Capitolo 17
Cammino sfrecciando per la via.
Ho il tram fra due minuti e il prossimo non lo voglio davvero aspettare.
Le vetrine dei negozi si susseguono alla mia sinistra, gli articoli esposti sono quasi impercettibili alla velocità del mio passo, ammassi informi di colori perfettamente coordinati.
Attraverso la strada senza nemmeno controllare che non passino macchine.
Una Ford Fiesta guidata da una donna per niente giovane inchioda di colpo, a pochi centimetri dal mio fianco destro. Mi giro lenta, negli occhi ho il terrore.
La guidatrice attempata mi guarda furente, urla qualcosa di cui posso leggere solo il labiale -Vaffanculo troia- pare esclamare, poi ingrana la marcia, mi scansa e se ne va sgommando, investendomi in una nube di fumo da tubo di scarico vecchio e malandato. La fisso mentre si allontana, restandomene ferma immobile al centro della carreggiata.
Un clacson mi riecheggia sulle orecchie, risvegliandomi di colpo dal mio torpore.
Riprendo il passo e raggiungo il marciapiede, ancora scossa. Un signore baffuto che porta a spasso un simpatico cagnolino mi guarda preoccupato. Fuggo ai suoi occhi e proseguo fino alla fermata, camminando a testa bassa.
Nei miei pensieri ora abita pure uno sconosciuto di cui non reggo lo sguardo che, non si sa bene per quale motivo, mi sto pure per amicare.
Ancora non mi spiego come sia possibile che io gli abbia prospettato la possibilità di trasferirsi sopra il mio appartamento. Devo essere uscita di testa, oh sì, completamente anche.
Il tram è in ritardo di dieci minuti, è segnalato sul tabellone digitale. Probabilmente c'è stato qualche incidente e si è bloccato il traffico, o magari un guasto, succede spesso ultimamente.
Mi siedo nell'angolino della panchina libera sulla pensilina.
Il cielo si sta oscurando, nuvoloni grigi carichi di pioggia avanzano velocemente all'orizzonte. Una folata di vento freddo mi spettina disordinatamente i capelli. Sbuffo l'aria con la bocca per scostare il ciuffo che mi si è insinuato fra naso e occhi.
Una signora cicciotella rincorre goffamente delle carte che le si sono sparpagliate tutt'intorno, mentre il figlio, che avrà appena sei anni, ride divertito puntandole il dito contro.
Un tuono rompe il brusio della gente inquietando gli animi.
Un tipo alto, per niente attraente, dice alla donna che è con lui, probabilmente sua moglie, che ha fatto bene a consigliarle di mettere lo stendino con la biancheria appena stesa dentro casa. Lo guardo per un istante. Gli avrei voluto dire che ha proprio ragione, che anch'io avrei voluto un uomo al mio fianco che me lo avesse consigliato, perché la mia, di biancheria, di pioggia invece ne prenderà tanta.
La prima cosa che mi arriva è l'odore.
L'odore di pioggia, di acqua morta e stagnante, di asfalto bagnato, di terriccio umido. Quell'odore erboso, quasi legnoso. Il petricore.
Il tram mi ha mollata sotto casa e, ovviamente, ha appena iniziato a piovere.
Mi accalco alla massa per sgusciare fuori dalla porta e mi cimento in una corsa disperata, conscia di essere destinata all'annegamento.
Le macchine sfrecciano senza la minima intenzione di lasciarmi passare, ma io sfido il pericolo e mi ci lancio comunque in mezzo.
-Cretina!- urla un isterico idiota, dal comodo e asciutto interno della sua Panda.
Vorrei girarmi a sfancularlo, ma il desiderio di entrare in un posto coperto e asciutto è di gran lunga più sentito.
Il cancello è aperto.
Taglio il giardino condominiale alla velocità della luce e mi lancio come un missile dentro il portone.
Connubio perfetto. Casa - pace - silenzio - asciutto.
Saltello fradicia su per le scale, ripensando al mio strano incontro fatto in gelateria, anzi, alla serie di strani incontri fatti negli ultimi tempi.
La signora Tommasi mi appare davanti all'improvviso, avvolta in una tuta triste di color marrone. Ha gli occhi lucidi e l'aria stanca.
-Oh, buonasera Melissa.- dice, con voce tremante.
-Buonasera- rispondo, accennandole un sorriso -piove a dirotto, le conviene prendersi un ombrello- le dico, osservando le sue mani vuote.
Mi guarda con gratitudine -Oh, non ne ho bisogno- risponde -sto andando dalla signora Meli a ricamare- aggiunge -lo facciamo sempre insieme, difatti tengo tutte le mie cose giù da lei-
Accenna a sua volta un sorriso timido che le dona davvero tanto. Le si sono illuminati gli occhi parlando della signora Meli, evidentemente le fa lo stesso effetto rassicurante che fa a me, nonostante debbano essere quasi coetanee.
-È una giornata perfetta per ricamare- esclamo, salendo di un gradino.
