「31/08/1864」

12.

Buttò all'aria i fogli di carta malamente scarabocchiati: si vedeva che erano stati scritti nella fretta di buttare giù ciò che la mente voleva dire. Si buttò con la schiena sul letto.

In quell'ultimo giorno di agosto la giornata era ritornata ad essere molto più corta rispetto alle lunghe ore di sole di luglio, con quella calda luce che gli penetrava nelle ossa.
Nostalgia di quell'estate, che aveva buttato all'aria come quei fogli di carta.

Ma in quei fogli di carta stava scritto tutto quello che era riuscito ad ottenere in quell'estate e che l'aveva fatto stare bene.
Cos'era il rancore? Come se l'avesse dimenticato, ma come se fosse sempre rimasto dentro di lui. Sapeva che se qualcuno l'avesse stimolato esso sarebbe nuovamente uscito dalla grotta nella quale l'aveva malamente cacciato. Osservò il soffitto con un braccio a penzoloni fuori dal letto, concentrandosi i mattoni malandati nei vari angoli, assieme alla polvere e allo sporco che copriva l'originario intonaco bianco. Si rese conto, con una nota di rimpianto, di come quell'ambiente fosse danneggiato proprio come colui che ci abitava. Quante altre notti sarebbero state belle come quelle di luglio? Neanche una.

Quell'uomo che scappava dal mostro, nei fogli da lui scritti a casa di Taehyung, adesso scappava da qualcosa di più grande.
Non gli importava più se avrebbe mai avuto successo con la scrittura e ripagato suo padre come da lui ordinato — come comandato dall'ossessione dalla quale non era più in grado di fuggire, oppure se sarebbe stato dimenticato dal mondo intero. Morto, sepolto in una tomba comune senza nome, un sacco vuoto e privo del suo passato.
In quel suo racconto, l'uomo, di cui non viene mai detto il nome, era Jungkook stesso, con le sue paure e tormenti.

Non era più l'autore, ma il protagonista.
Scriveva per mettere su carta sfoghi e pensieri su cosa sarebbe potuto succedere se avesse scelto altre decisioni o risposto in altre maniere nei ricordi che gli affioravano. I ricordi erano l'unica cosa che fungeva da ispirazione, ormai.

Chissà come sarebbe finito il suo libro.
Era giunto al punto in cui, grazie ad un altro personaggio, il co-protagonista, era riuscito a scoprire i sotterranei di quella città fantastica, tuttavia si era accorto troppo tardi di essersi perso dato che voleva sempre andare in giro per quei luoghi spettacolari: si era innamorato di quello che le precedenti civiltà avevano lasciato sottoterra e non riusciva a farne più a meno.
Vi era bellezza ovunque e ne era meravigliato.
Eppure stava rischiando di morire di fame, di sete e di paura stando rinchiuso in quella cella.

Quando rileggeva le parole che aveva scritto gli sembrava di vedersi allo specchio, come se in quel momento ce l'avesse di fronte a sé: si aggiustò sul letto con le gambe incrociate e le braccia che tenevano i piedi l'uno attaccato all'altro e giurò di poter vedere il suo riflesso, la linea delle sue labbra, i capelli che gli coprivano gli occhi. Si strinse lo stomaco con il braccio, avvertendo una belva divorarlo dall'interno, provocandogli delle fitte corporee.
Voleva tanto descrivere ciò che riusciva a percepire, voleva scrivere di getto, così come accade quando si immortala un momento nella propria memoria: almeno così sarebbe stato eterno, più eterno di una raffigurazione ad olio di famosi artisti, le quali mani erano in grado di rappresentare le figure da loro osservate così come lo erano nella realtà.

Voleva possedere il proprio pennello e il suo tratto con il quale apporre la personale firma.

