4 "La macchina"
Sabato mattina.
Il sole ormai alto nel cielo, era penetrato coi suoi raggi dalla finestra della camera di Irene, illuminando il viso della ragazza.
La luce accecante l'aveva svegliata.
"Il sogno... che sogno? Era un bel sogno... Ma cosa?"
Sì, ora ricordava: stava baciando un ragazzo, un bel ragazzo e ne era innamorata.
Non si trattava di un ragazzo che aveva incontrato a scuola o in paese, non ricordava dove l'avesse visto, capita nei sogni di far vivere persone che non fanno parte della realtà.
"Ma perché i bei sogni svaniscono in fretta?"
Sentiva nel suo cuore ancora quel sentimento di innamoramento, quel languore e una sensazione strana allo stomaco.
Tristezza.
La malinconia la assalì. Forse era nostalgia, ma di cosa? Non riusciva a...
Scosse la testa, cercando di allontanare tutti quei pensieri.
Si alzò e si diresse verso la borsa che aveva appoggiato sulla scrivania qualche ora prima. Prese il cellulare e controllò se vi fossero dei messaggi.
"E questo cos'è?" si chiese toccando il display sporco, coperto da una polverina nera.
"La foto!" esclamò, e rovistò nella borsetta, tirandola fuori.
Soffiò per far volare i pezzi di carta carbonizzati.
Il ragazzo che stava sognando era Roberto! Aveva completamente dimenticato quella foto.
Cosa aveva potuto fargli, la ragazza ritratta al suo fianco, perché rimanesse turbato a quel modo, rivedendola?
Nel sogno aveva immaginato un grande amore passato.
Era rimasta così turbata quando lui aveva repentinamente buttato quel ricordo nel fuoco.
Ora comprendeva il motivo di quella sensazione di nostalgia.
Chissà quanto l'aveva amato lei.
Chissà quanto male gli aveva fatto.
Fantasticava.
Nascose la foto nel suo diario scolastico e lo infilò nello zaino. Si affacciò alla finestra e guardò la casa di fianco.
Roberto stava entrando nella sua auto, al posto di guida; di fianco sul sedile del passeggero era seduta Elena, dietro nel suo seggiolino, c'era Andrea.
Una fitta di gelosia le trafisse il cuore.
"Cosa mi sta succedendo?" pensò.
Era ancora sotto l'influsso del sogno; Roberto era sempre stato come un secondo padre per lei, tutt'al più uno zio, ma mai l'aveva considerato un possibile amante: troppo vecchio.
Guardò la macchina partire, mentre sentiva il suo cuore battere forte.
Fece un lungo respiro tentando di calmarsi, si diresse in bagno e dopo la doccia scese in cucina a fare colazione.
Sul tavolo trovò un biglietto:
"Siamo usciti a fare commissioni; non so se riusciamo a fare in tempo a tornare per mezzogiorno. Nel frigo c'è il pranzo pronto, devi solo metterlo a scaldare nel fornetto.
Mamma."
Irene si preparò un cappuccino con tanta schiuma e si affacciò dal balcone che dava sulla strada.
Il sole era piacevolmente tiepido e l'aria fresca.
Una "Smart" nera, tirata a lucido, accostò al marciapiede e ne uscì suo padre.
"Papà!" lo chiamò a voce alta la ragazza, tendendo in alto il braccio destro e muovendolo per farsi notare; ma suo padre non la udì.
La ragazza quasi inciampò sulle pantofole, uscendo di casa.
Un po' del suo cappuccino volò sul gradino di pietra del marciapiede.
"Papà, di chi è questa macchina?"
"Non indovini, tesoro?" replicò l'uomo, togliendo un fazzoletto di carta dal pacchetto e pulendo i baffi di schiuma alla figlia.
Irene sentì le lacrime che, indipendentemente dalla sua volontà, le sgorgavano e rigavano calde, le guance.
"Se smetti di guidare ora, non lo farai più. Basta cominciare ad usarla, pochi minuti al giorno, anche solo fino al supermercato, alla chiesa o alla piazza. L'importante è che ricominci, tesoro. Devi superare la paura dell'incidente. Questo desidero. Ti voglio bene."
I due erano abbracciati stretti, Irene non riusciva a proferire parola, mentre, senza accorgersi, rovesciava la tazza che aveva in mano facendo cadere il resto del cappuccino al suolo.
"Meno male che si è distrutta la vecchia macchina. Se penso che avrei potuto ritirarla sabato scorso... Era una sorpresa... Ed ecco... Spero che ti piaccia."
"Vado a chiamare subito Clizia!" esclamò entusiasta la ragazza, diede al padre un bacio sulla guancia e infilò la scodella della colazione nelle mani di lui.
Clizia era la sua migliore amica: biondissima, occhi azzurri; si conoscevano praticamente sin dalla loro nascita, avevano frequentato tutte le scuole dell'obbligo insieme, nella stessa classe. Avevano entrambe, scelto la scuola di ragioneria per non dividersi.
Durante la settimana che aveva passato in convalescenza la sua amica, quando tornava dall'Istituto, prima passava da lei per aggiornarla sui compiti e poi correva a casa a pranzare.
Questi ultimi giorni si erano frequentate pochissimo a causa delle forti cefalee che colpivano la ragazza, costringendola ad isolarsi nella quiete della sua camera.
