「28/02/1867」

43.

Jungkook mise una mano sotto al mento, ripensando e ripensando per l'ennesima volta a quella lettera che gli era arrivata la settimana prima. Breve, senza neanche un "ciao", un "come stai", neanche quel misero "ti voglio bene" che erano soliti darsi. Era così strano che gli avesse mandato quel messaggio: erano rimasti che si sarebbero rivisti ad aprile, senza nessuna modifica, in qualsiasi modo fossero andate le cose.
Artista o meno, Ménétios aveva degli affari da concludere, per cui aveva assicurato che Taehyung l'avrebbe potuto accompagnare per qualche giorno della sua permanenza a Parigi.
Glielo aveva confermato in una delle sue prime lettere.

Lesse la pergamena per l'ennesima volta, trovando quella nota poetica che Tae era tipico dare a ciò che scriveva, più tipica del suo pugno rispetto alle precedenti. Non sapeva come aveva fatto ad accorgersene, ma parevano meno colme dell'essenza di quel ragazzo.

Allora chiamò Yoongi, che era solito mettersi a giocare a scacchi per conto proprio all'angolo del salone. Si avvicinò a lui e si sedette accanto, con le gambe divaricate, i gomiti poggiati su di esse e le mani con le dita incrociate fra di loro.

«Noti qualcosa di strano qui?»
Si girò verso di lui, porgendo entrambi i fogli: allora l'altro alzò le sopracciglia, poi annuendo freneticamente. «Te ne sei accorto solamente adesso? Credevo che fossi cieco.»

Jungkook scattò in piedi, spalancando la bocca offeso dalle sue parole. Si impuntò, guardandolo male. «No, adesso tu svuoti il sacco.»
Yoongi alzò gli occhi al cielo, sospirando, ormai abituato al carattere di quel ragazzo, poi indicò le lettere del messaggio di gennaio. «Le curvette della scrittura, che ti ho detto? Queste sono normali.» spostò il dito indice sulla più recente. «Taehyung non può cambiare la sua scrittura un giorno e poi nell'altro tornare a quella sua originale.» disse con ovvietà, aprendo le braccia e alzando le spalle.
«E con questo...»
«Jungkook, avevo ragione io, smettila di girare attorno, perché sai anche tu quali sono le conclusioni.» il suo tono assunse una piega più seriosa e Kook deglutì, poiché la voce tanto bassa lo aveva fatto intimidire più di quanto potrebbe fare uno strillo.

«Smettila di essere scemo e apri gli occhi, qua non è più possibile agire come dei bambini, ma bisogna avere una mente più da adulti. Non guardare al significato, al tuo grande amore, alla Luna che spesso hai nominato, ma leggi tra le righe. Avrei voluto dirtelo, perché credo di essere l'unico ad aver capito bene cosa Taehyung ti abbia voluto dire, ma speravo che te ne accorgessi da solo.» gli mise una mano sulla spalla. «Non stiamo giocando, questo è il mondo reale e non è l'amore ad essere la forza più grande, ma è l'intelletto. Ce l'hai davanti agli occhi, la risposta.»
Il minore deglutì, portando di nuovo gli occhi sul foglio più recente, stringendo le palpebre, come se cercasse di identificare le impronte di Taehyung scritte lì sopra.
Yoon gli diede una patta sulla spalla e andò via, facendolo rimanere estremamente deluso: sapeva, eppure non voleva affatto dirglielo? Chi razza si comportava in quella maniera?

Quelle lettere parvero allora poste accanto come capitava, prese dal vocabolario alla rinfusa e accostate perché erano belle da vedere.
Proprio non riusciva ad aprire gli occhi, ad usare la mente e non i sentimenti. Quella lettera, a detta di Yoongi, di significato esprimeva poco e niente.
Per sbaglio gli cadde dalle mani, volando verso quel tappeto blu notte con riporti bianchi e rossi: il colore della pergamena spiccava a confronto, ingiallito, quasi fosse nato vecchio.
Immaginò Taehyung che aveva trascinato il proprio pugno lì sopra e aveva usato l'inchiostro del suo calamaio, dopo aver usato la stessa mano per così tanto tempo per realizzare dei quadri.

