「23/12/1865」
32.
La morte aveva lo stesso odore dei porri e delle patate.
Aprì gli occhi di scatto, notando il soffitto proprio davanti a sé, rovinato a causa dell'umidità, che era inconfondibilmente quello di camera sua. Con la coda dell'occhio era in grado di osservare il rosso delle tende del suo letto a baldacchino. Il suo volto era ancora impassibile, ancora troppo presto per realizzare il tutto e rendersi conto di quel sogno che aveva fatto.
Era stato davvero un sogno?
Strinse tra le dita quelle coperte pesanti che si trovavano sotto di lui, riuscendo quasi a farne penetrare le unghie. Fuori era già giorno alto, chissà per quante ore aveva dormito.
Strano che avvertisse questo buon odore: si alzò e si mise a gambe incrociate sul letto, guardandosi attorno e tentando di capire se aveva aperto la finestra la sera prima, ma si era dimenticato di averlo fatto. No, era chiusa, ciò voleva dire che non era affatto un profumino che proveniva dalla signora che cucinava spesso pietanze del genere accanto a casa sua. A volte desiderava di autoinvitarsi nella sua piccola dimora non molto distante dal quartiere nobile, solo perché confidava nel fatto che lei fosse estremamente brava nella cucina, quindi sperava che l'avrebbe deliziato con qualche suo piatto.
Neanche la conosceva, sarebbe rimasto per sempre uno di quei suoi sogni irrealizzabili.
Fece coincidere le piante dei suoi piedi, sprofondando nel materasso mentre osservava incuriosito gli alluci che si scontravano fra di loro, facendoli combattere.
Aveva così voglia di quell'odore così pungente, tanto che gli brontolò il pancino più volte.
Credeva davvero che ciò che era successo la sera prima fosse stato solamente tutto un sogno, anche se non riusciva proprio a ricordarsi la realtà dei fatti.
«Dovrei andare a mettere qualcosa tra i denti.» commentò annoiato. Aveva fame, ma non voleva impegnarsi nell'alzarsi e andar giù in cucina, scomodandosi.
Ricadde sul suo cuscino bruscamente, sospirando.
«Buongiorno, Yoongi. Mi sa che ieri sera ho preso una botta in testa e mi sono dimenticato di ogni cosa. Non avrò forse l'amnesia? Dovrei controllare cos'altro mi è sfuggito dalla mente. Ma dimmi un po' di te. Come hai dormito stanotte?»
Silenzio.
«Già, vero. Sei di poche parole. Ma mi basta la tua compagnia, te l'avrò detto un centinaio di volte. Sento odore di Vichyssoise: l'hai cucinata tu? Scherzo, so che non sai cucinare. Ti limiti ad osservare me mentre lo faccio. Fammi indovinare che cosa hai sognato stanotte. Ho trovato! Una belva feroce mi teneva rinchiuso in gabbia e tu mi hai liberato. Vero? No, forse no. Non scuotere il capo così, non ridere, mi fai sentire in imbarazzo. Allora hai sognato di andare a fare un viaggio alla fine dell'arcobaleno. Forse neanche questo.»
Silenzio. Jimin guardò ancora il soffitto, senza il coraggio di abbassare lo sguardo nel punto in cui credeva che ci fosse l'interlocutore.
Non ne aveva mai il coraggio: non aveva intenzione di rendersi conto che non era veramente lì.
«Come sarebbe la nostra vita se tu finalmente mi rispondessi? Lo so, sei diventato timido, non intendi neanche più avvicinarti. Cosa ti ha fatto il Monaco di Baviera? Ti ha forse reso più scontroso? Ma a me va bene così, ti amo per come sei.»
Silenzio. Un sospiro malinconico.
«Un giorno sarai pronto a rispondermi.»
Quasi sempre credeva di avere accanto a sé la figura del corvino che lo osservava attentamente, curioso di ogni movimento di Jimin, del modo in cui muoveva le labbra mentre parlava e di come sbatteva le palpebre, del suo profilo. Jimin ne era davvero convinto, ogni volta che nella sua testa si insediava quel verme che gli sussurrava che non era vero, crollava per terra ed impazziva.
Certo che era andata così. Che reazione può avere un pazzo se gli dicono che è tale e se gli ricordano che tutte le cose in cui ha creduto erano false?
«So che non mi vuoi rispondere. Ma io ho ancora speranza, Yoongi. Vai avanti tu, in cucina. Ti raggiungo tra poco.»
