Capitolo 11
Schiudo gli occhi lentamente.
È buio pesto attorno a me. Deve essere notte fonda.
Giro lentamente la testa verso il comodino. I numeri Rossi sulla sveglia digitale segnano le ventidue e cinquantaquattro minuti.
Devo essere svenuta, e sono rimasta in collasso per un bel po', considerando che l'ultimo ricordo che ho risale alle quattro del pomeriggio.
Rotolo fino all'estremità del materasso e accendo l'abat-jour. Una tenue luce rosata illumina subito la stanza. Osservo la porzione del letto sulla quale sono stata distesa fino a poco fa. È fradicia.
Mi gratto la testa come potesse servire a rimettere in moto le funzioni cerebrali e mi costringo ad alzarmi in piedi.
Ho bisogno di fare una doccia, devo levarmi via il sudore che mi si è impregnato sul corpo.
Raggiungo il bagno appoggiandomi alla parete del piccolo corridoio che lo separa dalla stanza da letto. È tutto sotto sopra. L'accappatoio color salmone buttato disordinatamente sul mobiletto affianco al lavandino, i trucchi sparsi un po' ovunque alla rinfusa, la spazzola piena zeppa di capelli sulla mensola sotto lo specchio, proprio lì dove non dovrebbe stare. Per non parlare poi della montagna di vestiti da lavare, accumulati inesorabilmente fra una sudata e l'altra.
L'unica cosa su cui aveva ragione Daniele è che questa casa necessita assolutamente dell'aria condizionata. D'estate si schiatta.
Avremmo dovuto installarla a breve, ma non abbiamo fatto in tempo, e ora che sono rimasta sola per me sarebbe una spesa improponibile.
Mi lavo velocemente poi, anche se non nel pieno delle mie forme, zampetto fino alla cucina alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Operazione frigo fallita.
Dentro c'è solo un limone che ormai è diventato un ammasso puzzolentissimo di colore verde, mantiene quasi la forma originale solo perché è immobile, dovesse solo percepire una leggera vibrazione d'aria sfumerebbe in una nube di polvere. Trattengo il respiro per evitare di svenire di nuovo.
La nausea però non la fermo, quella si fa sentire, forte e prorompente come non mai in meno di un secondo. Non faccio nemmeno in tempo a chiudere l'anta del frigo. Lo sforzo arriva, senza che io possa in alcun modo frenarlo, l'acidità risale dallo stomaco come lava in un vulcano in piena eruzione. Questione di un attimo e sporco pavimento e anche parte dell'interno del frigorifero. Il pensiero di doverci poi mettere le mani per pulire per poco non mi fa vedere il buio di nuovo.
Vaffanculo!
Getto via il limone mantenendo l'apnea, onde evitare di ripetere il triste avvenimento appena accaduto e lancio il sacchetto fuori in terrazza.
Libera. Ora posso respirare.
Ritorno a testa bassa verso la cucina rassegnata all'idea che la dovrò disinfettare e, alla vista del liquido melmoso, mi torna in mente il messaggio di Nora. Quello che non sono nemmeno riuscita ad aprire. Quello che mi ha fatta sentir male.
Mi sforzo di capire quale possa essere il motivo che l'ha spinta a scrivermi, cosa dovrà mai dirmi? Vuole forse informarmi della sua gravidanza? No grazie, non me ne frega un cazzo.
No. Non è vero, in realtà me ne frega, tantissimo, ma loro non lo devono sapere, non lo devono capire.
Vorrei sapere ogni cosa, in quante settimane è, se davvero lo hanno cercato, cosa provano e cosa hanno provato. Non lo so perché, forse per farmi ancora più male, o forse per rendermene conto veramente.
Mi sono inginocchiata e ho pulito a fondo il vomito su frigo e pavimento, strofinando come se dovessi farci un solco. Mi sono fermata solo quando non sentivo più le braccia e per fortuna, dico io, altrimenti sarei andata avanti fino a mattina.
Quando mi sono tirata in piedi mi sono sentita come svuotata. Non pensavo più a niente, non sentivo più niente.
Ho percorso il salotto e il corridoio a passo spedito poi, una volta arrivata alla porta della camera mi sono fermata, e l'ho guardato.
Il telefono era lì, sopra il letto, immobile ad aspettarmi.
Era lì ed è lì ancora.
Saranno passati cinque minuti e io ancora devo fare un passo. Continuo a guardarlo senza riuscire ad avvicinarmi eppure, non riesco a provare niente. O forse sto provando talmente tante emozioni tutte assieme che si ammutinano l'una con l'altra. Non lo so. Fatto sta che qui ferma non posso restare.
Chiudo gli occhi inspirando profondamente poi, una volta fatta uscire l'aria, li riapro decisa e mi convinco finalmente ad avvicinarmi.
