「17/09/1864」
14.
Da allora, tutte le notti successive le passò assieme a Park Jimin, inebriato dal suo corpo e disperato nel voler trovare un appiglio per rimanere il suo vero se stesso, senza alcuna maschera di benevolenza. Passarono quasi tutte le sere a bere alcolici forti e a fumare senza freno, anche se il maggiore comprendeva quali fossero i suoi limiti e si fermava poco prima di ubriacarsi.
Quando Kook credeva che i suoi coinquilini fossero distratti, usciva di casa in punta di piedi e ritornava all'alba successiva con gli occhi arrossati e l'alito puzzolente. L'odore nauseabondo era impregnato anche nei suoi capelli, così come lo era nei suoi vestiti che non lavava da diversi giorni. I suoi amici avevano intuito che qualcosa non andasse in Jungkook, che di giorno era sempre disteso supino su quell'infernale letto e non aveva intenzione di parlare con loro e poi chiudeva a chiave la porta della propria stanza, facendo
finta di non esistere.
Quella mattina, Jungkook ritornò a casa più cauto degli altri giorni, perché l'aurora era già passata da qualche ora; per cui tentò di camminare in punta di piedi ed avvicinarsi alla sua stanza, sperando che non ci fosse nessuno né in salone né nella stanza di Hobi, le prime che costeggiavano la porta d'entrata.
Purtroppo, era talmente stordito che non fu in grado di evitare la figura del ballerino, unico a casa a quell'ora, che gli era davanti con le braccia strette al petto, rigido. In confronto alla sua solita espressione solare, pareva un'altra persona.
Tentò di sfuggirgli via, rischiando di scontrare distrattamente la sua fronte con lo spigolo del mobile in legno piazzato al lato del corridoio, ma il maggiore lo afferrò da entrambe le spalle e lo fece voltare su se stesso verso la sua direzione. Abbassò il naso sulla giacca di Jungkook, che non aveva neanche la forza per divincolarsi, ed avvertì l'odore del Whiskey che la sera prima gliela aveva macchiata.
I capelli rosso ramato sfiorarono il mento dell'amico, che tentò di alzarsi sulle punte per evitarlo.
«Finalmente ho capito cos'è che fai la sera. Complimenti, Jeon Jungkook, complimenti. E dovresti ringraziare che sono io ad essere qui, perché se Minsoo fosse a casa ti avrebbe dato innumerevoli schiaffi sul viso urlandoti di essere un incosciente.»
La sua insolita acidità mise paura anche a Kook, preso ancora dai giramenti di capo, ma non si fermò dal controbattere attivamente.
«Incosciente di cosa? Che vado in giro a godermi la vita?» chiese irato, perché non poteva sopportare che Hoseok avesse compreso che stava passando tutto il suo tempo a bere e a divertirsi, a loro discapito.
L'umore gli era cambiato repentino.
«Eppure mai mi sognerei di dire a voi di non andare a godervi la vita. Quando Minsoo esce con Yuqi va tutto bene, va bene perché sono due ragazzi completamente affidabili, per cui non è possibile che stiano nuocendo alla loro salute. Quando te ne vai in giro tu va tutto bene, perché seppure tu sia in qualche vicolo a cercare di farti dare un dannatissimo spicciolo, non frega a nessuno il fatto che potresti essere rapito e che ti potrebbero fare del male senza alcuna ragione. Ma ovviamente no!» alzò le braccia, dopo aver spinto, privo di senno, il suo amico al muro.
«Ovviamente no, sono io quello più irresponsabile, sono io quello che sicuramente rischia la vita, che deve essere protetto, deve essere tenuto in una teca di vetro: perché? Perché sono il più piccolo, ovviamente! Mi trattate come se io non sappia badare a me stesso, mi date aiuto senza che io l'abbia richiesto e mi fate sentire così un poppante!» le sue parole furono evidenziate anche tramite i gesti.
«E come se non bastasse voi-»
«Jungkook.» lo fermò Hoseok, con voce ferma e sguardo basso. «Ci tengo a precisare che sei tu quello che è scomparso per giorni, che è stato quasi ammazzato da suo padre, quello che passa e ha passato tante notti intere fuori più di chiunque altro, senza dirci nulla e rischiando ogni giorno.»