Doveva smetterla di pensare in modo così contorto e fare voli pindarici da una parte all'altra del filo del discorso.
Si sentiva idiota! Farsi trascinare dal corso implacabile dei propri pensieri, senza avere un minimo di supremazia su di essi, come se non fosse il loro vero padrone, ma fossero loro i suoi padroni.
Come se fosse una marionetta guidata dal flusso delle proprie idee. Se fosse stato in grado di controllarli, non sarebbe arrivato a volersi rappresentare in quello specchio immaginario.
Se non fosse stato la marionetta delle proprie idee, però, sarebbe finito per condurre una vita come tutte le altre.
L'aveva mai fatto prima?
Certo, ogni giorno, e quella realtà gli mancava, quella prima che capisse cosa fosse la malvagia sofferenza che apre il cuore a danni perenni.

Si alzò da quel letto, la sua dolce e comoda prigione da diverso tempo a quella parte, si diresse verso l'armadio per tirar fuori la sua giacca e si scompigliò i capelli con le mani, portandoli poi indietro; si strinse la giacca e fece schioccare il collo, sentendo quel dolore dovuto alla spalliera del letto sulla quale si era poggiato.
Non disse niente a nessuno: semplicemente se ne andò da quella casa, sede delle sue buie e chiare nubi e si diresse sotto il cielo aperto, nel quale le nubi potevano volar via e non influenzare più in alcun modo il suo stato d'animo.
In quell'ultimo periodo erano state piuttosto grigie e non era neanche certo sul tempo che preannunciavano: cielo sereno o temporale? Non voleva saperlo.

Corse via, credendo di star rincorrendo i vecchi tempi.

E se avesse realmente voluto ritornare ai vecchi tempi? Così avrebbe sconfitto la nostalgia.
Ridacchiò leggermente: non si può sconfiggere la nostalgia, soltanto alimentarla, e ne era curioso.
Era curioso, estremamente curioso di ritornare a provare le emozioni dell'epoca, se ci fosse mai stata la possibilità.

Non erano cambiati i suoi gusti in fatto di bar: infatti ritornò nel suo locale di fiducia, non molto lontano da casa, in quel luogo nel quale cominciò tutto adocchiando un libro di uno scrittore con una lettera al posto del nome.
Il locale era sul punto di accogliere i clienti della sera e il proprietario di esso stava accuratamente pulendo il bancone con uno straccio. La sua fronte era sudata a causa del lavoro frenetico: si era persino tolto il grembiule.

Entrò, cercando di far suonare il meno possibile la campanella appesa sopra la porta, la quale avvisava ogni qualvolta un nuovo cliente entrava in quella topaia aggiustata in modo da sembrare graziosa per degli ubriaconi che non conoscevano altri luoghi dove passare il loro tempo.

La campanella sembrava non importare al proprietario, ci era abituato.
«Buonasera.» disse timoroso, aggiustandosi i revers della giacca e schiarendosi la gola subito dopo.

«Buonasera.» rispose l'uomo al bancone, il quale non alzò lo sguardo, poiché intento a lavare dei bicchieri.
«Scusi,» lo richiamò, ricevendo la sua attenzione dall'uomo, il quale gli sorrise cordiale poiché aveva riconosciuto l'inconfondibile Jungkook, che era da un po' che non si faceva vivo. «Se è possibile, gradirei ordinare una tazza di caffè. Allongé, in particolare.»
L'uomo coi baffoni annuì cordiale e Jungkook si girò, pronto ad andare a prendere posto.

Nel mentre alzò lo sguardo verso l'alto, rendendosi conto del soffitto dello stesso colore e poi notò i vetri sempre dello stesso spessore, poi il bancone sempre nello stesso legno e infine gli sgabelli che lo attendevano.
Un'altra volta, confidò loro di nascosto: non era lì per bere in quel momento.
Voleva solo prendere una boccata d'aria, dato che l'ultima volta che dell'alcool gli aveva toccato la lingua non era finita tanto bene.