Neanche quel Yoongi immaginario voleva che assistesse alle rimanenza di lacrime che pian piano si facevano largo sul suo volto.
E se fosse pazzo?
Tutti glielo facevano intendere, tutti rimanevano straniti quando cominciava a parlare da solo, per cui aveva preso l'abitudine di farlo a casa propria o nel suo ufficio, lontano dagli occhi indiscreti.
In ufficio era abituato ad immaginarsi il ragazzo seduto a quella sedia posta all'angolo, con le gambe incrociate, che si controllava le unghie annoiato, oppure che osservava attentamente il movimento rapido della penna di Jimin su un qualsiasi foglio. Come era timido quel ragazzo se neanche si avvicinava a quei fogli e neanche li prendeva, seppur gli interessassero tanto.
E se Yoongi non ci fosse mai stato? Se gli altri avessero sempre avuto ragione? Se Jungkook gli avesse detto il vero, se lui dovesse ancora inseguire il suo sogno?
Il suo sogno non era la pazzia, non era la sicurezza di avere un amico muto che si alternava ad attimi in cui era sicuro di essere solo e abbandonato.
«L'avrei dovuto capire che non c'eri. Ma non ci riesco.»
Si sentì sprofondare, le spalle si fecero più pesanti e il suo petto si strinse.
La testa cominciò ad ardergli, come se lo stessero bruciando vivo.
«Facciamo così. Se non ci sei ti lascio perdere per sempre.» si disse tra i singhiozzi, alzandosi dal letto veloce come un fulmine. Si asciugò le lacrime, mentre gli occhi parevano esser stati incendiati. «Se non ci sei...»
Deglutì. Lascio perdere il mio sogno.
Jungkook non ne sarebbe stato fiero.
«Se non ci sei, ti giuro che ti troverò. Ti inseguirò, inseguirò il mio sogno e potrò avere la certezza di non essere matto. Non sono un folle, proverò di non esserlo.»
In sala da pranzo non c'era nessuno.
Si chiedeva ancora chi stesse preparando quella vichyssoise dall'odore meraviglioso. Quasi riusciva a sentire dalla cucina il rumore del latte che veniva versato dentro il composto e veniva mescolato, al fine di creare una sostanza più consistente.
Non sapeva che fare. Stare fermo, sedersi al tavolo e aspettare di essere servito da chiunque stesse in cucina, oppure scappare via, oppure andare a fermare chiunque stesse nella sua proprietà?
Fino a prova contraria, viveva da solo.
L'immagine di Yoongi a parte.
«Chi va là?»
Yoon, sei tu?
No, no, finiscila.
Nessuna risposta.
Era il suo amico dalle poche parole?
Smettila.
Un passo in avanti, compiuto con tutta l'esitazione possibile, dato che non aveva il coraggio di affrontare la realtà dei fatti.
Esci, esci dalla sua testa, Yoongi, non sei quello vero.
«Chi siete?» riprovò, col cuore che gli batteva a mille.
Se non sei tu, ti lascio perdere.
No, no, non voglio lasciarti perdere.
La testa gli scoppiava, che cosa aveva fatto di male per meritarsi una fine del genere.
«Chi è nella mia cucina!» alzò la voce, spinto da quel dolore che si era appena moltiplicato. Aveva preso forse una botta molto forte. Chiuse gli occhi, si strinse la cute tra le dita, tirando i capelli.
«Togli le mani dal capo, la tua reazione è esagerata. Ieri non faceva così tanto freddo come hai mostrato tu, che stavi per morire assiderato. Ti ho portato a casa per miracolo, le tue dita erano diventate dei ghiaccioli.»
Nessuna risposta.
«Jimin, mi stai ascoltando?» aprì prima un occhio, poi l'altro, pietrificato davanti all'uomo davanti a sé.
Gli stava rivolgendo un dolce sorriso, aveva addosso uno di quei grembiulini simpatici che Jimin si metteva per cucinare quando era di buon umore.
Non era Yoongi, ma l'immagine di un amico dei suoi genitori di vecchia data, che trattava così come fosse uno zio.
Gli voleva bene, non era molto più grande di lui, però lo conosceva da tanto tempo, e la sua figura che non vedeva da mesi sembrò essere così tanto cambiata.
«Ménétios, sei qui? Perché sei qui?»
«Non sei felice di rivedermi?»
Aveva giurato di non piangere di nuovo, ma riprese di nuovo a singhiozzare, dato che ormai aveva già gli occhi rossi e aveva passato gli ultimi dieci minuti a farlo ininterrottamente.