La pergamena non aveva ancora toccato il suolo, quando ondeggiò di lato, mostrando solamente la parte sinistra del testo, poiché il resto rimase nascosto rispetto alla sua prospettiva. Pensa, leggi.
"Aiuto", le prime lettere dei primi cinque righi componevano quella parola, e fu allora che sgranò gli occhi, incredulo. Quando la leggerezza del foglio sfiorò il tappeto, il tonfo delle ginocchia di Jungkook si propagò per tutta la stanza, il quale sperava vivamente che tutto ciò fosse una mera coincidenza.
Lo afferrò tra le dita tremanti con difficoltà, leggendo e rileggendo la prima colonna. No, no, si stava sbagliando, lui e Yoongi si stavano sbagliando, Taehyung non avrebbe mandato un messaggio del genere, avrebbe trovato un modo per farglielo sapere più chiaramente.
«Yoongi-» provò a chiamarlo, ma la sua voce venne fuori roca e graffiata, come se non avesse abbastanza fiato per emettere il suono.
Riportò l'attenzione sulle parole. C'erano anche altre due lettere, M ed L, le quali gli davano la piccola speranza che la combinazione delle inziali fosse una coincidenza.

Scosse il capo, lo scosse freneticamente, stringendolo poi tra le sue mani ed emettendo dei lamenti sofferenti.
Gli balenò in mente l'assurda idea che quelle fossero le iniziali di Lambert, l'uomo con cui era andato lì a Firenze.
E se fosse stato così, sarebbe significato che l'aveva spinto tra le braccia dell'aguzzino? Brividi gli percorsero il corpo, la speranza pian piano si avviava a sparire completamente senza neanche lasciare nessuna sua traccia. Soprattutto, Yoongi aveva notato il messaggio nascosto e non aveva neanche provato a farglielo capire da subito? Sebbene gli avesse esplicitamente chiesto di aiutarlo e salvarlo da quella situazione?

Doveva andare da lui, doveva salvarlo e portarlo a Parigi di nuovo: chissà che cosa gli stava facendo di orribile quell'uomo. Solo immaginarlo gli provocava ribrezzo e soprattutto spavento, sensi di colpa.
Correre nella sua stanza, fare le valigie con foga, stare sul punto di cadere, inciampando nelle proprie vesti poiché troppo distratto per rendersi conto delle proprie azioni.
Il foglietto lo tenne per tutto il tempo nascosto nella tasca dei pantaloni e, quando allungò la mano per afferrarlo nuovamente, si rese conto che non era proprio in grado di tenere salda la presa, perché le dita tremavano ancora e non accennavano a fermarsi.

I suoi occhi bruciavano, il suo naso era aggrottato come le sopracciglia e i denti erano serrati in una smorfia di compianto, avvertendo la pressione del dolore, del pianto, che faceva largo in tutto se stesso.
Il vuoto, nel mezzo del petto, quel groppo in gola che non gli permetteva neanche di respirare.
Non fu in grado più di leggere quelle parole che erano scritte lì sopra, poiché divennero confuse. Cosa aveva fatto! Si accasciò per terra, con capo chino, che pian piano toccò il pavimento, poiché il dolore lo stava tranciando lentamente da capo a piedi, man mano che divenne sempre più cosciente della situazione.
Come aveva potuto credere che rispettare i desideri di entrambi fosse la cosa migliore, separarsi e credere che prima o poi si sarebbero rincontrati senza alcun danno?
Non aveva ancora imparato che la vita era fatta per provocare del male? Illudersi della positività era stata un'idea sciocca, causata dalla patina dei suoi occhi la quale gli rendeva il mondo interamente opaco, credendo che esistesse qualcosa di migliore oltre ciò che c'era davanti al suo naso.

Ma la verità è che la vita è così bugiarda e talmente cruda, reale, negativa: come se si presentasse proprio davanti alla punta del naso e che allo stesso tempo si nascondesse tramite l'impossibilità dell'individuo di visualizzare quell'immagine, tanto vicina.
Ogni cosa che si pone sull'orizzonte è sfocata e non bisognerebbe credere a nulla, poiché nulla è certo quanto la sofferenza dell'anima.
E l'anima di Jungkook stava soffrendo, perché era stato realmente stupido. Certo che andrà a Firenze per salvare Taehyung, quel dannatissimo foglietto lo implorava di giungere da lui al più presto per salvarlo da qualsiasi cosa che stesse accadendo.
Aprile era troppo lontano, urgeva un'intervento al più presto e Jimin non avrebbe dovuto saperne nulla, perché, conoscendolo, l'avrebbe fermato in ogni modo esistente.