Ebbe l'intento di premere sul senso di colpa, ricordandogli così di come il padre aveva tentato di uccidere anche loro, salvi perché era scappato come un codardo subito dopo.
«Non è quello il punto. Il punto è che mi sento soffocato da tutta questa poca libertà, tanto che mi sembra di vivere ancora con quella domestica che mi imboccava.»
«Il punto non è neanche quello di te che sei soffocato. Il punto è che qualcuno ha preso del denaro dal nostro salvadanaio: ho ritrovato i cocci rotti ieri sera, andando a sistemare nella camera di Namjoon, dove l'avevamo nascosta.»
Jungkook deglutì, ma doveva cercare di essere convincente. Ripensò a come, due giorni prima, aveva preso l'intero gruzzoletto conservato che giurava avrebbe restituito immediatamente, ma che aveva sperperato tutto in una partita di gioco d'azzardo di una di quelle ennesime taverne che stavano frequentando.
«Non so niente. Potrebbero averci realmente derubato. Non ne so niente.» ribadì a capo basso, cosa che fece ridacchiare amaramente il ragazzo davanti a sé.
Jungkook alzò timidamente gli occhi per vedere la sua reazione, per un attimo impaurito del fatto che avrebbe potuto adirarsi per la prima volta da quando lo conosceva.
«Come si vede che non sai mentire.» gli rispose invece, allontanandosi da lui di qualche altro passo.
Non sapeva mentire? Aveva mentito centinaia di volte e gli avevano sempre creduto.
Aveva mentito a Jimin, aveva spudoratamente mentito a Taehyung, aveva mentito ai suoi amici, aveva mentito a suo padre, aveva mentito fin dal giorno in cui era nato, tanto che non sapeva neanche più chi fosse.
Era Jeon Jungkook o Boyer Jungkook? Non se lo ricordava. Era un lampionaio o uno scrittore? Non ricordava neanche questo. Razionale o sognatore? Non gli importava saperlo. Uno morto a causa di vetri rotti o un vivo dal torso fasciato? Avrebbe preferito non ricordarlo. Aveva speso tutti i soldi dei suoi amici o non l'aveva fatto?
Nessuno aveva mai notato le sue bugie, soltanto Hoseok se ne era accorto, tra i tanti.
«Tu lo sai che le bugie vengono sempre a galla, non è vero? Lo si vede nel tuo sguardo che sei colpevole. Ormai ti conosco Jungkook, ti conosco troppo bene.» terminò il più grande con un briciolo di amarezza.
No, Jungkook mostrava la verità nei suoi occhi solo perché la sua mente non era ancora convinta della verità che gli conveniva: non aveva rubato nulla, non aveva rubato nulla, non aveva rubato nulla.
«Non ho rubato nulla.» gli rispose con tutta la calma che riuscì a trovare nel suo corpo, cercando di non sembrare colpevole.
No, no: non devi cercare di essere, tu non sei.
«Non ho rubato nulla.» ripeté allora a tono basso, con più convinzione.
«Jungkook.» lo richiamò l'altro: il moro alzò gli occhi verso di lui, facendo scontrare i propri con quelli del suo amico, così scuri che poteva vedersi riflesso in essi. Ciò lo fece rabbrividire per qualche secondo.
«Adesso ti chiederò una cosa, ma vedila per il bene di entrambi.»
Cosa voleva chiedere di così importante, con quel tono più grave di tutti gli altri usati poco prima?
«Se te ne vai di casa, dirò a Minsoo che ci hanno derubati.»
La sua richiesta era quella che se ne andasse via di casa come se fosse nulla? Non aveva prove che li avesse rubati lui quei soldi, cacciarlo via era improponibile e sarebbe finito senza tetto. Doveva cercare di essere più convincente.
«Hoseok, non sono stato io, te lo ripeto, non ho fatto nulla...» lo fissò con degli occhi martoriati, ma il tono gli barcollò, tradendolo.
Falso.
Era Hoseok ad essere il vero colpevole, colui che voleva fargli vuotare il sacco solamente fissandolo, e ci stava riuscendo alla perfezione.
«Te lo ripeto: è per il bene tuo e nostro. Se te ne vai di casa, terrai i pochi soldi che ti sono rimasti stretti stretti e non li sperpererai se non per le cose essenziali. Mentre noi non faremo la fame a causa tua.»
