Augusto & Giulia - shining like the sun

Mi vendico dopo l'orrore di Domina🌝a voi!




Baia, Campania - estate 727 AVC (27 a.C)

Suo padre è figlio d'Apollo.

Così vogliono le voci, una storia di grembi e serpi striscianti alimentata dall'oliata macchina della propaganda. Giulia spunta quale sua più accanita sostenitrice. Le piacerebbe che fosse vero, che nelle vene di Augusto, e, a conti fatti, nelle sue, bruci linfa solare, succosa di luce e intrisa d'oro.

Che stravagante miscela: Marte, Venere, Apollo. La loro famiglia si fonda sugli Dei, ama sottolineare il papà, affollando le are di sacrifici fumosi e viscere truculente, offerte zuccherine di miele e corone di fiori. Giulia ha sempre sostenuto che parlasse in senso metaforico. Devozione e rispetto, pilastri delle famiglie romane.

Non l'ha mai sfiorata che potesse dirlo in maniera letterale.

Sangue di Dei e lucore solare. Lo vede, una mera occhiata e la convinzione si rafforza: l'oro imbrogliato nella chioma di suo padre, un conflitto di esangue candore marmoreo e riccioli intessuti di raggi, una massa incandescente. Giulia si guarda allo specchio, passa ore a studiarsi, a ricercare una favilla di quella ardente, viva divinità nel suo esile, piatto corpicino di ragazzina.

Oro e bianco, come suo padre. Zaffiri di ghiaccio, come suo padre. Minuta e spigolosa, per quanto bella. Distinta nella ressa, una Venere in miniatura. Discendente dei suoi lombi. È o non è Venere la loro matriarca? La fiamma d'amore, l'ardore dirompente della passione, scalderà il suo sangue, il suo impeto?

«Siamo un lignaggio superiore.» le riporta il papà nella rientranza sul terrazzo imbottita di cuscini. Baia è una soave nicchia di zefiri salmastri e ruggiti schiumosi del mare.

Giulia gli è accoccolata in grembo, un idolo sopra un idolo, e gli espone il polso, le vene in risalto nella tensione del muscolo. I polpastrelli di lui ne leggono gli intrecci, le cavità. Aruspice profano di ascendenze.

«Nessuno a Roma vanta degli antenati divini come i nostri. I Claudi la ingigantiscono, ma i loro avi non erano altro che analfabeti coltivatori zappanti zolle paludose e malsane quando Marte si congiunse a Rea Silvia.» Una torsione di petto, il calore della carezza permea la pelle di Giulia anche quando Ottaviano allontana la mano. «E da chi discendeva Rea Silvia?»

Giulia la sa. «Da Enea, scampato alla devastazione di Troia.»

«Figlio di?»

«Anchise e Venere.» Sorta dalla spuma, su una conchiglia solcante le onde. Generata dai genitali evirati di Urano. Venere amò e venne riamata. Giulia prega d'incamerare un minimo della sua libertà, della sua forza.

Il bacio del papà sboccia tra i suoi boccoli, gli oscillano tra le dita. Trucioli d'oro, sole e luce. Segno d'Apollo. E Venere. Venere dalla chioma fluente, rigogliosa, invidiata.

«Eccellente mia Piccola Roma. I tuoi progressi negli studi sono formidabili.»

Giulia gli sorride e sbircia alla sterminata desolazione marina sfracellante sugli scogli, alla schiuma madreperlacea e ribollente. Nelle sue fantasie Venere assurge dalle acque, il corpo florido e abbondante, i capelli un velo discinto a conservarla dalla nudità oscena. Baia non è la Grecia, i gabbiani non sono cigni ai cui sinuosi colli aggiogare un carro di gusci e perle. Venere non nasce in Italia.

Vive in loro, scontrandosi con l'indole belligerante e lunatica dell'amato, adultero Marte. L'amore e la guerra.

Oppure l'amore, già di per sé, è una guerra?

Giulia si slancia in avanti, confiscando la ghirlanda rilegata d'oro dalla testa di suo padre. Eredità di Cesare, la leggerezza inganna. S'incorona, quella non centra la sua circonferenza cranica di undicenne alla soglia dei dodici inverni, cascando storta, e dal papà ne ricava un riso sommesso, discreto.

Il suo momento preferito: solo lei riesce a strappargli una risata.

«Sono il princeps senatus!» proclama, instillando autorevolezza e rigore nella voce abbassata, una blanda imitazione. «Sono il primo tra pari!»

Augusto le pizzica la guancia, una mano che s'insinua dolce sotto il mento. «Giulia! Io non parlo così!»

