Giulia - sacrifici

«Ce la potete fare domina. Non mollate, non mollate!»

Non è nell'indole di Giulia l'arrendersi. Di parti ne ha affrontati ben cinque, tra rotte, macerie e vedovanze, e sulla materia crede di disporre di una cospicua dose di conoscenza. Sangue, liquami, fuoriuscite, lame di dolore che ti spezzano in due, mozzandoti il respiro e sottraendoti le forze.

È un maschio, questo connubio tra il sangue degli Iuli e quello dei Claudi. Riesce a percepirlo. I maschi sono sempre i più scalmanati, veri geni malefici nel torturare le loro madri. Tiberio sarà lieto, immagina, e così suo padre.

E Livia.

Una fitta la sconvolge. Le schiave si sbrigano a condurla alla seggiola gestatoria, il sedile a ferro di cavallo che le abbraccia i glutei vischiosi d'un miscuglio tra acqua, sangue e liquido amniotico. Giulia le divarica, inarca la schiena, riposa la testa all'indietro, il pomo del collo che risalta nella fioca semioscurità

La notte imprigiona Aquileia nelle sue sbarre dense, ombrose, in comunione con la nebbia. Aquileia andrebbe ribattezzata la città della nebbia. Pesante, fitta, incolore. Una cappa che imbeve le vesti, ingrigisce l'animo. Ma Aquileia... perché... perché sono risaliti così in alto?

Non lo ricorda. Oh Giunione. Il dolore annebbia i pensieri, aggroviglia la ragione. Tutta la lucidità si disperde, risucchiata nella voragine del dolore. Esiste solo il dolore, l'epicentro alla cavità celata tra le sue gambe, al suo ventre autore di vita, prominente e arrotondato e teso, al bambino che scalcia e scalcia e la disorienta fino alla follia...

«Domina?» Il richiamo angoscioso di una schiava. Le deterge la fronte imperlata con una pezzuola umida. «Domina restate con noi.»

Gli Dei paiono favorire il contrario. Una fitta s'impossessa nuovamente di lei. Giulia geme, un lamento inarticolato. Conficca lo sguardo nel soffitto, si sforza di appigliarsi nuovamente alla lucidità. Lucidità, concentrazione. Deve far nascere questo bambino, infondergli il suo spirito.

È suo, si ripete come una litania. Suo, suo, le appartiene. Ricamato nella sua carne, ordito nel suo sangue.

Non recherà nulla di Tiberio all'infuori del nome. Verrà accudito, coccolato, amato. Sì, lei gli darà l'amore che quell'inetto incompetente non è capace di fornire a nessuno, tra la cricca della precedente consorte Vipsania e del piccolo Druso Minore. Divorziati e si cercano ancora, il suo odioso marito si svilisce in pianti e singhiozzi a malapena se la incrocia per strada.

Provvedimenti affinché non si incontrino più sono stati presi, eppure Tiberio continua a disprezzarla! Sentimento ricambiato.

La levatrice si unge le mani con olio d'oliva, avvampante come oro fuso al baluginio debole delle lucerne. S'imbuca nell'anfratto tra le sue cosce, il suo tocco delicato mentre lo spalma, facilitando l'espulsione, il passaggio.

È il momento? No, ne avranno ancora per le lunghe. Il suo spregevole marito dovrà aspettare, suo padre, Livia, Musa. Ci sono anche i loro genitori? Giunone Lucina, perché diavolo sono giunti tutti ad Aquileia? Cosa li ha condotti lì? Chi? Da quando... il dolore è una raffica di colpi in contemporanea, si diramano, radicandosi nel cratere unto e gocciolante... da quando sono qui? Perché? Giunone perché?!

Giulia s'aggancia alle maniglie laterali, uno sferragliare di metallo cozzante. Le ciocche le si incollano al viso, le invadono la vista, il biondo sfibrato, intriso di sudore. Le scosse si susseguono. Una fitta. Una contrazione.