Ma poi mi fermo di scatto, e mi illumino -Ah! A proposito! A casa della signora Meli c'è ancora la sua coperta. Anzi, a dire il vero ne colgo l'occasione per ringraziarla, mi sento in imbarazzo per non averlo ancora fatto!-
Livia Tommasi mi guarda perplessa -Di quale coperta parli, cara?-
La testa comincia a girare. Forte. Sempre più forte.
Non è stata lei, non è stata lei a coprirmi. Un forte e atroce dubbio mi si insinua dentro, imponente, arriva a toccarmi fino al profondo delle viscere, e si incastra lì.
-E..e non ha nemmeno comprato dei fiori, l'altra mattina?- la voce ora trema a me.
-No, signorina Greco- mi sta guardando aggrottata. -Va tutto bene?-
NO! No che non va tutto bene, non va bene proprio niente!
-Si- dico, stravolgendo la realtà- una notte mi sono chiusa fuori, e mi sono appisolata sul pianerottolo- arrossisco e abbasso lo sguardo, rendendomi conto di quanto possa sembrare assurdo ciò che le sto raccontando -quando mi sono svegliata, al mattino, mi sono trovata coperta- respiro a fondo, conscia del fatto che la verità non gliela posso dire -comunque deve avermela messa addosso il signor Giordano- esclamo, dandomi un'aria convinta -appena torna dall'ospedale gliela torno-
Lo sguardo le si fa cupo -Eh, chissà per quanto ne avrà poverino- dice, scuotendo la testa. -A quanto ho capito deve stare davvero male- continua - non credo tornerà a casa molto presto-
Abbasso lo sguardo trafitta dalla notizia.
Non ci siamo mai presi più di tanto io e Ernesto Giordano.
Una volta che ci siamo concessi di fare una cena fra amici, poco meno di un anno fa, ed è stato capace di mandarci una pattuglia di polizia alle ventidue e trentacinque minuti. A quanto pare, stavamo facendo troppo chiasso, secondo lui. Peccato che il figlio di una coppia di amici dormisse nella stanza affianco e fossimo quindi in rigoroso silenzio. Comunque. Tant'è.
Va sapere poi cosa aveva sentito. Ricordo però che mi aveva fatta incazzare di brutto. Oh sì, davvero di brutto.
Quando lo incontravo per le scale lo salutavo a muso duro, e la storia è andata avanti per parecchi mesi.
Ma a immaginarlo gracile e indifeso, disteso sul letto estraneo di un ospedale mentre muove dolorante i suoi crespi baffi grigi e lotta contro chissà che male mi si rompe il cuore in tanti piccoli pezzetti.
Trattengo il respiro e le lacrime si incastrano dentro gli occhi, facendoli arrossare. Bruciano come se qualcuno mi ci stesse dando fuoco.
Espiro lentamente l'aria per tentare di ricompormi.
-Ho trovato un possibile acquirente per l'appartamento- dico, deglutendo a fatica -è un ragazzo che non conosco molto, ma mi ha fatto comunque una buona impressione-
Lo penso veramente? O lo sto dicendo così, tanto per dire?
-Mi ha lasciato il suo numero- continuo -se le interessa glielo lascio-
Livia Tommasi mi sta guardando soddisfatta. -Sapevo di poter contare su di te Melissa, sei sempre così cara- esclama sfiorandomi una guancia teneramente -lo hai qui il numero?- chiede
-Si- rispondo, dopo un attimo di défaillance. Frugo per un momento nella tasca. -Eccolo- dico, porgendoglielo.
-Oh, grazie mille Cara. Sei proprio una brava ragazza- comincia a scendere le scale -Lo contatto e poi ti facci sapere- dice, quasi alla fine della rampa -Buona serata cara-
-Buonaserata, signora Tommasi-
Non ci posso credere, gliel'ho dato, gliel'ho dato veramente.
Saltello salendo gli ultimi gradini. La Luce delle scale si spegne.
Cazzo.
Cammino lentamente nel buio, questa sera ha fatto scuro prima complice il tempo, e cerco a tastoni l'interruttore della luce.
Mi pungo una mano. Qualcosa mi ha pizzicata, forse un insetto, mi è parso di sentirne il corpo, gamboso e filiforme. Al solo pensiero di averlo sfiorato mi sento svenire.
Magari accendo la luce e mi salta addosso.
Trovo finalmente il pulsante e lo premo.
Petali. Petali rossi.
Una rosa, un'altra. Questa volta attaccata li, proprio affianco al campanello dove è rimasto scritto solo il mio nome. Una rosa piena di spine, forse messa appositamente per pungere.
I battiti accelerano spasmodicamente, la paura si fa forte, intensa, frustrante.
Un rumore di passi lontani riecheggia alle mie spalle.
Il tempo sembra come essersi fermato. Il sangue pompa risalendo vorticosamente fino ad esplodermi nel petto, proprio lì, dove c'è il cuore.
Vorrei muovere le mani, frugare nella borsa, recuperare le chiavi. Ma sono paralizzata. Nessun muscolo risponde nemmeno al più semplice comando.
Qualcuno si avvicina, li sento i passi, sempre più forti, sempre più pressanti.
Ormai è quasi qui, sento il suo respiro, lo sento alle mie spalle...
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