Capitolo 3

Ho camminato per il vialone che conduceva alla fermata dell'autobus percependo il doppio della fatica ad ogni singolo passo.
Non lo so se la colpa è stata del vento, che ha cominciato a soffiare ancora più forte di prima e ha pure cambiato la sua direzione, complicandomi così anche la via del ritorno, o se invece la vera causa del mio affaticamento fosse da attribuire al peso di questa nuova consapevolezza, so solo che mi sono trascinata per quasi un chilometro senza mai realmente riuscire a respirare a fondo.
Sono salita sull'autobus che, fortunatamente, è arrivato quasi subito, ed è lì che mi sono resa conto di quanto il mio aspetto dovesse rivelare il mio animo sconvolto.
Si sono girati tutti a guardarmi.
Dalla signorotta di mezz'età adornata di vistosi gioielli con tanto di maltese al seguito, al ragazzino pieno di brufoli tipici dell'età adolescenziale, con le cuffie alle orecchie. Perfino le quattro ragazze sedute in fondo all'abitacolo hanno smesso di chiacchierare un attimo per osservarmi.
Ho fatto un paio di passi in direzione del primo posto libero e mi sono accasciata sul seggiolino, non prestando la minima attenzione a nessuno di loro.
Sono arrivata a casa senza riuscire a fare un solo pensiero compiuto. Ho pensato anche di fermarmi in centro, a farmi una birra con Camilla, ma poi mi è venuto in mente che non posso bere alcolici e che non sono lucida per affrontare nessun argomento di conversazione, tantomeno questo.
Sono incinta. Continuo a ripetermelo, ma non riesco ancora a crederci. Eppure il dottor Lodi sembrava non avere dubbi.
Prima di salire nel mio appartamento mi sono fermata alla farmacia all'angolo, e ho acquistato un test di gravidanza. È ridicolo, lo so, il medico non ha lasciato spazio a incertezze, ma io ancora non ne sono convinta, e non lo sarò fino a quando non vedrò una prova tangibile con i miei stessi occhi.
Ho aperto la confezione lentamente, quasi mi stessi spogliando anch'io, assieme al pennino di plastica. L'ho stretto fra le mani fissandolo per un intero minuto, e poi l'ho appoggiato alla mensola sotto lo specchio del bagno.

Il foglietto illustrativo all'interno della scatola dice che è preferibile farlo la mattina, con la prima urina ma, considerando che mi è stato detto che sono già alla sesta settimana, non credo possa variare di molto il risultato, ben che ora sia quasi mezzogiorno. Inspiro profondamente, rilasciando lentamente l'aria dai polmoni e mi adagio piano sul water, in cerca della concentrazione necessaria per stimolare una pipì che proprio non mi scappa.
Il miracolo accade dopo quasi cinque minuti. Almeno credo siano passati cinque minuti, certamente a me è sembrato un tempo infinito.
Bagno a dovere il tampone, si forma evidente la linea all'interno della prima finestra del test, quella che indica che l'ho eseguito nel modo corretto.
Ora non mi resta che attendere.
Qui scrivono che sono sufficienti cinque minuti, e non è opportuno aspettare troppo, o non si può più ritenere valido il risultato.
I cinque minuti sono i più lunghi della mia vita.
A pensarci bene è a dir poco ridicola la mia agitazione, conosco già la sentenza, ed è una di quelle che non lascia molto margine di scampo. Anzi, nessuno direi.
Torno in bagno con il passo degno di un condannato a morte che si appresta a fare la sua ultima sfilata fra gli umidi corridoi del Miglio Verde.
Il pennino è lì, immobile, appoggiato alla mensola e mi sta fissando, minaccioso.
Avanzo di altri due passi, senza avere il coraggio di abbassare lo sguardo e scontrarmi ancora una volta contro l'inspiegabile ma insindacabile verità.
Mi osservo allo specchio, cercando di trovare una qualche risposta all'interno dei miei stessi occhi, ma nemmeno loro sembrano volermi rivelare niente. So che abbassare lo sguardo significa dare conferma ad una nuova realtà che, per come stanno adesso le cose, si rivela purtroppo alquanto scomoda.
Prendo coraggio, e mi rivolgo con gli occhi al mio impavido avversario, che nel frattempo è rimasto lì ad attendermi, senza spostarsi di un solo millimetro.
Già lo sapevo, il verdetto non lascia scampo. Colpita e affondata, ancora una volta, anche da un'inanimato pennino di plastica che, per alcuni, è sicuramente portatore di un messaggio di infinita gioia, ma per me NO, non di sicuro ora.
Afferro il test con cattiveria, come potessi imputargli una qualche colpa e lo getto via, nel sacco della spazzatura che finirà esattamente dove sono finiti tutti quelli che contenevano i ricordi miei e di Daniele, quelli che ho gettato via assieme ad ogni speranza di costruire un futuro con lui.
Mi affaccio alla finestra e un brivido di freddo mi percorre tutta la schiena.
Solitamente sarei rientrata, o avrei indossato qualcosa di più pesante, ma oggi no, di certo non è questo che mi può scalfire, sono completamente anestetizzata, immune a tutto ormai.
A tutto, meno che alla mia nuova condizione.
Incinta. Sono incinta.
Più me lo ripeto e meno trovo un senso in questa parola.
Si allontana da me, sempre di più, come fosse un qualcosa di astratto, inumano, qualcosa che, di sicuro, a me non può toccare.
Eppure è così, questo ha detto oggi il dottor Lodi e questo mi ha appena confermato quel maledetto pennino di plastica celeste.
Una donna cammina dall'altra parte della strada, trainando una carrozzina. C'è un uomo accanto a lei, ha una mano appoggiata sopra la sua, ridono e chiacchierano felici, insieme.
Penso a Daniele, a quello che siamo stati e non potremo mai più essere.
Penso a cosa direbbe se sapesse che 'aspettiamo' un bambino, a cosa penserebbe. Penso alla faccia che farebbe Nora, e a quanto la notizia le darebbe fastidio. Sicuramente potrebbe farle quasi più male di quanto non abbia fatto a me scoprirmi cornuta e tradita dalle persone sulle quali contavo di più nella mia vita. Dopotutto un figlio è una cosa che lega due persone, le lega davvero, le lega per sempre.
Anche se non si vogliono più, anche se non si amano più.
Un impercettibile rivolo di piacere mi risale dal basso ventre, a questo pensiero.
Il cielo non è più terso come stamattina, dei grossi nuvoloni grigi si avvicinano all'orizzonte. Era prevedibile, considerando il vento freddo che ha tirato per tutta la giornata.
Mi giro verso l'enorme orologio che ho appeso sopra al divano, giusto nel mezzo. Afferma che sono le quattro, ma mi sembra impossibile di esser rimasta a fissare il nulla per ore fuori dalla finestra, persa in non so dire manco io quali pensieri.
In fin dei conti però, se prima segnava mezzogiorno, non può essersi di certo fermato alle prime luci del mattino.

