglia. A quanto pareva, qualunque cosa facesse il risultato restava sempre lo stesso.
Quando Niall lo trovò raggomitolato su se stesso sul pavimento, Anne non era ancora arrivata. Louis non gli chiese chi l'avesse avvertito e Niall non lo riempì di domande come lui si aspettava. Gli offrì una mano per alzarsi, gli mise una banconota nella tasca della felpa e gli ordinò di andare a prendere qualcosa da bere per entrambi: «Louis, un caffè per me, per te quello che vuoi. Scendi una rampa di scale e poi a destra fino in fondo al corridoio, ok?»
Louis fu sul punto di mandarlo al diavolo ma qualcosa nella voce e nello sguardo di Niall lo bloccò. Era come un linguaggio in codice, un messaggio da decifrare.
Non indugiò oltre né si fermò a pensare che c'era un distributore di bevande a pochi metri da loro, eseguì e basta. I pensieri focalizzati su una singola azione alla volta: scale, corridoio, caffè. E poi a ritroso: corridoio, scale.
Avvicinandosi alla sala d'aspetto, riconobbe la voce irritata di Anne: «Non ha già fatto abbastanza? Vuole anche vederlo?»
Louis sussultò, rischiando di rovesciarsi addosso i bicchieri che teneva tra le mani.
Anne aveva ragione, Louis era uno sciocco. Come poteva entrare in quella stanza e restarsene lì in attesa come se facesse davvero parte della famiglia di Harry? Quante volte doveva ancora fargli del male prima di imparare la lezione?
Arretrò di un passo, pronto a rispettare la volontà di Anne e andarsene, ma un'infermiera uscì dalla sala e lei lo vide.
«Oh, Louis. Eccoti» gli corse incontro e lo strinse in un abbraccio che lo spiazzò. Anne era così educata non solo da non cacciarlo, ma anche da trattarlo con estrema gentilezza nonostante tutto.
«Ho parlato con i medici» riprese a parlare. «L'operazione è andata bene, Harry aveva una brutta frattura alla gamba ma sono riusciti a sistemarla con una placca in titanio. Hanno riscontrato anche un lieve trauma cranico ma la TAC non ha rilevato emorragie quindi si riprenderà in fretta».
Louis riuscì solo a fare un cenno col capo e allungare uno dei due caffè a Niall mentre sollievo e disagio gli annebbiavano la vista. Ora che sapeva Harry fuori pericolo, perché era ancora lì? Gli era stato concesso di trattenersi fin troppo.
«Lo stanno portando in camera ora. Andiamo».
Quando la sua mente registrò le parole di Anne, lei gli aveva già afferrato la mano e lo aveva guidato dall'altro lato del corridoio. Gli parve quasi di fluttuare, come se Anne l'avesse preso in braccio, e un attimo dopo si ritrovò nella stanza di Harry.
Per poco non crollò a terra quando lo vide su quel letto, la gamba fasciata che spuntava da sotto la coperta, un braccio bendato e il viso ricoperto di graffi.
Un'infermiera stava cambiando la bottiglia della flebo.
«Si sveglierà da un momento all'altro ed è meglio non affaticarlo» li informò. «Restate pochi minuti e, per favore, uno alla volta».
Nonostante l'aspetto sciupato, Harry era la cosa più bella che Louis avesse mai visto. E non poteva perdonarsi di averla rovinata. La sua presenza nella vita di Harry non aveva fatto altro che portarlo a un passo dalla morte, era tempo di invertire la tendenza.
Lasciò che Anne prendesse posto sulla sedia accanto al letto dicendole che avrebbe aspettato il suo turno fuori. Sentiva le gambe fragili e il resto del corpo pesantissimo. Gli serviva un attimo per riprendersi, solo un attimo. Doveva assicurarsi che Harry stesse bene, poi avrebbe fatto quello che doveva.
«Stai bene?» si sentì domandare da Niall alle sue spalle. Aveva ancora in mano il caffè, cosa che gli ricordò di non avere idea di dove fosse finito il suo.
Rispose con un verso indefinito e si lasciò andare lungo il muro accanto alla porta della stanza di Harry fino a sedersi sul pavimento in linoleum.