Per suo figlio, deve farcela per lui. Non il figlio di Tiberio, non il figlio di Tiberio. Il compimento dei loschi piani di Livia, ma lo nutrirà il latte del suo seno, latte di Venere, di Enea. Lo scalderanno abbracci di Venere. Lo ricopriranno di baci labbra di Venere. Suo. Sarà suo. Non di Tiberio, non di Tiberio, non di-

Una lancia invisibile la trapassa, pugnali le accoltellano le reni. Suo figlio mira forse a ucciderla? Il cotone della tunica abrade, graffiante come sabbia sulla pelle scottata. Sta grondando a catinelle, scrosci che s'insinuano nella spaccatura tra i seni gonfi, abbondanti di latte, i capezzoli due braci incandescenti.

«Perché non esce?!»

Il corteo di schiave e levatrici si affaccenda, una parapiglia caotica. Chi incaricata di apportarle sollievo, chi si occupa del corredo d'immediato bisogno, chi predispone il necessario all'accoglienza e al trattamento del bambino. Ma se il bambino si rifiuta di affacciarsi nella vita stanno trafficando senza senso.

Il travaglio si sta trascinando da... da... Giulia invoca Giunone Lucina, prega la Mater Matuta, Egeria, passa in rassegna l'intero repertorio di divinità correlate al parto, alla gestazione e alla professione di levatrici, al genere femminile. Chiunque.

Non sta uscendo. L'angoscia l'agghiaccia.

E se fosse morto? Strangolato dentro di lei? Impossibile, il piccolo assesta calci impetuosi, un indemoniato cuocente nel suo calore vitale.

Ma potrebbe, potrebbe morire, non sopravvivere al parto.

L'affanno riprende, suo e di chi le orbita attorno. Panni intrisi asciuganti la fronte, rimedi scarsi alla sua cascata di sudore, incitazioni, le mani della vecchia levatrice sdentata che s'intrufolano nella sua sofferente, contratta, intimità.

La sua calma che s'oscura, accigliata.

A discapito di spasmi, rilassamenti illusori e mente alienante qualsiasi cosa che non sia l'atroce supplizio patito al momento, Giulia rinviene la forza per chiederle: «C'è qualcosa che non va?»

Silenzio. Una smorfia più che espressiva.

«Parla!» sputa brusca. Quella donna detiene tra le mani la sorte del suo bambino!

Il suo modo allenta la titubanza. «È girato male domina

Girato male. Podalico. Giulia sente l'aria mancarle. Giunone Lucina no, non può essere. Rivoltato nel verso sbagliato. No, no, no. Podalico. Agrippa, ai nati con i piedi prima che delle spalle e della testa viene insignito il nome Agrippa.

Il volto del suo defunto, precedente marito risorge dalle foschia allucinata.

Agrippa colossale, schietto, una corona brizzolata di grigio e bianco come a evidenziare il venticinquennio che s'apriva tra di loro. Buono, rispettoso, più una guardia del corpo che consorte. Amava i loro bambini, grazie a lui Giulia ha potuto visitare luoghi sparsi nell'Impero che aveva sentito solo nei racconti.

Tiberio non ne vale un decimo di lui, non un'unghia.

Si strozzi Tiberio e le ambizioni malefiche di quella strega di sua madre. L'ha fatto sposare contro la sua volontà per avvicinarlo al trono, Giulia la sua via.

Giammai lo sarà! Giammai!

«Fate qualcosa!» si ritrova a implorare, una mano scattante dalla maniglia all'avambraccio procace della levatrice. Ficca le unghie così in profondità da sfregiarla. «Salvate il mio-»

È certa di saltare dallo scranno, l'unico trono che vedrà mai nella vita. Ironia: suo padre legifera leggi e decreti da uno vero, lei da questo sgabello in legno impiastrato di sangue e schifezze e raggrumi. Le schiave la tengono ferma, incatenandola per i polsi, nei loro sguardi un terrore pari al suo.