Il resto della giornata è trascorso, tutto sommato, abbastanza veloce, o forse semplicemente non mi sono resa conto del tempo che passava, persa in una schiera infinita di pensieri.
Ho tentato invano di riprendere coscienza di me, stendendo la lavatrice e lavando la tazzina rimasta sporca da colazione, ma nemmeno le normali attività domestiche sembrano più le stesse. Abito un corpo che ormai non sento più mio.
C'è stato un momento in cui mi è addirittura passato per la mente di chiamare Daniele, ma fortunatamente, ho soppresso l'infelice e assurda idea direttamente sul nascere.
Ho appena chiamato la pizzeria di fronte casa ordinando una margherita, sarei voluta scendere a prenderla per respirare un po' di aria, ma ha iniziato a piovere a dirotto.
Non che io abbia molta fame, ma non ho messo nulla in stomaco per tutta la giornata e vorrei evitare di finire al pronto soccorso, mi gira la testa e ho pure la nausea, forse di riflesso a ciò che ho scoperto essere la mia condizione, ossia quella di donna in dolce attesa.
Cambio freneticamente i canali della televisione pigiando il tasto superiore del telecomando, in attesa della mia cena. Su la5 danno un film romantico e smieloso, uno di quelli che non guarderei mai e poi mai in questo periodo, ma mi ci soffermo, perché giro giusta nel momento in cui, la Lei di turno, sta dando alla luce il tanto desiderato pargolo, sorretta dall'amore del suo innamoratissimo uomo che, ovviamente, le sta accanto, piangendo commosso mentre gli si materializza davanti il miracolo della vita che lui stesso ha creato.
Scoppio in un pianto disperato, con la complicità forse di un ormone oramai non più troppo stabile, e proprio mentre mi appresto a tirare su col naso, suona il campanello.
Alzo il citofono e pigio sul pulsante che apre il cancello e pure il portone, imitando la segretaria dello studio medico e non chiedendo quindi al mio visitatore di annunciarsi.
So benissimo che è il fattorino con la pizza.
Apro la porta lasciandola socchiusa e corro fino la camera da letto, a recuperare i soldi che ho lasciato dentro alla borsa, per poi tornarmene verso l'ingresso sempre a passo spedito.
La porta si apre nello stesso istante in cui mi ci paro davanti.

Non è il fattorino con la pizza.

È Daniele.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top