Fu allora, che una lacrima trattenuta anche troppo tempo cadde sul pavimento; un'altra scivolò lungo la guancia, assieme a tutti quei singhiozzi che fuoriuscivano dalla sua gola disperati, come se fino ad allora fossero stati rinchiusi in una cella. Non ce la facevano più, dovevano vedere la luce, lontano da quell'abisso del corpo di Jungkook e dovevano frastornare tutti gli oggetti gli accanto con la loro angoscia. Era stato zitto fin troppo, in maniera quasi inumana, e come conseguenza i lamenti furono uditi fin dai lontano volatili che, con spavento, decisero di tornarsene indietro. Era più doloroso di quanto potessero essere un paio di lame che incontrano la pelle,  provocando il suono flebile della carne che viene pian piano squarciata.

Afferrò quella dannatissima pergamena, chissà questa volta sarebbe stato in grado di rileggere meglio tutto quanto, sperando in una graduale analisi più razionale, anche se in quelle condizioni non sarebbe potuto arrivare a granché. Scacciò una lacrima dall'occhio destro, mentre l'altro gli rimase serrato, infastidito anche dalla luce proveniente dalla finestra, ma un'altra delle sue goccioline finì sulla carta, inumidendola e creando un alone più scuro. L'inchiostro si mosse tra tutte le fibre, assumendo una forma piu confusa, modificando la scrittura di Taehyung in quel preciso punto. Avvicinandosi col suo fiato caldo, si rese conto, curiosamente e distrattamente, poiché preso dal mal di testa che lo stava assalendo, che dietro quella lettera pareva esserci un altro alone, dalla parvenza di un numero, tondeggiante come un sei o un nove, il quale scomparve quando il calore andò via.

Tirò su col naso e si mise a sedere, osservando quella zona per qualche minuto. Era così colmo di pensieri che non gli venne l'idea di curiosare meglio perché si fosse verificato quel fenomeno, sebbene non ci fosse scritto nulla sul retro.
Le urla strazianti si erano placate e al loro posto c'era il silenzio: occupò qualche secondo a ringraziare la vastità della casa, che non ha fatto sentire a Yoongi e Jimin, nella stanza dedicata alle arti, deliziati dalla musica del pianoforte, tutto quello che era capitato.
Il silenzio dalla musicalità orchestrale si fece largo tra le sue orecchie e persino i suoi pensieri furono assaliti dall'atmosfera taciturna.
Aggrottò le sopracciglia, permettendo al cervello di riprendere a funzionare e riuscire finalmente a collegare vari punti.

Il messaggio di Taehyung non terminava lì, ma quella era solo una piccola parte, che doveva ancora decifrare.

Eccolo, l'intelletto.

Una volta, diverso tempo prima, aveva letto su un libro, forse proprio lì a casa di Jimin, che esisteva un tipo di inchiostro che di base era invisibile, ma, messo sotto il calore, mostrava le parole scritte in precedenza, in un processo reversibile. Probabilmente ne avevano parlato in qualche manoscritto mercantile.
Poteva anche sbagliarsi, ma che altra pista poteva cercare nella disperazione assoluta? Calore: fortunatamente delle varie candele accanto al letto, assieme ai vari fiammiferi e, attento a non inciampare nelle robe che ancora doveva mettere in valigia, non ci pensò più di due volte per accendere quel dannatissimo oggetto, scottandosi all'indice destro per la fretta.
Bastò solamente qualche secondo, perché immediatamente i sospetti furono confermati e, subito sotto le lettere scritte in nero, si mostrò una serie di numeri:

"35 44 5 6 26 15
9 5 42
7 34 47 48"

Dietro quel foglio, illuminato dalla fiamma del lume, si nascondeva il momento in cui Taehyung, preso dall'agitazione, combinava assieme tutte le sostanze che aveva ricercato per poter combinare quell'intruglio.
Di nascosto, qualche giorno prima che prendesse la stilografica per scrivere la lettera, era entrato in negozietto nella quale vendeva le sostanze chimiche più disparate che si potevano trovare nel commercio e con cordialità chiese gli ingredienti all'uomo dietro il bancone, degli occhialetti sul naso e i capelli bianchi, segno della sua lunga vita passata sulla scienza; lui gli vendette una piccola fiala contenente del cloruro di cobalto, avvertendolo sulla cura con la quale avrebbe dovuto maneggiarlo.