«Ma Hoseok, io-»
«Noi siamo amici, giusto?»
Lo odiò, perché fu sleale far leva sui sentimenti: se mai gli avesse mentito ancora una volta, il suo animo gli avrebbe urlato forsennato di non meritare l'amicizia da parte di nessuno.
Tradiva anche se continuavano a trattarlo bene. La pena giusta che gli spettava era proprio la reclusione in un fresco carcere.
Jungkook deglutì: la sua decisione non poteva essere presa così su due piedi, poiché si sarebbe pentito in seguito di qualsiasi scelta che avrebbe fatto.
«Che intendi fare, allora?»
La sua voce così calma gli dava fretta e ansia. I palmi delle sue mani già sudavano, la propria cute cominciava a farlo.
Andare via o restare?
Sarebbe stata una persona misera in entrambi i casi, ma nel primo almeno avrebbe potuto avere un luogo dove alloggiare, sebbene ormai passasse tutto il suo tempo da Jimin. Di certo non poteva chiedergli di essere ospitato a casa sua, perché avrebbe potuto benissimo rifiutarlo, dato che i due si utilizzavano come gioco reciproco e raramente si vedevano come persone. O meglio, questo era il punto di vista di Jungkook; quello di Jimin non lo conosceva.
La propria vita ormai l'aveva rovinata, se fosse restato avrebbe rovinato anche quella dei suoi amici.
Hoseok guadagnava pochi spiccioli al giorno sul ciglio della strada ballando davanti ai passanti, che di rado sganciavano una banconota, e quando succedeva gli si riempivano gli occhi di lacrime di gioia.
Minsoo iniziava a credere che fare il librettista era fin troppo complicato e necessitava della fortuna che non aveva, vendendo le sue idee a qualcun altro per pochi soldi.
Erano proprio finiti nella più totale miseria, non avevano quasi alcunché da mangiare. Lui sapeva benissimo tutto ciò, ma che aveva fatto? Aveva preso i soldi e sperperati dal primo all'ultimo, senza alcuno scrupolo, credendo che loro avrebbero approvato se avessero saputo che l'aveva fatto per stare bene.
«Non voglio far preoccupare Minsoo e Yuqi di nuovo. Di' loro che me ne sono andato e non ho voluto dire il motivo, ma che starò bene.»
«Grazie, Jungkook. Sapevo avresti fatto la scelta giusta.»
Era stato mandato via di casa, aveva fatto le valigie e non si era girato indietro per guardare un'ultima volta prima la sua porta di casa e dopo la finestra della camera di Minsoo che si affacciava sulla strada. Aveva percorso il viale a capo chino, attento a non inciampare in nessuno dei cubetti di pietra circolari neri di cui era formata. Non aveva neanche alzato il capo per vedere i palazzi di fronte a lui, in realtà: gli interessava soltanto la strada per andare via, altrimenti sarebbe finito per cambiare idea, cosa che lui non voleva.
Cacciato per il suo egoismo.
Scosse il capo, stringendo la giacca al petto.
Si stava già avvertendo l'arrivo dell'autunno, che quell'anno tendeva già all'inverno. Quanto lo faceva star male l'inverno! Non gli era mai piaciuto l'inverno. Aveva sempre sperato che ritornasse quel giorno di primavera dove cominciano a sbocciare i primi fiori e tornassero quei giorni estivi dove fiorivano gli estesi campi di lavanda, che coloravano di tonalità viola svariate colline.
Gliel'avevano sempre detto, che era tutt'uno col sole.
Eppure, da mesi a quella parte era diventato sempre più tutt'uno con l'ombra, poi con l'oscurità. La sua vita aveva preso una svolta che mai si sarebbe potuto aspettare senza poterlo evitare.
Ormai si era convinto che quello era il vero se stesso e che quell'oscurità fosse sempre stata nascosto sotto una corazza imperlata, che altro non faceva se non guadagnarsi un sorriso compiaciuto dalla gente.
D'improvviso si era trovato a stare realmente male in quel vero se stesso, poiché non ne era abituato.
La corazza lo proteggeva e, senza, aveva la certezza di essere completamente perso in mezzo a tutti quei pericoli.