Quella vichyssoise diventò superflua per il cuoco quando il ragazzo si avvinghiò al suo petto, poggiando il viso su di esso, non curando di bagnare con le lacrime il proprio grembiulino.
«Sono felice, sono felicissimo. Non me lo sarei mai aspettato, credevo che avrei dovuto passare il mio Natale in solitudine, di nuovo.»
L'uomo strinse le spalle di Jimin, spingendolo a guardarlo negli occhi.
«Ehy, Jimin, non piangere. Se piangi significa che non sei felice.»
«Ma io sono così felice! Sono tanto felice da avere paura che mi stia immaginando tutto, come sempre.»
«Sono reale. Sono così reale che adesso ti sto abbracciando, senti il mio calore, non è vero?»
Il minore annuì come un bambino impaurito, stringendo ancora di più l'uomo, senza intenzione di lasciarlo per un minimo secondo, anche se non era mai successo prima di allora.
Mai aveva indossato uno dei grembiulini di Jimin, ma quella fu un'eccezione per averlo trovato infreddolito per strada, come la piccola fiammiferaia.
«Perché mi dovresti immaginare?»
«Perché- niente. Ne ho paura e basta. Sono sempre da solo, ormai ogni volta che vedo qualcuno io...»
«Credi che non sia vero.»
«Credo che sia vero, ma non è così.»
Lo strinse nuovamente a sé.
«Hai dormito per una ventina di ore come se fossi in letargo, mi stavo spaventando, ma fortunatamente respiravi ogni volta che ti venivo a controllare ed eri in sogni tranquilli. Vogliamo pranzare assieme?»
Rivedere quell'uomo dopo tanto tempo era stato un colpo al cuore per una persona nel perenne abbandono, ma non era colui che aveva sognato per mesi e mesi, non era quel ragazzo che aveva desiderato senza sosta fino ad immaginarlo.
Convinciti, sei un pazzo, lo stavi solamente inventando. Non ti ha mai risposto, Yoongi è ancora con Namjoon.
Doveva inseguire i suoi sogni.
«Scusami.» si staccò da lui, come rinsavito. «Devo partire subito. Non posso rimanere qui ancora, ogni secondo che attendo mi allontana dai miei desideri. Te ne prego, lasciami andare.»
«Sono tornato dall'Austria solamente per te, ragazzo mio, e tu intendi andare via?» chiese tristemente.
«Austria? Eri in Austria?»
«A Vienna, per l'esattezza.»
«Sul serio?» anche lui, che coincidenza! «Ma non è questo l'essenziale. Devo fare una cosa di estrema importanza, devo andare, devo farcela!» esclamò colmo d'energia, stringendo le dita affusolate e nodose di quell'uomo. «Sono consapevole che tu mi voglia bene, ma ti prego, renditi conto che ho intenzione di inseguire i miei sogni e per farlo devo correre via. È l'unico modo! Mi dispiace, tornerò presto, tu non andare via...»
«Come è vero che il mio nome è Menétios, io ti aspetterò qui fino a che ritornerai. Ma aspetta, non vuoi neanche un cucchiaio di vichyssoise? Ho preparato il tutto con tanta cura!»
A quella non poteva di certo rinunciare, l'uomo aveva ragione.
Piuttosto, perché se ne era andato da Vienna, proprio quando aveva scoperto che quel ragazzo che gli era andato a sbattere contro era proprio Jungkook Jeon, quel ricercato omicida, assieme a quel Taehyung, del suo caro amico Auguste?
Sarebbe riuscito ad acchiappare quei due ragazzi e gli serviva tornare a Parigi: Jimin era solo una scusa, ma doveva tornare ad organizzarsi col migliore complice che avesse mai avuto.
Jimin, intanto, era proprio scappato via.
«Dieci minuti. Al prossimo treno. Dieci minuti. Alla ferrovia. Alla stazione.»