Si diresse verso il tavolino più vicino, quello dopo il signore con un giornale gigante a coprirgli il volto: si vedeva che era intento a concentrarsi sulle notizie della giornata. Il titolo della prima pagina, grande come una casa, dichiarava le parole: "La Danimarca cede tre ducati ad Austria e Prussia", mentre in basso ne sorgeva un altro, "Ci lascia Barthélemy P. Enfantin", un imprenditore e scrittore molto noto. Non gli importava più di tanto in realtà, l'unica cosa che gli interessava era che non scoppiasse nessuna guerra che finisse per ucciderlo.

Preferì sedersi lì dietro ed ignorare le altre pagine del giornale, attendendo che qualcuno venisse a portargli ciò che aveva ordinato.
Proprio non riusciva ad allungare il naso per poter scorgere le notizie che quella giornata erano riuscite ad arrivare alla casa editrice del giornale.
"Lincoln prosegue la guerra civile"
Affari esteri, non ne era colpito più di tanto.

"Assunti numerosi dipendenti nelle fabbriche, fenomeno da record"
Sbuffò, tendendo al sospiro: forse era meglio se si buttava in una di esse e almeno aveva il posto di lavoro assicurato, almeno fino a quando le sostanze nocive usate in fabbrica non l'avrebbero corroso fino alla morte dopo qualche anno. Si ritrovò ad ammettere che almeno era una morte giustificata, rispetto ad avere gli occhi ciechi come una talpa e la schiena ricurva per il troppo scrivere.

L'uomo arrivò portando il suo caffè al tavolo, facendogli un cenno col capo sorridendogli leggermente, per cui lo prese per il manico e iniziò a sorseggiarlo, senza aver qualcuno con cui condividere quel buon sapore aromatico.
Allungò l'occhio ancora una volta verso il giornale del tizio davanti a lui, scorgendo un'immagine della quale non riusciva a leggere il titolo.
«Scusami, appena hai finito con il giornale potresti passarmelo?» chiese in modo cordiale ed educato, però quel tipo trasalì e ciò fu ben evidente dal movimento improvviso delle sue spalle, come se si fosse spaventato.

«Mi scusi...?» provò a richiamarlo anche allungandosi e mettendogli una mano sulla spalla, dopo diversi secondi che l'uomo non aveva accennato a girarsi verso di lui.
Non l'avesse mai fatto: come aveva fatto a non accorgersi del colore di quei capelli così familiare, alla larghezza delle spalle e al dorso dell'inconfondibile assistente di Kim Seokjin, ovvero Park Jimin?
Jimin, d'altro canto, se ne era accorto nel momento in cui Jungkook aveva pronunciato una parola nei suoi confronti.

«Jungkook...»

L'altro deglutì, rimettendosi composto al suo posto e abbassando lo sguardo. «Jimin... ben ritrovato...» disse imbarazzato.
E come dimenticare ciò che aveva fatto, ovvero dargli una speranza vana?

«È da tanto tempo che non ci vediamo...» anche lui era a capo chino, però subito si alzò da dove era seduto, porgendo il giornale verso Jungkook «sto andando via, puoi tenerlo.»

«Non ti preoccupare...» gli rispose, «Come mai vai già via?»
«Devo andare a lavoro.» disse prontamente, lasciando l'ammasso di carta sul tavolino, in procinto di scappare. Jungkook fu più veloce e gli afferrò il polso, facendo scontrare i loro sguardi.
Entrambi erano sofferti e chiedevano disperatamente aiuto. Per cui, assieme, presero la decisione di uscire da quel luogo e percorrere la strada assieme. Ci fu un silenzio tombale. Era sera e si avvertiva il venticello fresco del settembre che si stava avvicinando; le strade erano deserte, le viuzze ombrate e desolate, c'era solamente un omiciattolo sporco in viso appostato ad un palazzo che sonnecchiava nella beata solitudine. Alzando gli occhi, si poteva notare una donna dai capelli corvini intenta a leggere un romanzo appostata alla finestra, che sgranò gli occhi sorpresa da ciò che lesse scritto sulle pagine.

