Ho raggiunto Cristina Malli e Alda Meli con il passo tipico dello studente che si appresta a confrontarsi con i professori il giorno dell'esame. Poi, mio malgrado, mi sono fermata ad ascoltare ciò che avevano da dire.
A quanto pare pure Cristina avrebbe visto il misterioso balordo che si aggira per i corridoi del nostro condominio.
Non mi stupisce, lei vede sempre tutto. Anzi, mi sembra strano che non lo abbia notato per prima.
Mi sono dovuta trattenere per dieci minuti buoni, a sentire le assurde supposizioni delle due. La Malli sostiene che deve per forza essere qualcuno che viene da fuori città e che non deve avere più di trent'anni. Con l'età lei ci prende sempre, dice.
È moro, ne è sicura, lo ha visto pure senza il cappuccio, ma la faccia no, quella non c'è riuscita a scorgerla.
Entrambe concordano nella teoria che sia un pericoloso malintenzionato e lo hanno visto già ben tre o quattro volte, la signora Meli di una non si ricordava bene.
Mi sarei voluta mettere le mani fra i capelli, ma ho evitato, per educazione.
È stato il signor Giordano, con il suo arrivo, a salvarmi. I due avvoltoi hanno individuato una nuova preda e mi hanno lasciata andare.
Per fortuna, non credo le avrei rette un minuto di più.
Ho salito i cinque piani che conducono al mio appartamento il più velocemente possibile, onde scongiurare qualsiasi altro incontro e, quando finalmente mi sono chiusa la porta di casa alle spalle, mi sono lasciata andare in un pianto disperato.
Litri e litri di lacrime hanno solcato le mie guance, ininterrottamente.
Ho rivisto Daniele guardare Nora, la sua Nora, raggiante.
Io non ricordo nemmeno quando è stata l'ultima volta che mi ha guardata così. Se mi ha davvero mai guardata in quel modo.
Io non ne ho memoria.
A pensarci bene, specie nell'ultimo periodo, non ci si guardava praticamente più, nemmeno io gli riservavo chissà che attenzioni, questo lo devo ammettere. Convivevamo da più di due anni, entrambi ci siamo dati per scontati, sbagliando, e via via il rapporto si è logorato sempre di più. Fino ad arrivare al capolinea.
Come ci sia finito poi, fra le braccia di Nora, resta a tutt'oggi un mistero. Ma ho deciso di non pormi troppe domande, la mia testa è già abbastanza incasinata così.
Ho pianto per un'ora buona girando come una pazza per la casa, con l'immagine di loro felici e soddisfatti stampata davanti la faccia che non mi ha mollata un solo minuto poi, allo stremo delle forze, mi sono lasciata cadere sul divano sprofondando la faccia sul cuscino, ovviamente beige, che si è rovinosamente macchiato con il rimmel ormai sciolto.
Ma si... Chissenefrega!
È arrivato un messaggio.
Riemergo dal limbo con non poca fatica e mi metto a sedere. Il telefono è sopra al tavolo della cucina, l'ho appoggiato lì prima, e non ho assolutamente la forza per alzarmi a recuperarlo. Mi stropiccio gli occhi stanchi e provati, poi mi prendo la testa fra le mani e la stringo leggermente. Di solito aiuta a far diminuire l'emicrania, perlomeno a me.
Questa volta però non funziona, almeno non più di tanto.
C'è troppo silenzio qui dentro, riesco a percepire troppo chiaramente il rumore dei miei pensieri, e non sopporto il trambusto che fanno.
Accendo la televisione nel tentativo di ammutolirli, senza però riuscirci veramente. Le immagini si susseguono sullo schermo, anche se io percepisco solo macchie informi sullo sfondo, che cambiano ritmicamente di forma e colore ma, se non altro, posso illudermi che mi tengano compagnia.
Il grande orologio appeso sopra al divano segna le quattro.
Faccio un lungo sospiro e mi convinco ad alzarmi. La testa gira, prepotente, ho anche una forte nausea ma non me ne ero accorta fino a che sono rimasta seduta.
Mi appoggio per un attimo al tavolo della cucina chiudendo gli occhi e cerco di ricompormi.
Respira Melissa. Respira, lentamente.
Meglio.
Ora anche la vista pare più nitida, prima mi si era addirittura appannata.
Prendo in mano il cellulare. È spento, si è scaricato.