Si diceva col fiatone a causa di quanto stava correndo da anche troppo senza alcuna sosta. Temeva di inciampare da qualche parte e cadere di faccia a terra, spaccarsi qualche dente ed essere travolto da delle ruote di qualche carrozza che passava di lì, oltre che dagli zoccoli dei cavalli. Saltò ogni ostacolo, c'era solamente un treno ogni tanto che conduceva al luogo dove desiderava andare. Non sapeva neanche in che luogo della città viveva Yoongi: avrebbe potuto provare a chiedere in giro una volta arrivato, ma non conosceva neanche un minimo di quella strana lingua colma di parole lunghe e di suoni più che strani, non sapeva neanche se il pianista avesse deciso di tenere quel nome oppure avesse preso in considerazione l'idea di cambiare completamente vita. Per cui adesso poteva chiamarsi anche Franz o in qualsiasi altro modo, eppure il biondo avrebbe continuato a cercare in eterno quel Min Yoongi dai capelli neri, pelle lattea, occhi stretti e prodigio nel pianoforte. Poteva anche essere diventato un contadino e dunque passava tutte le sue giornate sotto il sole, seppur in quel periodo fosse inverno e quindi con tutte le tempeste stagionali. Magari d'estate si abbronzava e la sua pelle diventava scura tanto quella di un italiano o di uno spagnolo; poteva essersi tagliato i capelli dato che gli davano fastidio nel lavoro e adesso li portava dalla radice; forse aveva anche lasciato il suo adorato pianoforte poiché nella zona in cui abitava c'era un organo solamente nella cattedrale della città, nella quale vi era già un musicista. Che brividi, forse Yoongi aveva smesso di suonare quello strumento che produceva le note del paradiso, soprattutto se era lui a poggiare le dita là sopra, producendo melodie che l'unico in grado di ricreare, quasi fossero in una chiave privata, incomprensibile a tutti gli altri prodigi nella musica. Il fatto che Yoongi avrebbe potuto perdere quella bella passione che gli scorreva nel sangue lo faceva impaurire più di qualsiasi altra cosa, forse di più del fatto che avrebbe potuto non rivederlo mai per tutto il resto della sua vita e del fatto che quell'angelico ragazzo che aveva conosciuto negli anni passati, era cambiato e non sarebbe stato in grado di riconoscerlo.
Era quasi arrivato. Vedeva il treno. Vedeva la cenere che fuoriusciva dal fumaiolo della locomotiva e già stava iniziando a muoversi.
Il grande gigante nero già si stava incamminando. Lentamente, ma stava già correndo a modo suo: si potevano intravedere i finestrini che si spostavano e le gambe di Jimin cercarono di correre il più velocemente possibile, una velocità tale che non era mai stato in grado di raggiungere prima di allora.
Il fischio del treno che partiva senza di lui gli fu come risposta, alla quale non fu neanche in grado di rispondere, data la stanchezza per la quale non era neanche in grado di tirar fuori la voce, che gli era rimasta intrappolata in gola. Chissà quanto altro ancora avrebbe dovuto aspettare per vedere Yoongi.
Immaginò di averlo accanto a sé. Si scansò. Non doveva permettergli di entrare nella sua mente.
Come poteva sapere se c'era o non c'era se non si girava a controllare?
Le due probabilità erano unite finché non avrebbe deciso di girarsi a controllare e se c'era anche la possibilità che fosse accanto a lui, non voleva buttarla via, sovrastandola con tutte le altre probabilità negative.
Era tutto così complicato.
A chi doveva parlare per esprimere la sua frustrazione, se non a Yoongi? Ma Yoongi non c'era. Ma c'era. Gli faceva male la testa, da mesi ormai aveva cominciato a pulsargli ogni qualvolta che pensava così tanto, quando la ragione sovrastava l'istinto.
Dannato vento che scompigliava i suoi capelli dorati, li faceva svolazzare, quasi volesse portare Jimin assieme a sé, per fargli smettere di avere quell'espressione sconsolata e fargli dimenticare tutto. Il suo sorriso non esisteva, le sue mani non facevano altro che tremare, adesso che sapeva che avrebbe aspettato. Forse se avesse preso il treno sarebbe significato avere una piccola speranza di incontrare quel meraviglioso ragazzo che tanto sognava, ma averla persa voleva dire che non era affatto destino e ciò lo sconsolava.
Le sue ginocchia toccarono lentamente terra, la schiena si ritrovò ad essere ricurva, le mani poggiate sopra quella lercia strada, vari sospiri.
Eppure era certo di potercela fare.
«Serve una mano?» chiese una voce lì accanto e con la cosa dell'occhio si accorse che quella persona gli aveva appena allungato una mano per aiutarlo ad alzarsi, che decise però di ignorare, alzandosi per conto suo.
«Si sente bene?» insistette.
«Benissimo.» teneva lo sguardo gelido rivolto verso il basso, sperava di non ferire nessuno con la sua tristezza. Doveva rintanarsi a casa sua fino a che non gli sarebbe passata, non serviva coinvolgere chi non c'entrava nulla.
«Siete sicuro?»