«È da un po' che non ti vedevo.» Jimin fu il primo a parlare. Sapeva con certezza che se non avesse pronunciato le prime parole, entrambi sarebbero rimasti con la lingua mozzata.
L'altro annuì.
«Che fine avevi fatto?»

Jungkook deglutì: che aveva fatto?
«Ho avuto da fare. Il lavoro, sai.»

A Jimin brillarono gli occhi per la notizia: «Lavoro? Hai ricevuto un nuovo lavoro? E come va, ti stai trovando bene?»
Troppe domande tutte assieme e forse aveva avanzato una menzogna troppo azzardata e mal pensata. «Sì... insomma, sì.» si grattò il capo, dicendo il primo lavoro che gli venne in mente. «Giro per la città e faccio il lampionaio. Il tempo che spengo tutti i lampioni la mattina nella zona di cui mi devo occupare e poi torno a casa, che si fa ora di pranzo. Poi mi tocca il sonnellino per riprendermi dalla lunga passeggiata e infine devo ripetere il tutto all'ombra della notte, può anche capitare che io non cena.»

Jimin annuì, un po' dispiaciuto per il duro lavoro che gli era toccato fare.
«In effetti vedo le tue gambe più sottili dall'ultima volta, ma mangiare poco e fare tutti quei chilometri ogni giorno, a lungo andare non potrà mai farti del bene. Ti vedo anche stanco, mi dispiace.» portò le mani dietro la schiena e camminò guardando verso il basso.

«Non ti preoccupare, sto bene. Ho solo preso qualche giorno di pausa per riposarmi, in effetti. Conto di andare con... il mio amico Minsoo, uno di questi giorni, in una taverna, per potermi fare una scorpacciata che mi merito.»
«Non dimenticarti i dolci! Sono un toccasana per una vita stressata e faticosa. Domattina ti consiglio di comprare un bel croissant alla crema di fragole, la tua giornata diventerà bella come non mai.»

«Già... i croissant...»
La nostalgia gli attanagliò violenta tutto il corpo, immaginando l'appiccicoso zucchero per tutte le sue labbra.
«Ma dimmi una cosa, con il tuo libro? Come sta andando?» voleva chiedergli se fosse lui il Boyer di cui Taehyung gli aveva parlato quel giorno e che poi non si era più presentato.

«Bruciato per sbaglio. Ho perso le speranze.» mentì. Jimin spalancò la bocca con una smorfia assai dispiaciuta.
«Mi rammarico tanto per quello che ti è successo. Fosse accaduto a me, avrei sentito di aver perso un figlio, basti pensare al duro lavoro che ci mettono gli scrittori per immaginare anche una sola parte del loro racconto e poi confezionarlo nel miglior modo di cui loro sono capaci.»

«Non importa. Forse è l'universo che mi ha fatto capire che quel libro avrebbe bruciato le retini di chiunque ne avesse letto le pagine.» alzò le spalle. «Sarà per la prossima volta.» sembrava così tranquillo, così tanto che Jimin alzò le spalle.

Forse era il momento giusto per affrontare quell'argomento? No, non era mai il momento giusto: proprio per questo doveva farsi coraggio e sputare il rospo, altrimenti non avrebbe mai avuto le sue risposte. Magari avrebbe cominciato in modo abbastanza velato, senza far scappare Jungkook fin da subito.
Poteva darsi che quella volta l'avesse disgustato oppure che lui avesse capito che non era di suo interesse. Ma a Jimin era piaciuto così tanto, si era sentito avvolto da un tale calore. Le mani di Jungkook l'avevano fatto sentire a suo agio, così come le sue labbra poggiate sul proprio corpo. Per quelle poche ore si era sentito così bello.

«Jungkook.»

«Dimmi, Jimin.»

«Hai da fare qualcosa questa sera? Non so, un'uscita con qualche amico, una qualsiasi cosa.»
Jungkook scosse il capo, non collegando immediatamente le due cose: quasi si era scordato che lui e Jimin non erano solo due conoscenti, ma avevano avuto il marchio d'appartenenza segnato sulla pelle dell'altro.
«Che ne dici di farti un giro nel mio ufficio? Ormai sono tutti andati a casa e magari ti faccio anche dare un'occhiata alle nuove novità letterarie.»