«Sì! Sei più cerimonioso e mellifluo dello zio Mecenate!»

Un bacio premuto sulla fronte. «Padrona del palcoscenico. Apollo ti ha infuso il dono delle arti.»

A lui, di sicuro, una dipendenza dalla medicina su cui veglia. Che bizzarro contrappasso. Apollo cura, suo figlio si svigorisce dalle febbri, ma risale sempre alla guarigione, come appeso a quel sottile filo.

Il gancio di Apollo, fantastica Giulia maliziosamente.

«Papà?»

«Sì mia Piccola Roma?»

Aliti marini soffiano dalle coste acuminate. Si dileggia a tracciare i percorsi ricamati sulla sua tunica, l'aquila campeggiante sul petto, garrente di maestosità.

«Sei rimasto deluso quando sono nata io?»

È una curiosità innocua, ma che tuttavia la infastidisce come un sassolino nei sandali.

Le labbra di Augusto si distendono in un sorriso. «No.»

«No?» Tiberio le aveva inseminato il germe del dubbio. Le femmine sono fardelli, sanguisughe ai borselli, dispendiose di doti e vesti. Un maschio non salassa il padre. E quando studia allora? Tiberio voleva solo amareggiarla.

«No. Un maschio avrebbe funto da ricatto in mano a Sesto e alla famiglia di tua madre. Ma da femmina eri mia.» Le arriccia una ciocca, il dito pungolante. «La mia Piccola Roma.»

«Non sono un peso?» Giulia distrae lo sguardo, le dita angustianti la lanula. Un epilogo alla pagina maestra che avrebbe dovuto aprirsi con il fratellino?

«Un peso? Giulia, cosa vaneggi piccola mia?» ride sorpreso, le solleva il mento crucciato in un broncio piagnone, boccuccia tremolante. Si riflette nella limpidezza cerulea del papà, trasparente come un ruscello montano. «Sei un dono degli Dei.»

Anni più tardi Giulia storpierà quella frase, la sviscererà del senso, fraintendendola, leggendola come un dono da contraccambiare, scambiare, soppesare. Un pegno, una valuta in carne e cervello. Un dono da sfruttare come una bambola.

Suo padre tira invece dritto al punto: è un dono perché benedetta, perché unico suo ponte sul futuro.

«Sei sincero?» Il pianto preannunciato si disperde.

«Sincerissimo.»

«Giulia!»

Druso invade la stanza, esondante d'allegria e ansimi. Uno scalpitio di suole e le rimanenze della banda s'accalcano sulla soglia. Le sue cugine, Tiberio e Marcello, Vipsania e Iullo, i gemelli e Tolomeo. La famiglia allargata e mista imbastita da Ottaviano.

«Vieni fuori!» schiamazza il suo fratellastro in un ciondolante scampanellio di bulla. Infiltrazioni solari accendono la sua chioma di contralti castani. «C'è il sole! Vieni fuori! Andiamo sulla spiaggia!»

Prima va domandato diligentemente il permesso. «Posso papà?»

Una carezza le lambisce la spalla nuda, abbronzata di lentiggini.

«Non staccarti dagli altri.» l'avverte Augusto benevolo.

Euforica, Giulia scapicolla insieme agli altri, un tumulto di risate, grida, tintinnii di amuleti protettivi. Salta i gradini, i sandali sferzanti sulla sabbia. Iullo, Druso e Alessandro si fiondano tra le onde, annaspando e acchiappandosi zuppi, le tuniche aderenti, avventandosi l'uno sull'altro, lottatori in erba.

«Infantili...» gli sbeffeggia Tiberio, raccattando i suoi rotoli e appartandosi tra le radici nodose e aggrovigliate d'un ulivo, sfumante di barlumi argentei.

Rivolgendogli una linguaccia Giulia si sfila i sandali, immergendo i piedi nella frescura effimera dell'onda. Un rimbombo titanico, come una forza della natura. Selene la copia, i sandali buttati, l'orlo screziato d'acqua. Ride e il vento le strappa le parole. Giulia prova a ribattere e la sua frase vola, trasportata su un refolo.

I capelli volteggiano, il vento investe, le onde travolgono la sabbia. È una goccia di paradiso, un istante da custodire. Perla nel forziere dei ricordi.

I suoi amici e i suoi cugini - persino la composta, signorile Marcella Maggiore, che si atteggia a tronfia adulta maritata in quanto unica finora ad aver convolato a nozze - si scompigliano e nuotano, sguazzando, ammucchiando conchiglie, costruendo castelli di sabbia, esplorando insenature, arrampicandosi sugli scogli. I ragazzi, nudi impuberi, scultorei come giovani ellenici, si sfidano a scalare gli spuntoni rocciosi, le prese scivolose, spiccando tuffi atletici dalla sommità. Le ragazze agghindano le loro bambole in monili d'alghe e incastonando ciottoli luccicanti.