Tae aveva abbastanza conoscenze, apprese nel corso degli anni, anche nel campo della chimica: fece molta attenzione a non farsi scoprire, nascondendo tutto quanto nel proprio appartamento, accuratamente serrato quando era fuori e dentro casa. La reazione tra sei moli di acqua e una mole di cloruro di cobalto avvenne con successo e quella piccola quantità gli bastò per l'inchiostro originariamente rosso che scomparse una volta a contatto con la pergamena.
Il messaggio criptato era una grande trovata, forse anche troppo preventiva, ma doveva cercare di evitare il meglio possibile che Jungkook ne fosse coinvolto.
Era così spaventoso il modo ambiguo in cui Lambert si comportava, che, se fosse rimasto ancora all'oscuro della verità, avrebbe creduto non avesse alcun doppio fine.

Ma il suo sorriso, il suo ghigno, era talmente raccapricciante che non riusciva neanche a sorreggere lo sguardo: la cosa buffa era che stava ancora tentando di sostenere la storiella della moglie, della sua vita felice, di quanto fosse un brav'uomo. Si leggeva nel suo sguardo e nel modo insistente in cui chiedeva che Jungkook andasse lì a Firenze: chissà cosa gli voleva fare. Molte volte non riuscì a trattenere i brividi ed altre, semplicemente, tentava di dimenticare la verità quando gli occhi dell'uomo e quelli del ragazzo si scontravano.

Jungkook osservò incessantemente il messaggio, confrontandolo con le parole quasi ossessivamente, come se fosse una questione di vita o di morte.
Anzi, lo era! E se Lambert lo avesse rapito e lo tenesse imprigionato? Se lo stesse torturando? Non osava pensarci. Sette, gettò lo sguardo sul sette, e, quasi come se l'avesse spinto qualche divinità, guardò il primo rigo, con la prima parola. Prima parola, seconda parola, terza parola.
Secondo rigo, settima parola.
Strabuzzò gli occhi: Taehyung era solito mettere il soggetto sottointeso; ma settima parola?

Trentacinque, se, quarantaquattro, vieni, cinque, a, sei, Firenze, ventisei, no, quindici, vita.

Poteva essere tanto strano che fosse una frase di senso compiuto? Ormai, nulla aveva più reamente senso.
Cos'è che aveva davvero senso?
Rimase a contemplare il foglio, prima di proseguire con le altre due frasette rimanenti, poiché nella sua mente balenarono delle questioni filosofiche, che avrebbe desiderato trattare con lo stesso Taehyung.
Nulla aveva senso, neanche quello che aveva tra le dita: poteva anche essere un ammasso di particelle macchiate con altre di natura diversa, ma cosa gli assicurava che esistesse realmente? Poteva essere una falsità, così come falsa era la certezza che Tae stesse bene.
Falso, come il mondo in sé. Alzò gli occhi su quella stanza che, per qualche attimo, evitò di avere senso compiuto, come se fossero tutti degli artefici costruiti dalla propria mente.
Potrebbero essere diversi per ognuno, così come le certezze sono differenti. Per lui il concetto di realtà poteva essere uno, mentre per altri poteva assumere altre connotazioni.

Allora, la verità non esisteva? E se tutto quello che teneva sotto il naso e che pareva vero, il mondo, non avessero l'attributo dell'esistenza? Si osservò le braccia: erano davvero le sue braccia? Corse verso lo specchio dietro al lavatoio in fondo alla stanza: era davvero lui, quello? Di cosa aveva certezze? Come poteva essere sicuro di dove era andato Taehyung e cosa gli stesse cercando di dire se non era certo neanche del proprio corpo?
Poteva non avere quel taglio di capelli; magari nella realtà effettiva, non visionabile dai suoi occhi, era un altro uomo. O poteva anche non essere un uomo: chi gli assicurava di non avere sembianze femminili o da animale?
O poteva semplicemente non essere: cos'altro, oltre a pensiero, cuore ed anima, era certo che fossero parte di quella realtà? Neanche Taehyung, effettivamente, era certamente reale: ma come poteva, un qualcuno che era entrato a far parte della propria anima stessa a non esistere? Se fossero artifici causati dalla stasi dell'anima in un luogo unico e lontano, per la mancanza e desiderio di socialità, e immaginario della sua patetica mente?

