Capitolo 19

La sveglia suona insistente.
Rotolo sul letto e il lenzuolo mi si attorciglia attorno, legandomi come un involtino e impedendomi qualsiasi movimento. Mi sbroglio dalla sua morsa e allungo un braccio per spegnerla. Sono le sette e mezzo.
Sbadiglio rumorosamente stiracchiandomi e mi metto seduta. La stanza è avvolta nella penombra e il silenzio è disarmante.
Mi alzo in piedi con poca decisione e per poco non scivolo sul tappeto grigio antracite che Daniele ha voluto sul pavimento a bordo letto.
Lo sfanculo mentalmente trascinandomi fino alla cucina. La tapparella del salotto è ancora alzata, fuori sembra essere una bella giornata.
Metto il caffè sul fuoco e filo in bagno per cominciare a prepararmi. Oggi è giorno di esami.
Riesco a essere miracolosamente fuori di casa alle otto e un quarto. Giusta in tempo per il tram dei diciannove e perfettamente in orario rispetto la mia tabella di marcia. Direi che questa giornata non poteva cominciare in modo migliore, ormai mi accontento di poco.
Il siluro rosso arriva regolare come un orologio svizzero.
Monto, e trovo pure un posto a sedere. Non male considerando che mi aspettano quaranta minuti di viaggio fino all'ospedale. La ragazzina bionda con le infradito ai piedi e le cuffie alle orecchie seduta di fronte a me guarda sorridente lo schermo del cellulare. Ha con se uno zainetto semiaperto, ci intravedo un costume e un asciugamano da spiaggia. Pensarla a breve spaparanzata al sole in riva al mare mi fa provare una leggera invidia.
Riporto lo sguardo fuori dal finestrino e mi concentro sulla città che mi scorre davanti.
Arrivo alla fermata di fronte all'ospedale alle nove meno cinque. L'appuntamento è alle nove e mezzo.
Proseguo per un centinaio di metri e mi infilo dentro un baretto squallido, ci sono solo due clienti e bevono birra doppio malto di prima mattina.
Mi accomodo nauseata al banco e ordino un caffè, rinunciando alla brioche perché pare alquanto rinsecchita. Deve avere minimo quattro giorni.
Qui dentro c'è una puzza tremenda, mi viene da vomitare. Bevo veloce poggiando appena le labbra sulla tazza, poi pago e scappo via.
Appena torno all'aria aperta mi sento subito meglio.
Respiro a pieni polmoni e mi avvio di buon passo verso l'ospedale. Devo fare gli esami del sangue per rilevare possibile mutazioni genetiche della fibrosi cistica, il dottor Lodi dice che fino qualche anno fa non era un esame obbligatorio ma si è rivelato essere estremamente importante.
Salgo con l'ascensore fino al centro prelievi, al secondo piano.
Le porte si aprono facendo un 'Din'.
Entro a passo insicuro nella sala d'attesa rivolgendo lo sguardo al banco dell'accettazione. Una donna occhialuta di circa quarant'anni mi guarda da dietro lo sportello con il suo sporgente naso acquilino.
Faccio un lungo respiro e la raggiungo.

-Prego- mi dice, mostrandomi il palmo della mano aperta come a richiedere l'impegnativa.

-Buongiorno. Ecco qua- le dico, consegnandogliela.

La osserva per qualche secondo, pigia violentemente sulla tastiera del computer e poi rialza lo sguardo.

-Prego. Può accomodarsi. Questo è il suo numero- conclude, porgendomi distrattamente un bigliettino con riportato il numero 41B.

Lo afferro ringraziandola e mi giro vagando con lo sguardo in cerca di un posto a sedere.
Lei è lì, e mi sta fissando. Come i miei occhi incrociano i suoi abbassa fugacemente lo sguardo. È Nora.
Posso percepire chiaramente i battiti del mio cuore che si espandono sovrastando il brusio della sala d'aspetto.

Ora non posso farlo. Ora non posso scappare.