«Sicurissimo.»
Si scosse i pantaloni, cercando di togliersi la sporcizia di dosso.
«Avete perso il treno?»
«Non era destino che lo prendessi.»
«Capisco. Sono arrivato da poco, io, invece.»
Jimin aveva appena notato che quell'uomo, dall'altezza pari alla sua, aveva in dosso un cappotto pesante dal colore scuro, sebbene fosse molto vecchio e scarsamente coprente — lo si poteva notare dai difetti che teneva, come ad esempio i vari lembi rovinati e alcune zone stracciate e scucite. Aveva dei capelli pari al colore della cenere, forse era un vecchio.
La sua voce era cupa, ovattata da uno sciarpone scuro come la fuliggine, che non permetteva neanche di analizzare il suo volto. Anche gli occhi erano coperti da degli occhiali con lenti ovali bluastre. Jimin aggrottò le sopracciglia e socchiuse le palpebre, concentrandosi a fissare quel tale, il quale mise le mani dentro le tasche e abbassò il capo.
Gli ricordava stupidamente qualcuno.
«Da dove viene, lei?»
«Non importa. Basta essere qui adesso.»
«Parla bene francese, lei. Siete cresciuto qui?»
«Può darsi.»
«Come vi chiamate?»
«Non importa.»
«Potrei conoscervi se avete abitato qua.»
«Non è possibile.»
«Potete togliere la sciarpa?»
«Fa freddo. Mi stanno aspettando a casa. Mia moglie mi sta aspettando.»
«Vostra moglie?»
Jimin abbassò il capo ed indietreggiò di un passo. Aveva pensato in modo sbagliato, non era nessuno che conosceva, quell'uomo. «Mi scusi. Credevo che fossimo conoscenti.»
Si portò una mano tra i capelli avvertendo nuovamente gli occhi bruciargli, perché era certo che l'avrebbe visto ovunque, adesso, Yoongi, e se lo sarebbe immaginato in ogni luogo del pianeta, specialmente accanto a sé.
«Anche io devo tornare a casa, la mia famiglia mi attende.»
Non era esattamente vero, ma ne era grato.
«La vostra famiglia?» chiese quasi con sorpresa l'uomo dai capelli da anziano.
«Sì. È normale avere una famiglia. Voi ce l'avete.»
«Avete ragione.»
Entrambi rimasero l'uno di fronte all'altro con il capo basso e troppo impauriti da sostenere degli sguardi.
«Allora addio. Buona permanenza a Parigi. Di nuovo.»
«Perché volevate prendere il treno?»
«Per raggiungere un mio amico. Non lo vedo da un anno e ho capito che il mio posto non è qui se non è con me. Anche se ho una famiglia, certamente.»
«Quel ragazzo è la vostra vera famiglia.» terminò apprensivo.
«Non ho detto questo.»
«Ho provato a indovinare.»
«Avete sbagliato.»
«Devo tornare a casa.»
«Io non so più cosa fare.» terminò Jimin con un sospiro. «Fa davvero così freddo?» chiese curioso, guardando l'uomo che si rintanava sempre di più sotto lo sciarpone: in realtà era lui a doverlo sapere, non erano altri ad essere quasi svenuti per la bassa temperatura il giorno prima. Quel giorno tanto prossimo al Natale, invece, sembrava più caldo, forse per il sangue ormai riscaldato che gli scorreva nelle vene, facendolo sentire meglio.
«Si gela.» pareva come se si fossero passati il testimone. «Ma non bisogna sconsolarsi e tenere i pensieri fissi sul freddo, credendo che mai passerà. Prima o poi tornerà la primavera e poi il sole smetterà di tramontare presto e avremo l'estate.»
«E poi di nuovo l'autunno e ancora l'inverno. Farà di nuovo freddo e dovremo di nuovo accendere il caminetto di casa nostra, cercando di riscaldarci. D'estate non serve, l'estate è spensierata, si sta bene.»
«Senza l'inverno non potremmo capire quanto sia bella l'estate e quanto abbiamo sofferto sotto quel gelo.»
Jimin annuì.
Non poteva aver capito di amare Yoongi alla follia senza averlo perso e senza aver creduto di non poterlo rivedere mai più, con la consapevolezza di essere impazzito. Doveva essere tranquillo, alla fine, la primavera prima o poi sarebbe tornata, la felicità sarebbe comparsa di nuovo nella sua vita e poi avrebbe passato un'estate spensierata. Aveva ragione, aveva proprio ragione! Senza la faccia più brutta, triste e deprimente della medaglia, non si sarebbe mai accorto della bellezza della vita e di tutto ciò che possedeva e che aveva posseduto.