«Si riprenderà» sentì la voce di Niall e poi la sua mano sulla spalla. «Ne sono certo».
Louis non rispose e rimase a fissare in basso per quello che gli parve tutto il giorno.
Quando Anne uscì, Louis lasciò entrare Niall e poi, con la scusa di dover andare in bagno, di nuovo Anne. Avrebbe già dovuto convivere per sempre con l'immagine dei lividi che ricoprivano il viso di Harry, entrare un'altra volta e catalogare tutte le altre ferite, l'avrebbe distrutto.
Si diede una rinfrescata al viso senza prestare troppa attenzione al suo riflesso, sapeva che avrebbe provato solo disgusto. Si concentrò sulle sue mani, piccole e con le unghie tutte mangiucchiate. Harry riusciva a stringerle con una sola delle sue e lo prendeva sempre in giro per questo. Le minacce di Louis di metterlo al tappeto non sortivano alcun effetto se non quello di farlo scoppiare a ridere prima di avvolgere Louis tra le sue braccia e baciarlo fino a fargli dimenticare l'intera discussione.
Doveva andarsene da lì. Subito.
L'uscita non era lontana. Avrebbe dovuto percorrere di nuovo il corridoio davanti alla camera di Harry ma Anne sarebbe stata troppo occupata per accorgersi di lui e Niall era tornato a casa a recuperare un po' di cose per Harry.
Pochi passi e sarebbe tornato a respirare. Se solo non l'avesse sentita. Debole e roca ma ben riconoscibile: la voce di Harry. Aveva chiesto di lui?
Le parole di Anne gli tolsero ogni dubbio. «È qui fuori, tesoro. Vado a chiamarlo».
Come mosso dalla corrente di un mare in tempesta, Louis si ritrovò fuori dall'ospedale in pochi attimi e a quel punto non fu più possibile trattenere le lacrime.
*H*
Il cellulare squillava a vuoto ed erano passate dieci ore dal suo ultimo messaggio. O per meglio dire telegramma. Quattro misere parole che, sommate alle quindici dei precedenti giorni, rappresentavano l'unica forma di contatto avuto con Louis.
Non era venuto a trovarmi in ospedale né a prendermi quando mi avevano dimesso e non era mai passato a casa mia. Si era nascosto dietro gli impegni di lavoro ma, a meno che non fosse diventato il primo ministro a mia insaputa, non esistevano incombenze che potessero giustificare la sua assenza, soprattutto quando avevo più bisogno di averlo vicino.
Con fatica e lentezza scesi dal taxi, accertandomi che i gommini delle stampelle aderissero bene al suolo bagnato dall'ennesima pioggia. L'ultima cosa che mi serviva era peggiorare le condizioni della mia gamba.
Superai il cancelletto aperto e raggiunsi il portone. Dopo aver suonato, presi un bel respiro e aspettai che venissero ad aprirmi.
«Harry, che ci fai qui?» chiese Liam con occhi sgranati. «Non dovresti restare a riposo per almeno un'altra settimana?»
«C'è Louis?»
«È rientrato poco fa da... casa tua» mi guardò confuso. «Entra, lo faccio scendere subito».
Se aveva mentito anche al suo migliore amico, la situazione era peggiore di quanto immaginassi.
Rivolgendosi alle scale alle sue spalle, Liam urlò il nome del suo amico mentre io richiudevo la porta.
«Vieni a sederti, non sforzare la gamba» mi invitò con il suo solito tono gentile.
Sì, avrei dovuto. Il piano era proprio quello di rimanere a riposo totale mentre il mio coinquilino e quello che credevo essere il mio ragazzo si alternavano per tenermi compagnia e soddisfare i miei capricci. E invece...
«Non ti preoccupare, Liam, va bene anche qui». Saltellai sul posto per sistemare meglio la gamba fasciata mentre Liam urlò di nuovo.
«Liam, che cazzo hai da url... Harry». La sua voce mi arrivò come un soffio all'orecchio.
«Lou» lo salutai mentre lui scendeva l'ultima rampa, all'apparenza più per inerzia che per voglia di raggiungermi. Si fermò subito dopo l'ultimo gradino, distante anni luce da me e non solo con il corpo.