Poco male, se qualcuno deve cercarmi con urgenza ho un telefono fisso apposta. Daniele ha insistito tanto perché lo installassimo, io non ne ho mai avuto uno, nemmeno a casa di mia madre.
Il cellulare basta e avanza, se non voglio rotture di palle lo spengo e buonanotte, c'è sempre una buona scusa, può essere scarico. Ma se stacchi quello di casa no, se stacchi quello di casa è palese che le persone non le vuoi sentire e allora fai la figura dello stronzo associale con la puzza sotto il naso, di quello che snobba coloro che si interessano e preoccupano per lui, insomma, 'na catastrofe.
Però lo ha voluto per forza, e quindi, è andata per il telefono fisso.
L'avessi saputo che sfarfallava fra le lenzuola di Nora, col cazzo mi sarei sobbarcata di un impiccio del genere, di questo, come di tanti altri. Della maggior parte delle cose mi sono fortunatamente liberata, ma staccare di punto in bianco la linea a casa significherebbe dare il via ad una serie infinita di domande (soprattutto da parte di mia madre, che nel frattempo si è fatta il fisso a sua volta) alle quali non voglio assolutamente rispondere. Non per adesso almeno.
Cammino adagio, onde evitare che la testa cominci a girare di nuovo e mi spingo fino la camera da letto.
Il caricabatterie è attaccato alla presa dietro il comodino, sta sempre lì e non lo stacco praticamente mai. Si, so che è sbagliato e continua a mangiare corrente inutilmente, ma è una cattiva abitudine, comunque comoda, di cui non riesco a sbarazzarmi.
Mi lancio letteralmente sul letto planando sul lenzuolo con i delfini che a Daniele piaceva tanto e mi sporgo senza spostare il corpo per afferrare il filo.
Preso.
Meno di un minuto e posso riaccendere il cellulare, anche se stavo discretamente bene pure senza, ad essere sincera. Non sono in vena di parlare con nessuno, oggi davvero non posso farcela.
Sbarro gli occhi all'improvviso.
E se fosse Carla?
Ormai è da più di una settimana che sono in malattia e non mi sono mai fatta sentire per aggiornarla sulle mie condizioni. Sarà incazzata nera conoscendola.
Il panico scaturito da questa riflessione mi da la carica necessaria per mettermi seduta e accendere il telefono.
Il cuore mi sta battendo forte, in un modo totalmente diverso da quando ho incrociato gli stronzi, ma batte comunque troppo forte.
Mi manca anche di perdere il lavoro, poi si che sono veramente fottuta!
Premo il tasto dell'accensione tremando a questo terribile pensiero. I secondi di riavvio sono lunghi, interminabili.
Chiede il Pin.
Il pin. Ah sì, il pin.
Digito le quattro cifre che mi separano dal temuto messaggio.
Andata, sono corrette.
Con l'ansia che mi ritrovo mi stupisco di essermele ricordate, oltretutto io, il cellulare, non lo spengo praticamente mai. È sempre silenzioso, ma non lo spengo mai.
Quindi il pin lo digito raramente, troppo raramente, ci sta che posso pure dimenticarlo, specie in un momento come questo.
Fortunatamente (o sfortunatamente, a seconda dei punti di vista) non è accaduto.
La notifica appare chiara sullo schermo. Nora.
Sono paralizzata.
Fisso lo schermo senza riuscire a muovere un solo muscolo, solo il cuore ha accelerato, vedo la maglietta che si alza al ritmo dei suoi battiti con la coda dell'occhio.
Fa caldo, tremendamente caldo.
Stringo il mio Samsung S4 come se le mani mi si fossero improvvisamente trasformate in tenaglie e non le comandassi più io.
Provo a deglutire ma non ci riesco. Ho la bocca completamente arida, asciutta, ho bisogno di bere, devo farlo subito. Le orecchie cominciano a ronzare forte, sempre più forte, mentre rivoli di sudore scendono copiosi dalla fronte. Sto tremando. Si, sto tremando e non riesco a fermarmi, mi viene da vomitare, ma non posso alzarmi, non ne ho la forza.
La vista si sta appannando. Si sta appannando sempre di più e fa sempre più caldo.
Non ci vedo.
Non ci vedo più, tutto è bianco, fa caldo, è tutto bianco, mi viene da vomitare. La testa gira, non la smette più, sta girando sempre più forte, buio!
È tutto buio. Un tonfo. Sul morbido, ma un tonfo. C'è solo buio.
Non vedo più niente.
Non sento più niente.
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