Difficile da capire, avrebbe tanto voluto qualcuno con cui confrontarsi. Quel foglietto era falso, la condizione preoccupante di Taehyung era menzogna, com'era menzogna la fine che Lambert avrebbe fatto ad entrambi.
Falsità, ma ciò che gli occhi osservavano era il più verosimile possibile, per cui doveva accontentarsi di vedere quel che le proprie sfere e i propri sensi riuscivano a captare.
La realtà poteva essere diversa per ognuno, le parole potrebbero cambiare di bocca in bocca, perché l'occhio ha difetto congenito e propria unicità.

Ma di un'altra cosa era certo, oltre all'esistenza di un organo che contiene la potenza cardiaca, sia per emozioni sia per funzione vitale, di un organo che contiene la potenza celebrale e una vagante anima incontrollata: l'esistenza di emozioni tangibili che modificavano le tre funzioni peculiarmente personali, che si intercambiavano da un'anima all'altra.
L'anima del Taehyung che vedeva — bellissimo, adorato, divino — era ciò che più gli importava di quel ragazzo.

Non gli importava se la realtà effettiva non mostrasse quel ragazzo di cui di era fatto l'idea e per cui era perso, ma era la sua anima che contava, ormai: l'anima che gli aveva fatto scrivere quella lettera.
Come poteva sapere che era tutto vero, se non lo sapeva e se non si fidava dei suoi stessi occhi?

"Se vieni a Firenze no vita,
Rimanere a Parigi,
Io felice e al sicuro".

L'anima di Taehyung e la sua erano entrate a contatto e si erano scambiate di sostanza: parte di lui era dentro di sé, e si fidava della sua stessa anima, perché di lei aveva certezza e lo percepiva. Lo spirito glielo urlava incessantemente, gli spiritelli minori che lo componevano, piccoli atomi non tangibili, saltavano da ogni parte causando un formicolio nella carne, decisi nel dimenarsi.

«Mi fido di te, Taehyung.» proclamò ad alta voce. Ciò comportava che avrebbe disfatto le valigie di lì a poco, così non doveva neache affrontare il problema della partenza improvvisa con Jimin e Yoongi.

Ménétios, nel frattempo, nella sua casa apparentemente ordinata, che apparteneva sicuramente ad una nobile famiglia italiana, non faceva altro che ribollire di rabbia nel sangue. Perché quel ragazzo non si faceva ancora vivo? Eppure le parole di Taehyung erano state chiare. Aveva chiesto al suo "allievo" di occuparsene, per evitare alcun fraintendimento e che si scoprisse facilmente quale era il suo piano.
Seduto a quel tavolo da pranzo, con gli occhi ridotti a fessure, perdeva tempo a fissare la parete davanti a sé, sul fondo della stanza. Il banchetto posto sulla tavolata non era di suo interesse, poiché non aveva fame. Era passato già troppo tempo da quando la lettera era stata spedita e affrancata e quasi era arrivato a pensare che Jungkook non sarebbe mai giunto a Parigi.

Quindi la loro amicizia non era così ferrea come aveva immaginato, non sarebbe bastata di certo una sollecitazione per farlo risvegliare e correre da lui. Scosse il capo: avevano gestito tutto quanto così male e in modo così disorganizzato e temette che dopo non molto sarebbero stati colti con le mani nel sacco. Ma, fino ad allora, bisognava sperare che il caso si volgesse a loro favore: certe cose bisogna farle da soli, senza qualcun altro tra i piedi.
«Soojin, acqua.» proclamò, con lo sguardo sempre fisso, forse incantato e impossibilitato del muoversi. La ragazza dovette sottostare alle sue direttive e corse da lui, come se fosse una domestica qualsiasi.
Ménétios, una volta che giunse accanto a lui, fu risvegliato dall'incantesimo e la fissò. Lei rimase ferma, pietrificata, e gli occhi di lui caddero in ogni sua parte.
«Non hai il corsetto. Come mai?»

Deglutì.
«Ho avuto un mancamento prima, avevo bisogno di respirare. Per cui me lo sono tolto, spero non sia un problema: tanto sono in casa...»
«Rimettitelo.» disse fermamente, rivolgendosi ancora verso quella parete.
Lei si morse il labbro e indietreggiò di qualche passo, con capo basso, assalita dalla vergogna di aver fatto qualcosa di tanto sbagliato. Non era così che si doveva comportare, come avrebbe continuato ad essere tanto bella se non si fosse più interessata a se stessa? Anche se non respirava, doveva fare come Ménétios voleva. Magari, un giorno, nella sua vita da mortale, loro due si sarebbero anche sposati e doveva essere il meglio per quell'uomo.
Anche se, dentro di sé, non voleva affatto diventare sua moglie, era tutto ciò che desiderava realmente: essere libera dalla schiavitù, anche se pareva così normale.
Come ci si batte per se stessi?