«Farò in modo che la primavera torni da me.» si promise a se stesso a voce alta.
«Anche io. Tornerà la primavera nella mia vita e nella vita di coloro che amo.»
Fu allora che quell'uomo si voltò, rivolgendo a Jimin le spalle.
Si voltò.
Era leggermente ricurvo mentre camminava sovrappensiero, con occhi rivolti verso il pavimento, quasi impaurito del dover inciampare; le sue mani erano ancora dentro le tasche, i gomiti leggermente inclinati verso l'esterno.
Possibile che Jimin fosse stato così cieco? Possibile che non avesse riconosciuto la postura di un pianista? Poteva non aver notato quelle dita affusolate del ragazzo, non più uomo, dai capelli che in passato erano corvini?
Come aveva fatto a non rendersene conto?
Il grigio lo faceva davvero apparire come un vecchio, come se fossero passati chissà quanti anni.
E se te lo stessi immaginando?
Allora ringrazierei il cielo di essere pazzo.
«Yoongi, sei tu?» chiese con un tremore nella sua voce, sperando che lui si fermasse e si girasse verso di lui.
Oltre questo, entrambi rimasero in silenzio, solamente il soffio del vento si poteva avvertire, il quale frusciava nelle orecchie quasi volesse attutire qualsiasi altro suono esistente.
Jimin si avvicinò e posò una mano sulla sua spalla, mentre la sua piccola speranza riempiva il suo cuore sempre più, facendolo battere il più velocemente che poteva, quasi stesse per esplodere.
«Yoongi?» ripeté, adesso sentendo anche tutto il suo corpo molle e tremante.
«Credevo non volessi più rivedermi.» mormorò, abbassando la sciarpa e togliendosi gli occhiali, permettendo alle sue iridi di osservare finalmente la stazione di Parigi nel suo colore naturale, senza alcuna lente dal vetro colorato.
«Cosa te l'ha fatto credere...» rispose Jimin in fil di voce, mentre si rese conto di non essere più in grado di respirare, dato che faceva anche fatica a non far arrossare i suoi occhi e a non far colare delle lacrime per l'ennesima volta.
«Il fatto che me ne sia andato con qualcun altro. Sapevo tu non fossi felice, eppure l'ho fatto comunque.»
«Prima la tua felicità, non la mia.»
E finalmente, Yoongi, alzò gli occhi verso di lui, facendo scontrare le loro pupille —e allora comparve un grande sorriso sul volto di Jimin, lieto e sollevato, piega del viso che urlava un tanto atteso "finalmente".
«Ti sei mai chiesto quale fosse la mia felicità, Jimin?»
Ignorò la domanda, gli prese le mani con foga, toccandole e stringendole forse con paura di perderlo ancora, di rendersi conto fosse solamente una visione.
«Sei qui. Sei qui. Sei qui. Sei finalmente qui. Credevo non fosse mai possibile. Credevo che tu...» singhiozzò «Scusa. Mi sei mancato. Non sai quanto.»
«Lo so invece.»
«Esisti veramente? Sei qui, sei qui accanto a me?»
Yoongi sorrise dolcemente a vedere il minore dare di matto dalla felicità, con gli occhi illuminati dalla gioia.
«Sì, stai calmo, sono qui, per davvero.» gli carezzò una guancia, per farlo stare più calmo, sussurrando dei piccoli sibili con le labbra per farlo stare zitto. «Jimin, sai qual è la mia felicità?»
«Credevo fosse Namjoon. Pensavo avessi scelto lui.»
«Ed hai ragione, io l'avevo scelto, ero felice con lui.»
Quando ormai si vive solamente di speranza, ormai, non si riesce più a capire cosa sia davvero. Cos'è la speranza?
«Ma allora perché sei tornato?»
«Perché avevo sbagliato.»
Giurarono di aver avvertito dei fiocchi di neve poggiarsi sui loro capi che ormai erano vicini l'uno all'altro in quel giorno così prossimo al Natale.
Il loro regalo fu quello di riscaldarsi attraverso quel dolce e tanto atteso bacio su soffici labbra, le quali sapevano di nostalgia, passato e primavera.
Il cuore di Jimin rimase intero e quello di Yoongi si ricompose finalmente dopo le delusioni del passato.
Cos'è la felicità se non si è mai provata la tristezza, cos'è l'amore se non si è mai provato il dolore?
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