Irene pensò che quel mattino era proprio cominciato bene.
Suonò con impazienza il campanello, finché la sua amica non apparve alla porta.
"Ho la macchina nuova; ieri sono stata pagata per il lavoro che ho fatto... Verresti con me al centro commerciale? Vorrei andare a comprarmi qualcosa da vestire!" disse tutto d'un fiato.
Mezz'ora dopo, le due amiche erano per strada e, stranamente, Irene non aveva paura di guidare: era troppo felice.
Nel pomeriggio, prima di congedarsi e tornare alle loro rispettive dimore, le ragazze si diedero appuntamento per le venti e trenta della sera; sarebbero andate al "Jolly", il bar della piazza. Clizia doveva incontrare suo cugino, il quale sarebbe venuto in compagnia di un amico.
Irene si distese sul letto accusando un po' di mal di testa e, senza accorgersi, si addormentò.
Di nuovo sognava di guidare: era in una macchina bianca, non riusciva a vedere bene la strada, forse pioveva ed il tergicristalli non funzionava. A momenti la pioggia scrosciava forte e la visibilità era completamente azzerata; il paesaggio scompariva e gli alberi diventavano dei colori informi.
Un lungo, basso muraglione fiancheggiava la strada. Poi, un mostro nero, una macchia informe, aveva fatto sbandare l'auto, e Irene era piombata sul pavimento con un tonfo sordo.
"Stasera prenderò le gocce per dormire, non posso andare avanti così" pensò esasperata.
***
Era febbraio, la brina gelata brillava sulle foglie d'erba alla luce della luna piena. Il marciapiede pareva coperto da un manto di lustrini. Faceva molto freddo. Il vapore usciva persino dalle narici.
Irene e Clizia, erano di nuovo in macchina, alla volta della piazza.
Due ragazzi aspettavano davanti all'ingresso del bar, chiacchieravano.
Uno era di statura media, bruno, occhi scuri; l'altro, doveva raggiungere il metro e novanta, biondo, occhi chiari.
Sarebbe stato impossibile per Irene sbagliarsi: lo spilungone era la copia della sua amica in versione maschile.
Chiunque, vedendoli insieme, li avrebbe scambiati per fratelli; la ragazza tenne per sé questo pensiero.
Dopo le presentazioni - il ragazzo più basso si chiamava Bruno, il cugino biondo,
Francesco - i quattro entrarono nel bar.
All'interno l'aria profumava di dolce, il locale era pieno e c'era un chiacchiericcio di sottofondo.
I ragazzi raggiunsero un tavolino libero in un angolo, appoggiarono i cappotti sulle spalliere delle sedie e si accomodarono.
L'atmosfera era calda e piacevole, sopra le loro teste erano appese delle casse da cui usciva una musica a volume basso.
Clizia era molto interessata a Bruno e non nascose la cosa.
"Come mai non ci siamo mai visti?"chiese Irene a Francesco.
"Ti sbagli: abbiamo giocato insieme da bambini, anch'io abitavo qui, ma tu eri troppo piccola e non te lo ricordi."
"Quanti anni hai?"
"Ne ho ventitré e tu?"
"Diciotto appena compiuti a gennaio."
Una cameriera raggiunse i ragazzi; tutti ordinarono delle cioccolate calde.
I due cugini rivangarono episodi passati che Irene aveva dimenticato del tutto e si chiedeva se veramente li aveva vissuti con loro.
In seguito, ordinarono dei caffè protraendo le chiacchiere nel locale; poi i ragazzi proposero di andare in discoteca.
Clizia fu subito d'accordo, Irene non era tanto convinta, ma l'amica riuscì a persuaderla.
Le giovani tornarono a casa per parcheggiare l'auto.
Irene presentò i due nuovi amici ai suoi genitori e li avvertì che avevano intenzione di recarsi in discoteca.
"Non fate tanto tardi, e mi raccomando per la strada, ragazzi: non correte!" li esortò il padre " Il cellulare è sempre con te, vero Irene?" le urlò il papà mentre lei andava via.
"Lascia che vada, Alberto!" lo chiamò Giovanna e, cingendogli le braccia attorno alla vita continuò:
"Ricordi i mille sotterfugi che dovevamo usare per incontrarci? Hai una figlia sincera; è venuta sin qui per farti conoscere i ragazzi con cui passerà la serata. È dura anche per me, Irene sta crescendo e ben presto la vedremo sposata..."
"Frena! Frena! Irene è ancora una bambina e ha bisogno di noi!" la interruppe il marito.
"Si, caro!" incalzò lei in tono scherzoso.
***
Verso le quattro del mattino, Francesco riaccompagnò a casa le due ragazze.
La serata era stata piacevole per tutti.
Il giovane aveva chiesto a Irene il suo numero di cellulare e aveva espresso il desiderio di rivederla l'indomani.
La giovane doveva prepararsi per una verifica che avrebbe dovuto fare il lunedì seguente e non gli promise nulla per il giorno successivo.
Si sarebbero sentiti per telefono nel pomeriggio del giorno seguente.
Si salutarono.
Irene chiuse la porta dietro di sé e tirò un sospiro di sollievo: si sentiva soffocare dalle attenzioni del ragazzo. Non aveva intenzione di impegnarsi con qualcuno; per il momento voleva essere libera da vincoli.
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