Tornò in camera, per mettere al posto giusto il proprio corpetto.
Nel frattempo, Lambert si alzò in piedi, provocando un rimbombo dei piedi della sedia che strisciarono sul pavimento, non curandosi di averla quasi fatta cadere, poiché ondeggiante.
Prese a fare avanti e indietro per il salone di quella casa, che un tempo apparteneva ad una famiglia facoltosa morta un paio di anni prima in un incendio nella loro casa vacanze — Lambert si scoprì essere il parente più vicino che potesse ereditarla, ma non sapeva neanche che esistessero, quelle persone.
L'unico modo per poter spingere Jungkook era quello di sollecitarlo ancora da parte del caro Taehyung! Si vedeva: la loro amicizia era così forte che sembrava qualcosa di più forte, forse una fratellanza, e una fratellanza non si può ignorare a lungo.

Jungkookie! Perché rimani lì, vivi lì e ti ostini a non venire qui da me? E dai, ci divertiremo tantissimo, no? E per cosa continui a preoccuparti? E poi, vedremo assieme albe e tramonti, saremo felici. Lambert è una bravissima persona e sono certo che ti troverai benissimo con lui. Sto imparando davvero tanto con i suoi insegnamenti, ma non riesco ancora a terminare il mio primo quadro, quello della Luna, non so se lo finirò mai, ho dubbi a riguardo! La amo, ma non so proprio come aggiustare ogni dettaglio per renderla splendida. Deve rispecchiare la verità e non la verosimiglianza. Vorrei che anche te la guardassi. Vieni da me, vieni da me, come l'insetto va dal fiore! Non esitare ancora, questo sarebbe il nostro posto dei sogni e l'Austria non riuscirebbe a competervi affatto. Certo, mi manca la nostra casa lì, unico nostro bene, ma quella magnifica in via dei Servi di piacerà ancora di più. Vedo la cupola! Riesco a vedere tutto da qui!
Ti voglio davvero bene, Jungkookie, spero tu prenda la giusta decisione.
Taehyung.

Sebbene quell'uomo chiedesse a Taehyung con così tanta insistenza di spingerlo a farlo venire a Parigi, quasi ne fosse ossessionato, Jungkook ormai aveva capito il meccanismo che c'era in quelle lettere, le quali nascondevano sempre il messaggio segreto, scritto sempre con quella boccetta di colma di cloruro di cobalto, di un rosso marrone che tendeva ad una colorazione più fredda e bluastra una volta messo il foglio a contatto con il calore.

122 12 63, 122 12 78. 13 119 168 149, 11 28. 54, 163 72 39 66 67 68 69 132 141 142, 116 141 142 167 107. 8 84, 174, 3 81 145. 5.

Questa volta era complicato, ma non come al solito — certo, ne aveva mandate un altro paio, nel frattempo, sempre sotto consiglio di Lambert. Jungkook si sedette alla scrivania e cominciò a segnare i numeri di ogni parola senza mai allontanare la candela da lì. Il messaggio era molto corto, nulla di particolare, ma gli faceva piacere sapere che stava bene, sebbene la situazione.

"Non venire ancora, non venire mai. Qui va tutto bene, non preoccuparti. Davvero, la luna è il mio primo quadro e mi manca, come mi manca vedere te. Ti amo, Jungkookie, rimani a casa. Vivi."

