Lettera di una figlia al padre
Oggi ho letto il finale di un romanzo su Giulia e ho pianto. Pianto per lei, per Augusto, per tutto quello stupendo concentrato di vite umane che ha animato la dinastia durante il regno del primo imperatore. E, visto che sono masochista, mi sono rigirata il coltello nella piaga scrivendo questa cosa🌝
Poi esigo sapere se, anche qui, sono riuscita a traumatizzarvi.
"Caro padre,
O piuttosto dovrei incominciare con papà? Non ti ha mai scomodato che io mi rivolgessi a te con tanta familiarità dopotutto. Per me eri il mio papà, un gigante tra gli uomini, incarnazione di splendore e magnificenza. Eri il mio eroe.
Sai da dove ti scrivo - sempre se avrai l'ardire di leggere questa missva e non buttarla nel fuoco con ripugnanza - è superfluo soffermarmi sui particolari della mia detenzione. Una gabbia dorata, Reggio Calabria come Pandataria. La prima, quantomeno, è stemperata dalla civiltà, contatto umano. Non che i pescatori dell'isola, quelle rare volte in cui coglievano di sfuggita uno scorcio della loro illustre prigioniera, fossero meno loquaci e irriverenti dei reggiani.
So che il popolo mi compatisce, accorre a frotte a supplicare la mia liberazione, un allentamento del nodo che tu hai ristretto intorno al mio collo. Dorato e impreziosito di gemme, impregnato nella porpora, ma cappio resta. Come un animale, una bestia da soma costretta a sgobbare alla macina del padrone, vita da strizzare, strizzare fino a spremerci anche l'ultima goccia, per l'efficienza del mulino. I raccolti prosperi si ottengono sudando al sole dispotico, usavi dirmi.
Sono stata la vacca sfruttata e munta, munta fino allo sfinimento, fino a quando non ho impuntato gli zoccoli e muggito il mio dissenso, per il tuo impossibile, meraviglioso sogno d'un Impero. Vero papà?
Sì, ti chiamo papà e lo userò in continuazione e potrai infuriarti su come per l'ennesima volta la tua indolente, sfrontata figlia stia dando prova di sgarbatezza e ignori i limiti a lei imposti. Sei sempre rimasto il mio papà. Anche quando il tuo viso con me allegro e permissivo s'è indurito nell'ira. Quando mi hai cacciato dal tuo palazzo, dalla tua città, arroccata lontana dalla civilità su uno scoglio flagellato dalle intemperie più aspre esistenti in natura. Persino quando mi è giunta voce che mi avessi pubblicamente rinnegato, l'unica tua figlia la tua perfetta Roma dei sogni.
Sei il mio papà, amato e traditore. O la traditrice sarei io? Non sapevo della congiura - se mai congiura c'è stata - e non ho mai covato pensieri di morte nei tuoi confronti. Se pure ti avessi disprezzato, e così non è stato, te lo posso giurare sul mio onore, anche se so che per te non significherà nulla, ebbene, se pure fossi stata invasata di tutto l'odio del mondo nei tuoi confronti... non avrei mai potuto riuscirci.
Sbeffeggiami come codarda se vuoi. Su, coraggio. Giulia che si prostituisce al traditore di Iullo e poi non ha le palle di portare a compimento il suo losco piano. No papà, è vero. Non ci sarei mai riuscita. A eradicare l'embrione della rabbia montato in me a ogni sposalizio forzato, a ogni moncone della mia anima che mi veniva strappata, della mia persona, di me, ci pensava il senso di pace, di sicurezza, di alienazione dal mondo che scendeva su di me, su di noi, ogni qualvolta i nostri sguardi si incrociassero. Le nostre sfumature di zaffiro si perdevano nel cosmo intricato e inoppugnabile dei nostri pensieri.
Leggevo bene negli occhi tuoi. Mi volevi bene. Stravedevi per me. Principessa del tuo regno di nuvole e luce. O era solo una copertura, una maschera - dopotutto sei un attore, ne avrai indossate a iosa - dietro cui occultare le mosse, le strategie che fin dalla culla mi hai tessuto intorno? Antillo, figlio di Marco Antonio, e non avevo che due anni. A dieci circolò quella storia su un mio paventato matrimonio con Cositone, re dei Geti rozzi e irsuti come belve. Ma se anche ai tuoi occhi - forse, chi svelerà mai il tuo animo? Enigma di uomo che sei - non ero null'altro che una pedina, una chiave di volta e perno per stabilizzare la tua incerta successione che sempre ti ha dato dei gran grattacapi, dovevo ricoprire un certo peso. Come motivare in altra maniera i tuoi slanci di affetto, i tuoi abbracci, le carezze con cui mi spupazzavi in privato, lontano da sguardi inopportuni e occhi indiscreti?
Mi hai amato sia nel silenzio che in pubblico, la mentalità di un proprietario d'arte gongolante con inorgoglita soddisfazione del pezzo più invidiato della propria collezione. Contemplatene la superba esecuzione! La meraviglia inafferrabile! E, salutati gli ospiti, si trattiene a rimirarla, fiero, incantato.
Ho due figlie esigenti a cui pensare - dilette, amate, non eri mai uguale - Giulia e la Repubblica.