Jungkook alzò un sopracciglio, non riuscendo a capire il perché della sua richiesta. Era vero che non aveva niente da fare ㅡ una verità in mezzo alle molteplici menzogneㅡ per cui poteva anche passare la notte fuori. Dopo una lunga reclusione, era ciò che gli serviva. Era curioso del lavoro di Jimin, dopotutto: che diamine faceva un assistente di tanto importante? Il grosso già lo faceva il capo Kim.

Una volta arrivati, Jimin accese la luce della lampada ad olio della scrivania del suo studio, avvicinandosi anche alle pareti per illuminare le altre ed infine rivelare la bellezza del suo studio, colmo di libri e scaffali in ogni sua parte, come se fosse una biblioteca persone.
Tutto ciò fece rimanere Jungkook a bocca spalancata, perché neanche a casa di suo padre c'era una tale quantità di cultura racchiusa tutta assieme.

«Wow è... bellissimo.» si guardò attorno analizzandone ogni parte, realmente estasiato dalla particolare combinazione di libri su scaffali in base alla scelta dei colori e la loro altezza. Passò le dita sopra le ruvide copertine dei diciassette volumi dell'Encyclopédie, ammaliato.

«Già. Qua dentro mi sento realmente a mio agio e quando ho un po' di tempo libero da tutte le carte su cartacce, mi diletto nella lettura. Certe volte mi capita di occuparmi nella rilettura dei capolavori recentemente pubblicati o sul punto di esserlo, dando l'ultimo giudizio. Ogni tanto penso al fatto che in futuro questi scrittori saranno ricordati ed io sono una delle persone che ha permesso ciò. Per questo mi dispiace il fatto che tu abbia perso la tua opera, mi sarebbe piaciuto avere tra le mani anche un tuo possibile capolavoro.» gli rivolse un sorriso.
Eppure Jimin voleva essere cordiale, ma Jungkook non rispose: al contrario, distolse lo sguardo, cercando di non far illuminare il suo volto tramite la luce delle candele, colmo di delusione e rabbia.
Perché allora l'avevano scartato più volte?
Forse perché facevano ridere le cose che scriveva. E come faceva Jimin a sapere che sarebbe stato un capolavoro? Non lo sapeva, semplice. Si affidava al fatto che V era stato un genio, per cui doveva esserlo anche lui.
Tutto ciò lo fece vergognare di se stesso.

Ma non poteva dirgli la verità su chi era, oramai non sapeva più fino a dove stava dicendo la verità e dove la bugia, l'unica cosa da fare era stare attento ad un qualsiasi passo falso e plasmarsi in base alla situazione e cercare di ricordarsi dove metteva i piedi.
«Come fai a sapere che sarei stato così geniale?»
Jimin si girò verso di lui, sorridendo, ed avvicinandosi.
«Lo si può leggere nel tuo sguardo, che hai qualcosa da raccontare.»

«Mh, tu dici?» chiese scettico, venendo però distratto dallo sguardo di Jimin fisso nei suoi occhi.
Emise un mugugno in risposta. Rimasero l'uno di fronte all'altro per qualche secondo, Jimin sulle punte per cercare di averlo perfettamente davanti senza alzare il capo.

Jungkook deglutì «Toglimi una curiosità. Come va con Yoongi?»
Avvertì che, stupidamente, aveva intrapreso l'argomento più sbagliato di tutti, a causa dell'atmosfera raggelata. La punta del naso gli diventò rossa, così come le falangi delle dita si congelarono fino all'estremità delle unghie.

«Non lo vedo da tanto tempo. L'ultima volta mi ha detto di essere felice con quel ragazzo. Davvero tanto. Però io non gli credo. Non era felice come lui raccontava.»