Non sanno cosa fare. Nessuno sa cosa fare. Morirà qui, lo sente, con un bambino intrappolato nel grembo materno, un figlio che non vedrà mai la luce.

«Dobbiamo girarlo.» sentenzia la levatrice senza troppi fronzoli.

Girarlo. Giulia schiude la bocca, attonita, ma non ne fuoriesce alcun suono. Ficcheranno le mani dentro di lei? La tagliuzzeranno e squarteranno come certi casi disperati? Il suo bambino estratto con un uncino?

«No!» Potrebbe decretare la sua fine, quella del suo bambino, entrambi.

È troppo giovane per morire. Ha altri cinque figli di cui preoccuparsi. Che ne sarà di Gaio? E Lucio? Sono gli eredi di suo padre. E suo padre invece? Lui l'ha condannata a questo matrimonio infelice! Se spira su questo dannato sgabello infernale l'avrà sulla coscienza! Ma no, è pur sempre il suo papà, insorge a contrastarla una voce. Non può credere che non lo vedrà più. Tiberio lo castrerà, che Giunone le sia testimone assieme agli spiriti dei suoi avi, gli strapperà quel suo cazzo colpevole!

«È l'unico modo per salvarvi.»

Salvarli. Una scintilla di speranza si riaccende dentro di lei, contraltare alla nebbia preminente di Aquileia. Potranno vivere, potranno-

Una mano impudente viola le sue profondità, Giulia non ha mai provato un dolore così atroce, cieco, dirompente. Le fitte passate non si avvicinano nemmeno all'intensità ardente, sporca, che l'attanaglia, infiammandole le interiora.

Qualcosa si agita, fruga, si rivolta. Il bambino o la levatrice?

L'uscita non è meno traumatica dell'intrusione. Giulia boccheggia, intontita, la ragione inibita. Vede solo il suo bambino. Adesso potrà nascere? Le concederanno il loro beneplacito a spingere e liberarsi di questo fardello?

No, non è un fardello. Ma cosa pensa?! È il suo bambino, non puoi rivolgergli certi pensieri quando non è ancora nato...

«Spingete ora domina

Spingere. L'aspettava da una vita. Una schiava la cinge da dietro, una cintura di braccia sotto i seni pesanti. La levatrice le divarica le gambe, rende elastica la pelle, ungendo con tatto accorto.

Giulia grida, si dimena, contorsioni sue e del piccolo, si sbilancia in avanti. Ogni briciola d'energia va convogliata laggiù, coraggio, coraggio...

«Vedo la testa, non arrendetevi ora!»

«Solo una testa?!» Gli altri non l'avevano spremuta tanto!

Digrigna i denti, ringhiando grugniti e rantoli, improperi a Tiberio, al clima uggioso e inospitale di Aquilea, a suo padre, a Livia, a Giunone Lucina che non sembra stia contribuendo alla difficoltà di questo parto. Le danno da mordere un viluppo di panni. Giulia stringe tenace le maniglie del sedile, probabilmente le scardinerà. Rivolge la testa all'indietro, il panno bagnato le ottunde i sensi.

Smette di esistere il soffitto, il baccano concitato, le esortazioni, della sua cerchia, il dolore.

Il pianto del bambino annichilisce qualunque sensazione.

Giulia effonde un sospiro, chiude gli occhi.

L'esultanza generale si allontana, un ronzio ovattato nelle orecchie. Si accascia sulla seggiola, prosciugata delle energie, delle forze. Ha prevalso anche in questa battaglia. Sorride, almeno crede. Un sorriso sfiorente seduta stante. L'oscurità invitante e fresca, dimora di sogni e riposo, la lusinga suadente. La vista le si appanna. Sprofonda dolcemente, leggera come una piuma.

Il suo bambino è al sicuro...