Stringo la lingua fra i denti in cerca di un coraggio che so di non avere nemmeno nascosto da qualche parte e avanzo di qualche passo sedendomi nella prima sedia utile. Ovviamente dandole le spalle.
Sto tremando, credo potrei svenire. Provo con gli esercizi di respirazione per calmare l'ansia ma niente, il cuore continua a voler uscire dal petto. Ogni sforzo per mettermi un minimo tranquilla è perfettamente inutile.
L'atroce pensiero che possa capire qualcosa circa la mia situazione vedendomi lì, mi balena per un secondo nella testa ma, fortunatamente, posso scacciarlo subito, dopotutto gli esami del sangue li possono prescrivere a chiunque.
Il tabellone digitale appeso al soffitto della sala emette un suono di richiamo e cambia numero. 37B.
Nora si alza e cammina titubante fino agli ambulatori, non girandosi palesemente a guardarmi ma spiandomi comunque di sottecchi.
La osservo anch'io, con la coda dell'occhio, fino a che non sparisce all'interno di uno degli stanzini.
Anche a lei avranno prescritto gli esami per la gravidanza, di sicuro sarà qui per questo. Non posso fare a meno di chiedermi come se la starà vivendo.
Mi chiedo quali siano le sue sensazioni, le sue emozioni.
Chissà come sarebbe andata se il figlio che ha in grembo non fosse stato di Daniele, chissà come sarebbe stato poter condividere la gioia di questa attesa.
I minuti passano lenti e inesorabili e i pensieri mi affollano il cervello.
Nora risbuca fuori dagli ambulatori a testa bassa e sgattaiola via. L'infame. La codarda.
Tiro un sospiro di sollievo sentendomi sollevata dal non trovarmi più nella stessa stanza in cui si trova lei.
Il tabellone digitale continua lento ad avanzare. Venti minuti dopo, esce finalmente il 41B. Mi alzo di scatto dalla sedia e raggiungo a mia volta gli ambulatori. Solo che io non lo faccio a testa bassa, anzi, la alzo forse a dismisura, fiera.
Fiera, perché non sono una persona di merda come quella che è uscita poco fa.

L'esame, tutto sommato, è stato rapido e relativamente indolore. Un pizzico e via.
Esco dalla porta principale dell'ospedale e cammino rimuginando fino alla fermata.
Il tram sarà qui fra sette minuti.
Chiudo le palpebre inspirando lentamente per poi riaprirle esattamente un attimo prima di ributtare fuori l'aria.
Mi rivedo gli occhi imbarazzati di Nora davanti, per un momento. Chissà cosa avrà provato nel vedermi lì, chissà cosa avrà pensato.
Mi stringo nelle spalle risentendo ciò che invece ho provato io e abbasso lo sguardo fissando una gomma americana spiaccicata sul marciapiede.
Il siluro rosso arriva puntuale, questa volta pieno zeppo di gente. Mi inserisco a fatica fra la calca, imprecando mentalmente. Fa un caldo incredibile e c'è un puzzo tremendo.

Resto schiacciata quasi senza respiro per tutti i quaranta minuti.
Giunta a destinazione, mi divincolo fra la massa di persone a fatica, e riesco finalmente a smontare.
L'aria è calda e soffocante ma mi sento comunque più libera.
Attraverso la strada facendo attenzione e tiro fuori le chiavi raggiungendo di buon passo il cancello.
È quasi ora di pranzo e, per fortuna, non incrocio nessuno.
Il silenzio che mi accoglie appena apro la porta di casa è a dir poco sconfortante. Sospiro togliendomi le scarpe e mi trascino fino in camera a spogliarmi.
Il letto è ancora sfatto, questa mattina sono voluta uscire per tempo e ho riservato tutte le faccende per il mio ritorno.

Che palle

Sistemo le lenzuola controvoglia e mi ci getto sopra a peso morto fissando il soffitto.
La stronza mi ripassa davanti, ancora una volta.
Questa volta però non abbassa la testa, ma mi lancia uno sguardo crudele, di sfida.
Il cuore mi si blocca e mi paralizzo.
È sempre stata lei la più forte tra le due, è sempre stata lei ad avere la meglio in ogni occasione. Ha sempre voluto vincere, ha sempre voluto prevalere, nonostante professasse a gran voce quanto speciale e importante fosse la nostra amicizia.
Non me ne ero mai veramente resa conto. È pazzesco.
Mi giro sul lato rivolgendo lo sguardo allo spazio vuoto affianco a me. Ci rivedo steso Daniele per un attimo, addormentato.
Parte una morsa stretta proprio lì, dove sta il cuore. Le lacrime spingono forte per uscire, affondo la testa nel cuscino nel tentativo di soffocarle, inutilmente.

Arriva un messaggio.
Rotolo con fatica nel tentativo di recuperare il cellulare dal comodino. Allungo il braccio e lo afferro con la punta delle dita.
Mi sfrego gli occhi cercando di recuperare in parte la vista. Sono appannati dalle lacrime.

La notifica sullo schermo mi appare davanti non appena sblocco la tastiera.

È Nora.

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