«Come mai non lo era?» era così curioso di sapere di Namjoon, che tanto gli mancava. Paradossalmente, gli stava rivelando di più di tutti i suoi coinquilini messi assieme.
«Secondo me non è felice con lui. Almeno non come è stato quando eravamo inseparabili. Mi manca tanto Yoongi, Jungkook.» sospirò. «Vorrei che tornasse da me e mi abbracciasse, vorrei solo questo.»

Le mani di Jungkook erano grandi, rassicuranti, dai tendini prominenti, ma non come quelle di Yoongi, dalla stretta ferrea come quando gli aveva preso involontariamente la mano qualche anno prima quando corsero assieme da qualche parte. Non si ricordava altro, ricordava solo la sua mano.
Era nostalgia quella? Niente avrebbe mai potuto rimpiazzare i molteplici momenti del passato trascorsi con lui, ma doveva andare avanti e trovarne i più simili possibili, creando così una realtà fittizia basata sulla necessità di star bene.

«Yoongi è sparito con un ragazzo che non lo fa star bene?»

«Già. Sembra la storia di due uomini dal cuore spezzato. O forse di un solo uomo: la mia storia.»

O forse la mia.

«Jimin... scusa, non volevo tirar fuori l'argomento.» disse, quando notò i suoi occhi lucidi alla luce delle lampade ad olio e la pelle dorata illuminata artisticamente.
«Non ti preoccupare. Bisogna parlare sebbene la mente non lo voglia fare. Solo così si va avanti, altrimenti si rimane sempre al punto di partenza.»
Lo guardò negli occhi, sorridendogli, anche se era sull'orlo di una crisi di lacrime, per cui l'altro non ci pensò due volte ad abbracciarlo. Non poteva lasciarlo così.
Dei lamenti provenivano dalla sua gola infiammata e secca, mentre teneva le gengive tirate e denti che, stretti per il dolore del suo cuore, si poggiavano sulla camicia di Jungkook.

Gli inumidì il tessuto in disperazione e l'altro avvertì il profumo dei suoi capelli biondi poggiati sotto il suo naso.
«Jungkook, potresti rimanere qui, almeno per un altro po'? Ti prego, non te ne andare, non di nuovo, non voglio rimanere da solo.»
I sensi di colpa affievolirono di nuovo, prepotenti. Non gli importava se a lui piacesse o meno, aveva solamente bisogno di supporto e l'affetto che aveva perso.

«Rimango qui.»

Jimin allora rimosse il volto dal suo petto, lentamente, e lo guardò con sclera arrossata, avvicinando poi il volto a quello dell'altro, facendo combaciare i loro nasi. Sebbene entrambi fossero congelati, avvertì tepore.
«Emetti un così bel calore.» disse a bassa voce, in modo che solo lui lo potesse sentire.
Entrambi chiusero gli occhi ed avvicinarono le labbra a quelle dell'altro.
Che male c'era a voler disperatamente baciare qualcuno? A entrambi mancava quella persona che volevano con tutti loro stessi.
A Jimin mancava Yoongi e sapeva che sarebbe rimasto nel rimpianto e nel sogno di averlo finalmente per sé.

Jungkook, appena chiuse gli occhi immaginò lasciare su un bancone un bicchiere di assenzio e portare la sua mano su quella del ragazzo di fronte a sé, il quale profumava di zucchero a velo e di cornetti appena sfornati, le cui labbra non erano molto carnose, ma comunque morbide. Il suo volto aveva una pelle così soffice e liscia e ne accarezzava l'angolo dello zigomo, poi il suo orecchio, poi il collo.
Era così morbido, così bello, piacevole. Non avrebbe dovuto pensarlo, eppure si rese conto di quell'attimo che sapeva di aver vissuto, poiché troppo vivido per essere frutto della sua immaginazione.
Confidava che fosse accaduto, ma il momento si interrompeva a qualche centimetro l'uno dall'altro, senza che potessero scontrare le labbra. Lì il suo fiato si interruppe.

Il passato e il presente si scontrarono e si fecero una cosa sola.

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