Nel sonno il tempo è una scheggia d'infinito, il sonno imbroglia il tempo, lo divora e lo mutila d'ore. Le fiamme infere l'avvolgono, attentando al suo corpo. Vampate vigorose scalanti dal basso ventre verso l'altro. Un dolore pulsante, radicato in lei, nella clausura raccolta e preziosa, ornata di carne e sangue.

S'irradia e cresce, cresce a dismisura, assalendola.

Sta ardendo viva! Dove sono tutti? Il bambino? Il bambino sta bene? È vivo? L'hanno trasportata a letto, l'impatto con l'imbottitura la disorienta. Dov'è suo figlio?

I volti danzano, vorticano, si confondono, tremolanti come riflessi su uno specchio d'acqua. Tiberio, fosco e inespressivo, Livia che si crogiola nel compiacimento. Suo padre, ultimo che riconosce, smunto e scavato, mille anni sulle spalle.

«La mia bambina.» mormora e la bacia sulla fronte. «La mia Piccola Roma... sei stata bravissima.»

Bravissima. Sì, una bravissima bambolina ubbidiente, da sfruttare a seconda dei propri capricci.

Si assopisce in un sonno sgombro di sogni.





La ridesta il frastuono del temporale.

Torrenti d'acqua s'abbattono sulle mura della loro domus ospitante, il balenio dei lampi lacera le tenebre immobili, immanenti. Giulia si rialza dolorante, il suo corpo un maldestro riassemblaggio di rottami.

Non c'è nessuno, solo il disordine vestigia della confusione e lo schianto dei tuoni, il loro eco crepitante nell'aria umida. Suo padre si starà rannicchiando spaventato, le tempeste sono una sua immancabile fobia. Suo padre. Il pensiero la coglie improvviso. Il bambino. Suo figlio.

Dov'è suo figlio? Dove sono tutti?

Facendosi forza s'erge dal letto, vacillando, assalita dalle vertigini. Giulia ansima, il volto bollente e tumefatto. Chissene importa. Suo figlio è più importante, l'intero suo mondo, il suo obbiettivo.

Deve andare da lui.

S'affretta nei corridoi, sostenendosi alle pareti, le gambe intorpidite dall'inerzia formicolanti. Come mai l'hanno abbandonata? Però si sono tolti il pensiero di cambiarla, infilandola in vesti più comode, eteree e svolazzanti.

I suoi passi, o l'istinto, la portano alla camera arredata per il bambino. Suo marito, suo padre, Livia, Musa e il nugolo di schiave, ancelle e levatrici sono presenti. È grata che i suoi figli non siano venuti con loro, bensì rimasti a Roma. Non hanno dovuto assistere all'umiliazione della loro madre nella più degradante prova della donna.

Sguardi attoniti si puntano su di lei. Stanno circondando qualcosa. O qualcuno. Le schiave cercano di sbarrarle l'avanzata, braccia di fermarla. Giulia si svincola, le respinge picchiandole sulle mani. Cosa c'è da nascondere? Che sta succedendo?!

«Lasciatemi! Lasciatemi!»

Scorge il bambino. Suo figlio, il piccolino. Così minuto, gracile, poche oncie di carne avvoltolate in un fagotto, inerme e cereo, scolpito nella notte.

Non respira.

Giulia sente il terreno sgretolarsi sotto i suoi piedi, il mondo girare.

«No.» Persino la sua voce le suona estranea, dilaniata come una ferita. Scuote la testa, la scuote insistentemente, frenetica. «No, no, no! No!»

Si affloscia in ginocchio, mai così prostrata e distrutta. Gli altri si perdono, non contano più nulla. Sono ombre, vaghe, immateriali, opache. Suo figlio è morto. Suo figlio non respira più. Ma avrà lottato, certo, è un discendente del profugo di Troia, un tenace, irriducibile guerriero. Il suo piccolino...

«Giulia.» Una voce, non sa a chi ricondurla. «Giulia.»

