Capitolo 38

Arrivo a casa che sono ormai quasi le sette.
L'appuntamento con Andrea sarebbe fissato per le sette e mezza ma, se devo essere sincera, non me la sento più di uscire.
Sono molto combattuta, tirargli il pacco all'ultimo minuto non è sicuramente simpatico, ma non sono in vena di stare in compagnia stasera, troppi orchi si sono affollati nella mia mente e sembrano non aver intenzione alcuna di smettere di darmi tormento.
Sono in un vortice e mi sto lasciando aspirare giù, senza sapere quanto la fossa possa essere profonda. Sono finita nelle sabbie mobili e non ho la forza di trarmi in salvo, non adesso, non più.
Accarezzo la pancia e cerco nel mio scricciolo una forza che so di non avere ma sono certa di dover trovare, la forza di crederci, crederci che anche se si cade troppo in fondo ci si può comunque salvare, crederci che esiste in ognuno di noi la forza di lottare. Io non lo so se sono ancora capace di credere, non so neanche se lo sono mai stata per davvero. Di sicuro da quando ho permesso che qualcuno facesse stracci della mia vita, in qualche modo sono certa che non ci ho più creduto di poter ricominciare, di poter imparare finalmente a volare.
Mi prendo il viso fra le mani, sospiro in cerca di una convinzione che non mi è forse mai appartenuta e mi avvio con poca sicurezza alla doccia. Ridicola la mia presunzione di credere che questo possa aiutarmi a farmi sentire meglio. Ne esco difatti ancora smossa da un'angoscia profonda, assurdo averci anche solo sperato potesse in qualche modo graziarmi.
Avvolgo l'asciugamano ruvido sulla pelle bagnata, le gocce rimaste incastrate fra i capelli si liberano lente scivolandomi sulle spalle, alzo gli occhi sbattuti e mi scontro involontariamente con la crudezza dello specchio, ciò che ci vedo mi fa rabbrividire.
Questa non è Melissa, io non mi ci riconosco, i miei occhi sembrano non dire più niente. Un brivido mi implode dentro. Sembrano vuoti. Vuoti come quelli di Fabrizio. Questo pensiero mi fa atterrire.
Afferro con falsa decisione la trousse e ripunto lo sguardo su quel che resta di me. Lo so. Ormai è tardi e lo devo fare. Ormai non posso più tirarmi indietro. Ormai sono obbligata ad uscire con Andrea.
Chiudo le palpebre respirando piano presa dall'ansia, soffocata dal quel senso del dovere che fino a poco fa null'altro era se non un mero piacere. Nonostante tutto, nonostante il profondo disagio che i creano i suoi perforanti, impalpabili, ipnotizzanti occhi glaciali ma profondi, Andrea per me rappresentava una via d'uscita da questo vuoto che mi sono improvvisamente ritrovata attorno. Ma ora non ci credo più, ora non credo più sia possibile fuggire da tutto questo, inutile tentare di scappare, la delusione di ritrovarmi sempre al punto di partenza potrebbe farmi solo più male. E non ne ho bisogno, sono già stata male a sufficienza.
Lascio che le mani si muovano da sole pitturando il viso, difficile riuscire ad apparire migliore, ciò che mi porto dentro ha volutamente lasciato il segno anche all'esterno, marchiandomi come una vacca destinata al macello. Disegno con la mano tremante una sottile linea di eye-liner per poi cancellarla subito dopo, è già cupo a sufficienza il mio sguardo, controproducente appesantirlo di più.
Davanti all'armadio non va meglio. Scorro gli occhi cercando qualcosa che possa tentare di darmi colore ma è solo il nero senza sfumature quello che riesco a vedere, mi risiede dentro e si riflette fuori, inutile provare mettendo a fuoco meglio, non c'è altro che io sia capace di guardare ormai. Infilo il primo vestitino fresco che mi capita fra le mani, poco importa che sia giallo e stoni con la mia assente abbronzatura, non c'è più tempo e io non trovo la voglia nemmeno per pensare.
I capelli sono ancora umidi, cade qualche goccia ritardataria segnando lievemente le spalline del vestito, sbuffo alzando gli occhi al cielo,  mi maledico per essermi autonomamente messa nella condizione di dover uscire con un perfetto sconosciuto visto che, non bastasse, mi mette pure a disagio e sgattaiolo nuovamente fino al bagno.
Afferro decisa il pettine ma so perfettamente che quell'ammasso informe che ho in testa lo dovrei asciugare, aggrotto la fronte e cerco con lo sguardo il cellulare per leggere l'ora. Le sette e ventiquattro minuti. È tardissimo.
Sbuffo fissando i miei occhi persi, vuoti ed esasperati un'ultima volta nel riflesso dello specchio e, rassegnata a non poter far niente di meglio per apparire perlomeno umana, piego la testa incamminandomi a testa bassa verso il salotto.
Tra pochissimo Andrea sarà qui.
Mi piego per legare il sandalo e comincia a squillare impertinente il telefono, sembra riconoscere chiaramente il momento meno opportuno per strimpellare. Per un attimo socchiudo le palpebre desiderando fortemente che sia lui, che stia chiamando per avvisare che ha avuto un qualche contrattempo dell'ultimo minuto e che non riuscirà a venire. Mi alzo di scatto, ancora con la speranza di potermi salvare da questo incontro ormai sofferto stretta fra le dita, ma scivola subito dalle mie mani, non appena afferro il Samsung. È Daniele.