Che poteva fare? Non la trovava più da nessuna parte, la corazza. L'aveva lasciata forse a casa di suo padre, quando se ne era andato di lì.
Ed era come se la corazza gli avesse impedito di avvertire tutto il male che il mondo provocava. Come se il mondo in sé stesse emettendo delle radiazioni che lo colpivano e gli trapassavano tutto il corpo, fino a causargli malattie e a deteriorarlo.
Come se non bastasse aveva anche cominciato a piovere, di prima mattina.
Faceva freddo.
E quelle radiazioni continuavano a ferirlo peggio di quanto erano in grado degli affilati aghi usati tutti assieme.
Le gocce di pioggia erano, ancora, pressanti come proiettili e tante ebbero come bersaglio la testa di Jungkook, si intrufolarono tra i suoi capelli e arrivarono alla cute, fino a bagnarla. Poi esse scesero lungo le ciocche e si diressero verso il pavimento, alcune lasciate indietro poiché Jungkook aveva preso a correre e neanche aveva intenzione di utilizzare il suo cappotto per potersi coprire il capo, né la valigia, colma di fogli bianchi e un paio di stilografiche anziché vestiti. Prima o poi avrebbe cominciato a scrivere qualcosa, vittima della sua ossessione. Si sarebbe salvato, era il suo unico appiglio. Jimin era il suo unico appiglio e scrivere una dannatissima storia che avrebbe consegnato all'editoria tramite lui stesso l'avrebbe portato finalmente lontano, così in alto che nessuna calamità l'avrebbe sfiorato. Magari essere perso per strada, senza un luogo dove andare, ripensando al passato e rimuginando sul male della vita, l'avrebbe fatto fermare un attimo e scrivere.
Non ne poteva più, non voleva portarsi assieme il peso della sua incapacità.
Prima o poi quel peso sarebbe diventato evanescente e nella valigia sarebbe stato in grado di trasportare soltanto il peso del denaro e della gloria e sul capo, dove in quel momento c'erano solo gocce di pioggia, avrebbe fieramente indossato l'alloro poetico, così come i grandi avevano fatto, incoronati come imperatori.
Basta, basta, il macigno dell'incompetenza era in grado di rendere più arduo il suo percorso più di quanto non lo fosse già.
Stava lì, ripensando all'incessante male di vivere, all'insoddisfazione. In quel mondo così veloce, così come lo era la locomotiva di un treno. Tutto di sé voleva avere quella velocità, comprese le proprie gambe che, in quel momento, non smettevano di correre, alla ricerca di un riparo dalla pioggia.
Tutto quanto voleva correre, ma Jungkook non era in grado in inseguire quel ritmo troppo frenetico. Ne era incapace, incompetente!
Sebbene ci fossero tante persone che se la passavano peggio di lui e che lo potevano comprendere, si rendeva conto che era lui a subire la disgrazia di stare in giro per strada e di essere finito a dormire nel primo vicolo che aveva trovato.
Ma, in fondo, se lo era meritato.
Se non avesse sperperato i soldi avrebbe affittato una camera e avrebbe avuto cibo fino a quando non avesse trovato un lavoro.
Quella notte, finì realmente nel vicolo più sperduto di tutta Parigi, una piccola stradellina da cui si poteva accedere da un altro piccolo vialetto, accessibile dal retro di un negozio sur l'Avenue des Champs-Élysées. L'unico posto che aveva trovato che era anche coperto da delle tavolozze di legno, probabilmente perché quello spazio veniva utilizzato dai proprietari del negozietto. Non gli importava, avrebbe ricominciato a vagare alla ricerca di qualche altro luogo la mattina successiva. Prese la sua valigetta, colma di quei fogli bianchi e macchiati come la sua vita, e lo mise per terra, ad un angolo. Poi lui si sdraiò, immaginando il gilet come lenzuolo, poi il cappotto come coperta. Ringraziava il fatto che per terra non fosse più bagnato, ma era certo che prima o poi si sarebbe preso un bel malanno, a partire dal fatto che i capelli erano ancora umidi.
Per un attimo volle esser stato ucciso da suo padre e maledisse il buon cuore di Taehyung, il quale l'aveva soccorso morente.