La circondano, la scuotano. Giulia fissa quel corpicino, una mummia. Suo figlio. Soccombe all'oscurità, ansimando, il cuore galoppante nel petto.





Tiberio è presente al suo secondo risveglio, cupo osservatore della finestra. La luce pallida proveniente dall'esterno, successora del temporale, le punge la vista, tremenda. Giulia si ripara nella coperta.

È stato solo un incubo, sicuramente. Tra poco le porteranno il bambino, inalerà il suo profumo, contemplerà i suoi lineamenti cesellati e aristocratici di erede di Giulio Cesare e di Augusto. Certo. Perché avrà preso tutto da lei. Si è trattato solo di uno stupido incubo infervorato dalla febbre.

«Mio figlio?» pone quieta.

Tiberio non si volta. «Lo sai.»

Lo sa. Allora è vero. Preferirebbe fingere di non saperlo, essere rimasta nella bolla dell'ignoranza. «Lui...»

«.» Spietatamente conciso.

Il cuore accellera il suo battito, Giulia ghermisce nervosa le coperte. Non aveva neanche un nome, poche, misere ore di vita spese a combattere. Un singhiozzo strozzato le sfugge, lacrime le spruzzano le gote.

È la freddezza di Tiberio a sconcertarla. Non una parola di conforto, un abbraccio. Che illusa. Cosa poteva sperare da lui?

«Tuo figlio?» rimarca lui, sottolineando la sua possessività bramosa.

Giulia incrocia le braccia, preparandosi allo scontro. «Non sarebbe mai stato tuo.»

Tiberio si volta di botto e Giulia lo sfida con lo sguardo, non interrompendo il filo diretto, fissandolo nel profondo della sua anima marcescente. Era figlio suo, completamente suo. Lui e sua madre non avrebbero mai, mai, goduto quella soddisfazione. Mai. Non si pente delle sue parole. Ha detto quello che pensava.

«Mi avresti tolto pure questo?» sghignazza, un lucore malato, ferito.

Togliere? Cosa intende?

«Era mio.» scandisce lei sicura.

«Siete d'accordo tu e tuo padre? In combutta per tormentarmi?»

Sta vaneggiando? Che fosse un instabile mentecatto l'aveva già afferrato da tempo.

«Di che diamine mi stai accusando, si può sapere?»

Tiberio sospira, osa un passo, poi si ritrae, come spaventato da quell'eccessiva spavalderia. «Tu cosa puoi saperne dell'infelicità? Sei sempre stata riverita, coccolata, protetta. Amata. Basta un sciocco di dita e il mondo intero si precipita ai tuoi piedi, pendente dai tuoi ordini. Il paparino ti concede tutto, piagnucoli un pochettino e lui ti regalerebbe la luna!»

Giulia è spaesata, uno squarcio nel cuore pronto a colmarsi dell'amore di suo figlio. Non dell'umore ideale a una discussione.

Infelicità? La sua intera vita adulta è un inno all'infelicità. Sposata tre volte con partiti scelti da altri, contro la sua volontà, una via di fuga scovata nella prole, nella letteratura, nella cultura inebriante e vivace, nel brio eccitante di feste e banchetti. L'infelicità la connota, sua vicina, sua compagna. Pedina di piani dinastici, pezzo sulla scacchiera imperiale di suo padre e di quella malefica donnaccia, un timbro ai suggelli di nuove, variabili alleanze.

Ci potrebbe scrivere trattati sull'infelicità, sugli strepiti, le ribellioni, i pianti languidi affossati nel cuscino. I sogni stroncati e le ali tarpate dal dovere e dal volere di altri.