«Che succede?» andai dritto al punto.
«Cosa intendi?»
Sapeva benissimo che non ci sarei cascato e odiavo che mi mentisse in modo così sfacciato.
«Due settimane, Louis. Non ti sei degnato neanche di venire a farmi visita in ospedale e queste sono le prime parole che mi rivolgi di persona dopo essere sparito?»
«Mi dispiace» incassò la testa tra le scapole, lo sguardo non aveva mai lasciato il pavimento.
«Perché mi stai evitando?»
«Mi dispiace» ripeté, «non è colpa tua».
Muri, strati su strati di mattoni e cemento. Non percepivo altro.
«Cos'hai fatto di così grave da non riuscire neanche a guardarmi negli occhi?» riprovai. Doveva pur esserci una crepa, uno spiraglio attraverso cui avvicinarmi.
«Niente».
Bugiardo. Potevo fiutare il suo senso di colpa da chilometri di distanza. Aveva impregnato anche i tappeti e le tende della casa.
Cosa poteva aver mai commesso di tanto grave da scappare da me? Mi aveva confessato di aver fatto molte scelte sbagliate in passato, forse credeva di perdermi se avesse ammesso di essere ricaduto nelle vecchie abitudini?
«Qualunque cosa tu abbia fatto, possiamo risolverla insieme. Se hai ricominciato a farti o ti hanno incastrato in qualche comb—»
«Non è niente di tutto questo» mi interruppe. Non sembrava offeso né sorpreso dalle mie conclusioni, solo rassegnato. Mi vergognai per aver dubitato di lui. Volevo solo capire e aiutarlo.
Era così sfuggente, sulla difensiva, come se si aspettasse che gli saltassi addosso da un momento all'altro. Non poteva davvero pensare che avrei reagito in malo modo per un errore che danneggiava principalmente lui. A meno che l'errore non danneggiasse in egual misura me...
«Mi hai tradito?» sentii la mia voce tremare.
Quello non so se sarei riuscito a sopportarlo.
«No» alzò la testa di scatto, incontrando per la prima volta i miei occhi. Era furioso, non riuscivo a capire se per le accuse mascherate da supposizioni o per aver messo in dubbio anche la sua fedeltà.
«Allora cosa?» sbottai.
«Io non ce la faccio, mi dispiace».
«Non sto capendo, Louis».
«Ho sbagliato tutto, dall'inizio. Ero così sopraffatto dall'averti ritrovato, dal saperti vivo e reale, che...»
«Che cosa?»
Non avevo idea di come riuscissi ancora a parlare. E a respirare. Un insistente ronzio abitava le mie orecchie e la lucidità cominciava ad abbandonarmi.
«Ho frainteso tutto: io, te, noi».
Quasi mi venne da ridere. Passai rapidamente in rassegna alcuni dei momenti passati insieme e no, non c'era spazio per i fraintendimenti. Non un sorriso, una carezza, un singolo bacio da parte sua poteva essere considerato costruito o forzato.
«Mi dispiace, è colpa mia» disse ancora. «Mi sarei dovuto fermare prima ma... quando me ne sono accorto era già troppo tardi».
Quello non era Louis. Avevo di fronte a me un automa, un pupazzo di gomma su cui vedevo rimbalzare le mie parole. Dovevo far scoppiare quel pallone che lo avvolgeva, squarciarne la superficie finché non ne fossero rimasti solo inutili brandelli.
«E quando te ne saresti reso conto?» lasciai che un tono accusatorio bagnasse ogni parola. «Un mese fa quando hai detto di amarmi e mi hai presentato alla tua famiglia? Oppure quando mi hai chiesto di venire a vivere qui con te mentre eri ancora nel letto in cui avevamo da poco finito di fare l'amore?»
Se davvero voleva rifilarmi la stronzata del mi sono accorto di non essere innamorato di te avrebbe dovuto impegnarsi molto più di così. Non aveva neanche il coraggio di dirlo senza giri di parole. «Illuminami: in quale punto del sentiero hai realizzato di non essere più accanto a me? Dopo quale bacio, dopo quale ti amo?»