Lascio appoggiare le natiche al bordo del letto molto lentamente, non staccando gli occhi dal mio Samsung per un solo istante poi, poco convinta, allungo la mano tremante e lo afferro.
La notifica del messaggio di Nora è sempre là.
Mi ha cercato anche mamma, ben tre volte. Avrà provato a chiamare anche a casa e sarà preoccupatissima. Mi riprometto di avvisarla poi, con due righe, e clicco titubante sulla bustina chiusa.
Una frazione di secondo e il testo compare chiaro e conciso davanti ai miei occhi.
'Ciao Melissa. So che potrebbe sembrarti strano ricevere un mio messaggio, specie dopo la visita di Agnese. Sono consapevole del dolore che provi e posso capire che tu non riesca a cedere alla rassegnazione, ma arrivare a pedinarci mi sembra un atteggiamento esagerato. Oltretutto può servire solo a farti più male. So che ti posso sembrare dura, ma credo sia l'unico modo. Comincia a pensare a te stessa, te lo dico da amica, perché comunque siano andate le cose, IO TI VOGLIO BENE.'
Sono sconvolta.
Giuro, credo di non avere più la mandibola, dev'essere finita dritta per terra.
'Sta maledetta stronza!
Amica? Ti voglio bene?? Pedinamenti??? Rassegnazione????
No, questa sta dando completamente i numeri. Non riesco a spiegarmi con quale coraggio sia arrivata a scriverle certe cose, è pazzesco. Che poi pretenda di sapere cosa possa o meno farmi ancora più male mi manda letteralmente in bestia.
In ogni caso significa che deve avermi vista. E se mi ha vista lei, allora mi vista pure Daniele.
Non ci posso credere.
Hanno pensato che fossi lì per loro, che lì stessi seguendo.
Lancio il telefono sul letto presa da un impeto di rabbia e mi alzo di scatto.
So che è tremendamente sbagliato, faccio schifo e non dovrei farlo, ma non ce la posso fare, non questa volta. Mi infilo i pantaloni della tuta e scendo in strada diretta al distributore automatico delle sigarette. Compro un pacchetto da venti di Marlboro, perché da dieci non li fanno più e, dopo averlo scartato in fretta, ne accendo una con l'accendino che mi sono messa in tasca prima di uscire.
Dopo il primo tiro sbuffo la nuvola di fumo nell'aria e mi illudo che il peso che mi sta comprimendo il petto si allenti almeno un po'. Aspiro a pieni polmoni la mia bionda velenosa finendola in sei o sette tirate. Poi, presa dai sensi di colpa, stritolo il pacchetto e lo getto nel cestino della spazzatura al lato della strada.
Risalgo i cinque piani aggrappandomi al corrimano, la testa continua a girare e quasi non mi sembra di essere sveglia. Quando arrivo finalmente alla porta del mio appartamento, si spegne la luce delle scale.
Cerco l'interruttore tastando con la mano, visto che la spia che lo segnala è rotta da un pezzo e, una volta riguadagnata la vista della porta di casa, mi rendo conto di essermi dimenticata le chiavi.
No. No no no no.
Il panico.
Mi sono chiusa fuori, è mezzanotte passata, e prima di domattina non posso sicuramente andare a recuperare il doppione a casa di mia madre.
Sospiro rassegnata battendo delicatamente la testa al muro sul quale mi sono appoggiata di spalle per evitare di svenire di nuovo, e mi lascio scivolare lentamente giù, fino a finire col culo sul pavimento a gambe incrociate.
La luce del pianerottolo si spegne di nuovo.
Non ci arrivo ad accenderla da qui, e non ho né voglia né forza di rialzarmi.
Pazienza.
Cerco di chiudere gli occhi inclinando leggermente la testa sulla sinistra ma passano nemmeno due minuti e non mi sento più il collo. Lo piego delicatamente prima da una parte, poi dall'altra per cercare di sbloccarlo e poi, sicura del fatto che hanno pulito a terra la mattina, mi stendo accovacciata a fianco al tappetino rosso con scritto 'Welcome' che Daniele ha comprato per l'ingresso.
Le luci della strada filtrano delicate dai finestroni dell'atrio. Chiudo gli occhi e mi ritornano davanti le parole di Nora. Una fitta allo stomaco mi aggredisce prepotente.
Scaccio forzatamente il malsano pensiero e comincio a domandarmi se posso davvero essere al sicuro lì, accoccolata come un passerotto caduto dal nido appena a due passi dalla tromba delle scale.
Se le assurde teorie della Malli e della Meli fossero fondate, potrei anche pensare che un oscuro balordo si stia muovendo nell'ombra e arrivi all'improvviso, cogliendomi nel sonno...
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