«Non sai cosa significhi trascorrere una vita nell'ombra, covare la speranza, il sogno di emergere a brillare.» Tiberio è una valanga, un fiume erompente dagli argini, investendola d'astio. «Stare antipatico a chiunque, non estroverso come voialtri, ma nonostante ciò fantasticare. Immaginare un giorno di spiccare, emergere e venire riconosciuto per i propri meriti e smetterla d'essere una nota a margine, un'insignificante macchiolina di contorno.» Si mangia le labbra, scuote il capo e discosta le sguardo, disgustato e divorato dal rimorso, dagli spettri di un passato amaro. «No, non lo sai. Ci vorrebbe Druso, lui saprebbe cosa fare.»

Il cuore di Giulia ha un sobbalzo. «Non ficcare Druso in tutto questo!»

Il suo fratellastro, che riposi in pace. Per mesi, dopo la sua morte, l'hanno perseguitata incubi sulla sua sventurata fine. Druso sull'erba brillante di sangue, la gamba spappolata in una poltiglia dagli zoccoli imbizzarriti, annerita dalla cancrena...

Tiberio finge di non ascoltarla. «Lui saprebbe cosa fare. Era amato da tutti, benvoluto, simpatico e amichevole. Tuo padre lo prediligeva. Io mi ero rassegnato. Dopo una vita di tentativi getti la spugna. Vipsania e il piccolo Druso rappresentavano il mio mondo, i soli illuminanti la mia vita. Alla malora un posto di rilievo, l'interesse di Augusto. Non mi avrebbe mai considerato, me n'ero fatto una ragione. Ma poi...»

«Credi che sia colpa mia se Agrippa è morto?!»

Perché questa predica? Lui ha potuto vivere l'amore, l'amore vero, alla luce del sole. Amando Vipsania, effusioni tenere, affettuose. Giulia ha amato Agrippa, l'ha rispettato, ma è stata un'intesa concimata con il tempo, la fatica, il doveroso impegno di una figlia e moglie all'Impero. L'amore di Tiberio non è stato clandestino, la passionalità di Iullo vissuta in segreto e cautela.

«Ero felice. Per una volta, una volta sola in questa vita qualcuno mi amava per quello che ero.» S'incrina la gelida severità, Tiberio tentenna. Si apre. Tiberio. «Avevo abbastanza, non avrei desiderato altro. Ma da un giorno all'altro perdo tutto, i piani di mia madre, lei che avvelena la mente di tuo padre. L'unica donna che abbia mai amato è estraniata dalla mia vita e lo sgomento le fa perdere il bambino che attendeva. Nostro figlio! Ero felice e voi-»

«Io?»

«Tu hai accettato!»

«Credi che abbia avuto scelta?!» Le gentili parole di suo padre sono state un balsamo ben poco attenuante il bruciore dell'onta, dello sconcerto. Ci sacrifichiamo tutti per Roma, la vezzosa giustificazione di Augusto, addolcita di carezze.

Giulia non si raccapezza proprio di questa ferocia: entrambi sono burattini nei piani altrui, dovrebbero fare fronte comune, coalizzarsi. Ma sono sempre stati antipodi, lei e Tiberio, luce e buio. Schivo e taciturno e scontroso lui tanto quanto lei è sfrontata, genuina, esuberante d'allegria e d'un certo carismatico candore. Tiberio cerca la quiete, Giulia il chiasso. Lui si fida di pochi, lei ama molti, espansiva.

Tiberio si astiene dal rispondere, incassandosi nelle spalle e rivolgendo lo sguardo alla finestra, alla graticola in elaborato legno frammentante la luce.

È un uomo maturo, non soggetto all'autorità di nessuno oltre la sua.

«Se sei un vigliacco l'unico da incolpare sei tu stesso.» sibila aspra Giulia.

Suo marito contrae i pugni, muscoli che si tendono e ricadono a rilassarsi. Sta attizzando le braci, incauta a giocare con il fuoco. Il nero penetrante, meschino dei suoi occhi, il nero sagace di Livia, è una lama affilata d'odio.

Puro, sconfinato odio.

E vergogna. Tiberio si vergogna delle sue scelte, del suo destino, della sua inettitudine all'opporsi alla madre.