Tiberio, scocciato dai disturbatori, alla fine cede, prendendo la rincorsa e destando schizzi dalla risacca.

«Nettuno non vi assumerebbe mai.» li rimprovera grifagno. «Siete caotici della peggior specie.»

Lui un bugiardo. Giulia non si lascerà mai più abbindolare dalle sue trovate.

Giocano e si sfiancano fino a quando il sole si rintana, spodestato dalla luna e dal suo corteo di prime stelle, il cielo illividito in quella sutura tra viola e arancio intenso che precede la notte scura. Purpureo come uno strascico imperiale.

Dalla porta secondaria della villa rifulge un lume. La zia Ottavia li riprende, avvisandoli della cena pronta. Bagnati e irruviditi di sabbia e sale, l'epidermide indurita dalla salsedine in una corazza rosata, i ragazzini si sbrigano, rivestendosi con controvoglia, correndo alla convocazione.

A Baia le regole chiudono un occhio. Anche due. Nel triclinium abbarbicato sui cocuzzoli acuminati i commensali gremiscono i divani, illanguidendosi pigramente sui cuscini sfarzosi. Il papà, Livia, la zia Ottavia e lo zio Agrippa, lo zio Mecenate e i bonari amici del Circolo. Dall'arcigna matrigna partono occhiate severe, storcendo il cipiglio all'appurare lo stato miserando in cui sono conciati. I giovani intrusi assaltano i posti, le delicatezze, i sapori del mare serviti a tavola.

Ostriche e molluschi, le orate e le murene. Baia è conosciuta per le terme risananti e l'allevamento ittico nei laghi limitrofi. Al suo fianco Marcello sguscia una cozza, suggendone il cuore molliccio.

«Oggi mi sono imbattuto in un uccellino ferito.» le sussurra, tutt'intorno brilli rubicondi e musici coloranti la serata. «Io e Alessandro gli abbiamo fasciato l'ala.»

Potrebbe tenerselo come animale domestico, non è raro. Ma a Marcello dispiacerebbe soffocare in gabbia una creatura. Marcello si contrae mesto anche a calpestare un formicaio per errore. Alle volte Giulia crede che abbia un'indole eccessivamente buona, buona come la zia Ottavia. Non gliel'ha mai detto.

«Ora sta bene?» pone preoccupata.

Marcello annuisce e scarta l'involucro della cozza. «Sì, lo terremo sorvegliato fino a quando non guarirà.»

Le risate soverchiano la musica e battute e storielle cominciano a venire scoccate tra i posti. Il papà non beve, i suoi zii invece alzano il gomito più dell'opportuno. La zia li monitora sempre, delegando ogni tanto Marcella Maggiore, che tenta di onorare il suo ruolo sfoderando sguardi minacciosi ai bighellonanti. Sebbene si sporga sui dodici anni, la transizione a donna che si avvicina, Giulia scrolla le spalle e fa del suo meglio per ignorarla, concentrandosi sugli amici, sul clima rilassato, sulla gioia aleggiante nell'aria satura d'odori.

È perfetto. Tutto. Non pensa spesso a sua madre. È un ombra sfocata, un riflesso scomposto come quando s'increspa la placidità d'uno stagno. Ci avrà spiccicato sì e no una manciata di parole. A chi, di rado, le chiede se le manchi, Giulia risponde di no e la lontananza ha poco valore. Sua madre non le darebbe mai tutto questo. Amici e una folta famiglia e spassi giornalieri. Una casa silenziosa e due fratellastri adulti sarebbe il compenso di Scribonia. Giulia rifiuta volentieri: ha il suo papà, è figlia del padrone di Roma, può ottenere tutto.

Ha amici, amore, feste e affetto. Cosa può desiderare di più?

Il tempo vola, le ore si snocciolano, i più piccoli affrontano eroicamente il sonno incedente prima di crollare, accollati a schiavi che li riconducono alle coltre. Giulia è grande. Come Iullo, come Tiberio. Può resistere! È grande...

Somnus la contraddice. Nell'oscurità indolente di palpebre gonfie avverte braccia sollevarla, una spalla resa guanciale.

Il letto l'accoglie prima di quanto pensi, fresco e morbido, un'alcova riparata dietro drappi ariosi. Il suo misterioso accompagnatore le depone un bacio tra i capelli, una mano passante. Gli anelli sibilano.

«Buonanotte mia Piccola Roma.»

Buonanotte papà.

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