Aspettava soltanto di vedere l'uomo ricomparire e ucciderlo una volta per tutte, mentre esprimeva questo desiderio a cospetto di Morfeo in persona.
Aveva rovinato la propria esistenza senza ripensamenti, proprio come aveva fatto Taehyung, che dormiva di rado, anche lui in perenne posizione supina e sguardo fisso verso il soffitto. Se tutto andava bene, guardava verso il nulla mentre girava un cucchiaino nella sua bevanda calda mattutina, con affianco un foglio bianco e immacolato.
«Fratellone, perché non vai più a lavoro?» chiese Mathilde a suo fratello, che non era più in grado di buttar giù una singola parola. Era così frustrante non essere in grado di far nulla.
L'unica sua felicità era sua sorella, che, da quando Jungkook se ne era andato senza lasciare traccia, era ritornata a dormire assieme a lui nella camera da letto. Proprio la sera prima i due avevano avvicinato i due letti, finendo per addormentarsi una tra le braccia dell'altro.
«Ho fatto sapere a Jimin che mi sarei preso una piccola pausa. Non sto tanto bene.»
«Hai la febbre?» chiese teneramente, portando una mano tra i capelli del fratello, che gli rispose con un piccolo sorriso, destandolo dalla passività.
«Ma no, scemina. Se avessi la febbre ti avrei ordinato di stare lontano. Sono solo... un po' malinconico, sai.»
«Allora ti manca Kookie?»
Lui, a quel dolce soprannome, rispose con un altro sorriso, portando il mento sulle braccia incrociate sul tavolo.
«Un po'. Più che altro mi rende triste il fatto che se ne sia andato senza dire nulla. Diciamo che mi ha reso un tantino confuso. Ogni tanto mi fermo e ci rifletto su: ho fatto qualcosa di male? Forse quella sera non saremmo dovuti andare in giro, è stata colpa mia.»
«Fratellone, non essere egoista. Se ti vuole bene ritornerà.» gli rispose Mathilde con un sorriso che andava da un orecchio all'altro, continuando ad accarezzargli i capelli. «Però tu non soffermarti a pensarci troppo spesso, devi ritornare a scrivere qualcosa. Sei uno scrittore meraviglioso, fratellone, Kookie lo sa per certo e non vorrebbe essere la causa del tuo blocco.»
Il muro era diventato davvero interessante, sul quale ci immaginò le tristi scene di loro due che si incontravano un'altra volta. Tentò di reprimerle.
«È che non so che scrivere. Mi sembra come se gli argomenti siano finiti, come se io sia troppo vuoto per raccontare qualcosa. Che devo raccontare, di come ho visto sorgere il sole questa mattina? Devo scrivere libri dalle situazioni nuove, non con situazioni che sono viste ogni giorno con ripetitività. Altrimenti sia Jimin sia Kim non vorranno più vedermi gironzolare in casa editrice e niente più dolci alle mele la mattina.»
Mathilde fece un broncio, triste per la risposta appena ricevuta: «Non lo voglio il dolce la mattina! Voglio che tu sia felice e che riprenda a scrivere. Fratellone, tu non inventi mondi, tu utilizzi un'altra parte del mondo reale, la più bella di tutte, perché è unicamente tua. Non ti stressare per quello che fai» esitò, prendendogli le mani. «e riprendi ad essere felice, perché ricordati che Kookie non lo vorrebbe: lui sa tutto il tuo potenziale. Non se ne sarebbe andato se avrebbe saputo che non eri in grado di sopportarlo.»
Le parole di sua sorella non fecero altro che generargli un grande sorriso, perché ciò che gli stava dicendo era totalmente vero. Per quel poco di tempo aveva conosciuto Jungkook e sapeva che lui non era il tipo da commettere atti volutamente cattivi: era un ragazzo buono, ma che commetteva cattiverie per costrizione, credendo che non ci fosse nessun'altra scelta da fare.
Tuttavia, era certo che se mai fosse ricomparso nella sua vita gli avrebbe dato soltanto un'altra possibilità, perché più tempo ci stava assieme e più si legava a lui: se l'avesse lasciato un'altra volta ne sarebbe uscito distrutto. Avvertì il proprio masochismo, fuso alla speranza.
«A volte mi chiedo se tu sia ancora una bambina, oppure sia già cresciuta.»
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