«Partirò per la Pannonia tra quattro giorni.» la informa secco, accomiatandosi così, il calpestio dei suoi sandali che si disperde, remoto.

Il lato positivo del loro litigio? Molto probabilmente la loro farsa di matrimonio è morta e, finalmente, Giulia riscopre il motivo della loro permanenza nel capoluogo della regio X Venetia et Histria.

  


Livia la spaventa al suo terzo risveglio, incombente sopra il suo capezzale, ritta come una cariatide. La penombra maschera i tratti decisi, la mascella volitiva, il naso adunco. Della decantata bellezza d'un tempo sopravvive la fierezza negli occhi scuri.

«Vattene.» le intima Giulia atona e insensibile. «Se sei venuta a commiserarmi dovrai riformulare i tuoi piani.»

Non vuole la pietà di nessuno, men che meno di Tiberio e di quel cancro di sua madre. Matrigna, l'ha sempre vista come la matrigna delle fiabe. Peccato che ami suo padre e suo padre ami lei.

«So cosa stai passando.»

Si trattiene dall'esplodere in escandescenze davanti a lei. Non le restituirà suo figlio. «No, non lo sai. Vattene.»

«Anch'io ho perso un figlio Giulia, lo sai bene.»

Il fratellino. L'erede prematuro di un Impero non ancora formato, esattamente come lui. Imperfetto e imbrattato di muco, cascante e grigio. Livia aveva un solo compito da svolgere, una sola moneta con cui ripagare il marito.

Ha fallito.

E Druso, spinto alla tomba da tumultuosa, accidentale, fatidica caduta da cavallo.

Altri bambini spirati, altre tombe. Giulia serra gli occhi. La sua vicinanza le suscita nausea, ribrezzo. In un altro universo si sarebbe stretta nel conforto offertole dalla matrigna. Non in questo. Non qui.

La pietà altrui è vomitevole.

«Vattene.» ribadisce sprezzante.

Rispettando il suo stile Livia Drusilla solleva gonne, raccoglie la dignità lesa e si toglie dall'impiccio.





Suo padre è il quarto visitatore. Le accuse, il livore, l'incolparlo quale responsabile delle sue sventure... Giulia non ne trova più la forza. O il senso. O la voglia. A viso asciutto e cuore di pietra accoglie Augusto, accomodato al suo fianco sul letto.

«Mia Piccola Roma...» dice, scostandole ciocche moleste dagli occhi. Piccola Roma. Una città e un impero da reggere, dirette da lui. Quale marcato parallelismo con lei, diretta dalle sue ambizioni. «Tuo figlio-»

«Ha lottato, lo so.»

«Ti assomigliava.» Il calore del tono scioglie la barriera di rovi intorno al suo cuore. È finito il tempo delle lacrime. Non può restare arrabbiata, non con lui.

Le assomigliava. Un ciuffo biondo sulla nuca glabra.

«Papà...»

Tende la mano e lui la prende, sul viso i segni della notte movimentata. Improvvisamente gli anni di suo padre le si scaraventano addosso. L'argento a svigorire l'oro, le rughe, la stanchezza nella voce.

Augusto, contravvenendo alle norme, alle restrizioni delle levatrici, invade il suo spazio, saltando sulle coperte. Si allunga dietro di lei e Giulia si raggomitola nel suo abbraccio, nuovamente bambina, ingabbiata nelle sue braccia.

Quello che ci voleva, la sua panacea.

Crolla, gemme di sale punteggiano il cuscino, la tunica di suo padre.

«Sacrifichiamo quello che siamo per quello che altri saranno bambina mia.»

Altri. Non loro. Roma è altri, mille altri, mille sconosciuti godenti di una libertà di cui lei si deve privare. Quanto li invidia.

«Lo so.»

La consapevolezza, il senso del dovere, genera un male molto più terribile con cui convivere.

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