Non ci posso credere. Che cazzo vuole ora?

-Cosa hai da dire ancora?- lo aggredisco.

-Mel... Ti sei tranquillizzata un po'?

La rabbia sale ed esplode con la forza di un'arma nucleare di nuova generazione, travolgendo entrambi con la sua voracità.

-Sei proprio un gran coglione Daniele, peggio di quanto non pensassi già!- grugnisco -È sentire la tua voce viscida che mi manda in bestia, ancora non l'hai capito?- tremo e sto urlando a dismisura -Devi Spa-ri-re, sparire, hai capito? Eclissati, volatizzati dalla mia vita e fallo adesso! Subito! Non te lo ripeterò un'altra volta Daniele, credimi, fatti la tua vita e lascia che io ricostruisca la mia, rispettami perlomeno in questo visto che non sei stato in grado di fare altro, o mi vedrai costretta a prendere provvedimenti!- sto sbavando.

-Melissa ti devi calmare, non ti fa bene agitarti così!-

Suonano alla porta.

-Aaah ma vaffanculo Daniele!-

Riattacco di colpo, senza dargli alcuna possibilità di risposta. Non ne vedo il senso ormai.
Andrea è qui, non può essere che lui ad aver suonato. Almeno credo.
Stringo forte le palpebre conscia del fatto che, sicuramente, deve avermi sentita urlare. Non male come inizio serata una bella figura da pazza scatenata. Ottimo.
Sbuffo sconsolata alzando gli occhi a quel soffitto che per troppo tempo è stato il mio cielo e mi avvio alla porta, con il passo degno di una condannata.
Respiro a fondo lentamente, alla ricerca di una concentrazione che non so davvero dove trovare e, anche se non molto convinta,mi avvento alla maniglia e lasciò scivolare delicatamente il blindato.
Inutile il tentativo di reggere allo sguardo che mi si para davanti. Abbasso subito gli occhi presa dal solito disagio che caratterizza da sempre i mie incontri con quegli occhi color ghiaccio troppo penetranti per poter essere ammirati davvero fino a fondo.

-Buonasera Melissa- si apre un nuovo mondo al cospetto di questo sorriso. Risplende di purezza, di innocenza quasi.

-Ciao Andrea- dico, tentando maldestramente di indossare la maschera incolore dell'indifferenza.

-Ho scelto un brutto momento?- chiede, confermando di avermi sentita gridare e di riconoscere il marchio della sofferenza marchiato a fuoco sulla mia faccia.

-No, assolutamente- mento -Sei in perfetto orario- esclamo poi, cercando goffamente di abbozzare un mezzo sorriso -Vuoi accomodarti un attimo o sei pronto per uscire?-

-Io sono prontissimo- afferma deciso, senza togliermi quei fottuti occhi di dosso.

-Perfetto!- ribatto io, senza nemmeno un quarto della sua decisione -Andiamo allora- dico, chiudendomi la porta alle spalle e apprestandomi ansiosa e curiosa a seguirlo giù per le scale.

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