Sorrise, osservando il messaggio decodificato con la propria scrittura su un'altra pergamena. Due volte prima, Tae si era dato da fare a stilare un papiro, per quanto fu lungo e faticoso rintracciare le circa 750 parole in giro per il foglio. Sul retro, tramite i numeri, gli aveva raccontato di come aveva scoperto che Lambert non fosse colui che diceva di essere e che sua moglie Penelope assieme alla sua allegra famiglia erano solo una finzione. Ancora non conosceva i motivi per cui lo stava facendo, ma di certo il suo intento era quello di trascinare Jungkook a Firenze e stava usando Taehyung stesso come esca. I suoi gesti erano strani e le lettere che riceva prima erano fasulle: prima non gli era permesso di scrivere anche solo per salutare. Avrebbe tanto voluto sapere come stava Jungkook, ma gli consigliò di non rispondere mai e di far finta di non aver mai ricevuto nulla, come se fossero andate perse.
La volta successiva, gli aveva fatto sapere di come Lambert si fosse lamentato con l'ufficio civile per la loro inefficienza, dato che le lettere per lui non erano sicuramente arrivate. Ricevette solo un'alzata di spalle come risposta, sentendosi dire che non era colpa loro se nel tragitto qualcuna si fosse persa, anche se garantivano efficienza.
Jungkook aveva riso, nella lettura e, subito dopo, aveva stretto quella carta inchiostrata al petto, abbastanza caldo da lasciare i numeri blu.

Yoongi sapeva tutto di quello che stava accadendo tra i due e gli scambi che effettuavano, perché aveva dato uno sguardo al testo ed era tutto ingarbugliato in modo abbastanza strano e di certo nascondevano qualcosa: notò Jungkook che stava cercando delle pergamene nella loro biblioteca privata e, quando notò la sua presenza, la nascose dietro la schiena, ridacchiando imbarazzato.
Lasciò correre, ma era stato attento a capire che qualcosa non stesse andando nel giusto verso.
Jimin invece non se ne era accorto, era solo contento che Kookie fosse così entusiasta: più esprimeva felicità, più la sua giornata diveniva allegra.

«Dimmi, come mai non gli rispondi mai?» gli chiese Yoongi, una volta, a tavola.
Kook era arrossito e aveva abbassato il capo. «Non vorrei disturbarlo.»
«E quand'è che ti fai certi problemi con Taehyung? Allora dovrebbe chiederselo anche lui e voi non dovreste scrivervi più.»
Non rispose, ma quando Yoongi si era alzato per andare nel salone, si era avvicinato all'orecchio dell'amico e gli aveva detto "Se sei spinto dal pericolo a fare così, noi siamo tenuti a saperlo."

Il suo tono così serio lo aveva fatto rabbrividire e forse la sua freddezza era uno dei tanti motivi per cui continuava a tenere la bocca cucita.
Pensando a quegli avvenimenti, davanti alla nuova lettera, sospirò e portò il viso tra le mani, stropicciandosi gli occhi.
«Quando finirà questo supplizio?»
Già marzo si era mostrato in tutta la sua bellezza e la primavera era alle porte. Il giardino sul retro di casa di Jimin era stracolmo di fiori, anche se non era tipo da stare costantemente in mezzo alla natura.

Colpa degli insetti, non propria. Aveva avuto l'onore di osservare quella bellezza quando si era avvicinato alle librerie del piano superiore, le quali finestre davano direttamente sul giardino del retro. Aveva sorriso, davanti alla vita.
Primavera.
Avrebbe desiderato toccare la sua persona con le proprie dita e ringraziarla per essere così bella.

Questo significava che ad aprile non mancava molto! Il 13 aprile, aveva detto, sarebbe stato il giorno in cui il treno si sarebbe fermato alla stazione di Parigi. Scosse il capo, ricordandosi di quanto fosse stato presente negli ultimi anni quel dannatissimo giorno. Si ricorda di aver incontrato per la prima volta Taehyung, benedetto dalla clemente stagione, ed ucciso suo padre maledetto da essa stessa.

Gioia, quanto paura: perché non poteva essere un ragazzo come tutti gli altri? E perché aveva dovuto coinvolgere Taehyung in quella maniera? Sicuramente quell'uomo, apparentemente mai incontrato prima, desiderava vendicarsi con lui per qualcosa che aveva fatto. Oppure con entrambi e desiderava usare prima Tae come esca. Capiva il motivo di Firenze: un luogo lontano da tutte le persone da loro conosciute e, pure se avesse voluto torturarli e tenerli incarcerati per anni ed anni, nessuno avrebbe notato la differenza perché Lambert avrebbe continuato a mandare agli altri lettere falsate.
Come sapeva che voleva vendicarsi di una qualsiasi cosa? Se lo sentiva, e poi nella propria vita, Jungkook, aveva compiuto così tante cose sbagliate che era stranito dal fatto che tutto il mondo non volesse ghigliottinarlo.
Portò la testa sulla scrivania, poggiandola sulle braccia che assunsero la funzione di cuscino.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top