Siamo state davvero pretenziose papà? Alle volte mi stuzzicava il pensiero che l'Urbe avesse più posto nel tuo cuore che me, gemellata a un sogno e a una promessa stretti anni fa sul corpo devastato di uomo da te amato alla pari di un padre. Sbagliavo? Mi dicesti, una volta, che il nostro destino era il destino della nostra città. Roma eravamo noi e noi eravamo Roma. Non solo la respiravano, non solo ci vivevano, un paradiso abbagliante di marmi e orlato d'ori, ma reclamava i nostri corpi, ghiotta delle nostre vite, beveva le nostre anime. Ci uccideva, una cancrena attaccante le carni, annichilente l'animo, prostrante il fisico.
Più si scala in alto e più manca il respiro. Io annaspavo, gorgogliavo per l'assenza d'aria, per la libertà rubata, sembravo cadere, le mie ali mozzate in moncherini d'ossa orrendi e sanguinanti, ma lo schianto non giungeva mai. Quando è arrivato mi sono sfracellata in miliardi di cocci, un urto di tale intensità che ancora oggi sono sicura di non aver recuperato tutti i frammenti di me. Saranno ancora a Roma. Nelle stanze che hanno colorato la mia vita, nel mio baule dei giocattoli, doni tuoi tramandati ai miei figli.
I miei figli.
Gaio e Lucio sono morti. La distanza dovrebbe fungere da cote e smussare la lama che affonda e squarcia e violenta il mio cuore di madre. In realtà è un'arrotina e la lama l'affila, l'affila e prova un sadico, malato piacere nel cavarmi sangue lentamente. Ogni goccia per le brevi vite dei miei figli su questa terra. Roma li ha uccisi. Ha ucciso Marcello, pronto e affamato di vita. Ha ucciso Agrippa e il decoroso rispetto che avevo imparato a coltivare per lui. Ha ucciso Druso. Mecenate. Ottavia. Ucciderà anche te, se il processo non è già in atto.
Il potere libera e imprigiona. Mi è stato segnalato che la tua ira ha colpito il buon Ovidio e anche la mia prima bambina, la mia Giulia Minore. Che Postumo, dal comportamento stravagante, è decaduto dalle tue grazie. Per costoro hai decretato l'esilio e il confinamento in località impervie.
Ho sentito anche che la terribile disfatta nelle foreste di Teutoburgo ti abbia sconvolto. Che la tua reazione è stata una deprimente reclusione nei corridoi di Palazzo. Rifiuti di mangiare, rifuggi il sonno e le lame che desirerebbero rimediare all'apparenza trasandata in cui sei piombato. Barba lunga da lutto, un cespuglio di capelli. Sbatti la testa come un allucinato, maledicendo Varo e la sua inettitudine, urlando di restituirti le legioni sterminate.
Il tuo mondo si sta sfasciando papà. Il primo scricchiolio si avvertì con la scomparsa di Marcello e ora la struttura minaccia di collassare e di seppellirti nelle sue macerie.
Vorrei trovarmi al tuo fianco, consolarti.
Non so se hai cessato di amarmi. Io no. Non ci riesco. Ne avrei i motivi ma... non ci riesco. Il filo dei ricordi è esile, ma duraturo. Indistruttibile. Non posso odiare il mio papà, sovrano della mia esistenza in tutti i miei aspetti.
Tranne l'amore. Non mi pento di aver amato Iullo, la nostra passione inconcepibile e inaudita. Lui mi capiva, penetrava nei miei sogni più reconditi. Mi completava. Pezzi opposti e combacianti. Forse ho abusato della mia posizione per amarlo. Mi sentivo così sicura nel mio stato di figlia amata, di moglie incompresa, che ho sopravvalutato le mire di una madre e la gelosia di una moglie potente.
Livia è un ragno che ci ha intrappolati tutti nelle trame della sua tela. So che dissenterai con queste parole. Ma per me è così.
Dove ho sbagliato ti chiedo perdono, dove ti ho deluso ti chiedo comprensione. Ti lodano come un lungimirante, avveduto governante. Rendi le parole realtà papà.
Papà, papino, mio dolce, dolce, amato papà. La vita è uno sbuffo d'aria, il baluginio del sole sull'acqua placida. Effimera. Carpe diem, rammenti il caro Orazio? Godiamoci gli ultimi anni rimediando ai nostri torti, colmando i vuoti.
Ti prego, mio caro papà.
Con i più sentiti auspici che questa lettera ti sia recapitata in uno stato migliore di quello che, al momento, si mormora che tu stia passando.
La tua Piccola Roma
Giulia Augusti Filia."
Le mani di Augusto tremano, si artiglia la lettera contro il cuore.
È il fantasma di un imperatore. Un vecchio che la vecchiaia corrompe, un amico della morte che quella baldracca incappucciata si diverte a torturare, falciando vite a lui care ancora e ancora e ancora. Teutoburgo gli ha sbattuto davanti, evidente e chiaro, quanto i suoi sacrifici per Roma siano stati vani.
Ha dato, ha dato tanto, ha nutrito questa città con sangue di nemici e noduli nuziali del suo sangue. Ha sacrificato tutto.
E lei si lascia ferire, un taglio profondo.
Augusto piange, esplode in un grido stridulo. Per la prima volta da settimane Varo non rientra nel mirino della sua collera.
«Cos'altro vuoi prendermi?! Cosa?! Prenditi pure la mia vita maledetta città!»
La qualità del marmo? Il silenzio del freddo biancore. Ritratto inoppugnabile di un imperatore. Freddo biancore, pietrificato al suo dovere.
Un cratere gli spacca il cuore, ma non potrà mai colmarlo con la vicinanza della sua Giulia. Non può.
Il dovere e Roma non lo consentono.
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