«Harry, ti prego» lo udii a malapena.
Era tornato a evitare i miei occhi e non potevo sopportarlo. «Andiamo, Louis, devi darmi di più». Quella conversazione stava mettendo a dura prova il mio equilibrio fisico, una delle stampelle aveva perso aderenza rischiando di farmi scivolare già un paio di volte.
Lui scosse la testa, fissava ancora qualcosa in basso.
«Guardami!» gridai appoggiando involontariamente il peso sulla gamba fasciata. Una fitta di dolore mi colpì così forte da farmi traballare ma la repressi. «È questo che hai fatto in questi giorni, stare chiuso qui a convincerti di non volermi?»
Stavo stringendo così forte i manici delle stampelle che mi formicolavano le mani.
«Io non... non provo quello che provi tu» cominciò incerto. «L'ho capito nel peggiore dei momenti, lo so, ma non posso continuare a fingere... non sarebbe giusto per nessuno dei due».
Continuare. Come se lo facesse da sempre e nulla fosse stato vero. Come se io fossi ancora e solo un fantasma del suo passato.
«Louis» addolcii il tono, «sono qui».
Cadde il silenzio, rotto solo dal tic regolare delle stampelle che scricchiolavano sotto il mio peso mentre mi avvicinavo a lui.
Gli presi una mano e la portai alla mia guancia. Era rigido e freddo come una statua di ghiaccio.
«Sono qui» ripetei cercando le sue iridi blu. «Sto bene e non è colpa tua» scandii ogni parola come se parlassi con un bambino. Lo vidi sgranare gli occhi e per un attimo pensai di essere riuscito a scalfire la sua armatura ma poi ritrasse la mano di scatto e il suo sguardo si fece di fuoco.
«Smettila di trattarmi come un ragazzino traumatizzato che non sa cosa fare. Non dai mai peso a quello che dico o faccio, pensi sempre che ci sia qualcos'altro sotto, qualcosa di inespresso che deve essere tirato fuori. Non sono un tuo paziente, Harry, smettila di psicanalizzarmi, cazzo! Te lo ripeterò in modo che sia inequivocabile: io non voglio tutto questo, non voglio te, non voglio noi. Credevo di amarti, invece ero solo sollevato all'idea che io non fossi la causa della tua morte».
Mi parve di sentire uno stridio, come un osso che si incrina senza spezzarsi o un tessuto che si lacera.
Louis era un grande combattente, bastava vederlo durante le sue lezioni per capirlo. Oh sì, sapeva stendere l'avversario con pochi colpi assestati al momento e nei posti giusti. Non era la sua prestanza fisica a renderlo letale ma la sua grande capacità di osservazione e ricerca dei punti di debolezza dell'altro.
Affrontava la vita come fosse sempre in un combattimento e chiunque si trovava di fronte diventava un potenziale nemico. L'avevo capito da quella prima sera a casa sua, tra uno shottino di vodka e l'altro. E sì, probabilmente non sarei giunto a queste conclusioni senza le mie conoscenze in psicologia, ma non l'ho mai, nemmeno per un secondo, trattato come uno dei miei pazienti e ho sempre guardato oltre il suo bagaglio di mostri. Speravo di riuscire ad alleggerire il suo fardello e invece quel peso aveva finito per schiacciare anche me.
Non replicai. Non avevo nessuna possibilità di vincere in uno scontro di quel tipo, lui era abituato ad avversari che si rialzavano colpo dopo colpo e che non mollavano finché gli restava un solo briciolo di forza in corpo. Io non ero lì per picchiare. Usavo le parole per toccare, accarezzare, lui per ferire.
Lo guardai un'ultima volta cercando tra le linee spigolose del suo viso contratto quelle morbide di quando mi sorrideva o era sul punto di addormentarsi, poi gli diedi le spalle.
Solo allora mi accorsi di Liam, incastrato in un angolo tra il corridoio e il soggiorno, sconvolto da ciò a cui aveva evidentemente assistito. Lo salutai e mi diressi al portone nel minor tempo che le stampelle mi concessero di impiegare.
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