「15/05/1864」

4.

Quel che causò scompiglio in Jungkook, fu la decisione di Jimin di ignorarlo dopo quella sera, testimoniato dal paio di volte in cui lo aveva incrociato alla taverna dove si erano incontrati per la prima volta il mese prima e dove non gli aveva rivolto la parola, arrossendo in viso e distogliendo lo sguardo. Allora a che era servito tutto quello, a cosa aveva portato aver perso il proprio onore? Forse lo ignorava perché sentiva di aver tradito Yoongi? Ma no, Yoongi ormai aveva un amante, Namjoon! Inoltre, come giustificava un comportamento amichevole con Taehyung,  essendo inflessibile sull'opinione riguardo la loro relazione e la buona compagnia?

Come se non bastasse, la sua dignità si era pure ridotta in cenere, mentre spiegava a Namjoon cosa era successo con Jimin, fingendo che fosse per vera attrazione: non solo l'amico ci rimase di sasso, ma non fece altro, nei giorni successivi, che chiedergli del presunto amante e lui doveva fingere su quanto dolorosa fosse la sua assenza.
Neanche fosse una donzella di una commedia leggera!
Ma Namjoon e Jungkook erano migliori amici, per cui, se fosse venuto a sapere della decisione di sfruttare Jimin per i propri scopi, avrebbe evitato di parlargli per il resto dei suoi giorni.

Ovviamente aveva nascosto tutto a Hoseok e soprattutto a Minsoo: le lenzuola erano state cambiate, non era quello il problema, ma lui era d'impronta austera, per cui venire a conoscenza dell'atto poco gradevole e contro natura gli avrebbe fatto perdere le staffe.

Intanto le occhiaie di Jungkook si facevano sempre più scure ogni giorno che passava: non faceva il disoccupato, ma attendeva asfissiato fino a quando Jimin avrebbe smesso coi suoi capricci e gote imporporate, come se fosse un bambinetto. Prima o poi avrebbero mandato in porto il progetto del suo libro, per cui, nel frattempo, se ne doveva occupare e cercare di renderlo ancora più accattivante di quello che già, a detta sua, era. Magari lo avevano scartato di continuo per quegli errori della sua solita distrazione come gli accenti sulle parole o un verbo che non rispettava a dovere la consecutio; per questo aveva passato le sue notti a rivedere e a rivedere i suoi scritti.
Il suo settimo, quello che sarebbe riuscito ad avere finalmente una pubblicazione, era molto più piccolo degli altri, poiché terminato in fretta e in furia.
Cambiò il finale un paio di volte: la prima  tornò alla prima conclusione ideata poiché l'altra gli risultava troppo arrangiata; la seconda volta forse aveva bevuto più caffè per tenerlo sveglio e quindi si era accorto di come aggiustare quella prima bozza, che risultò essere una vera bomba.

Sempre per lui, certo. Agli altri tre non importava più di tanto leggere quello che scriveva Jungkook: si fidavano della sua sicurezza e soddisfazione ogni volta che terminava un capitolo. A dire la verità era abbastanza semplice portare avanti quel programma, poiché doveva soltanto fare una revisione di due capitoli al giorno, ma purtroppo se ne andavano via le ore soltanto quando si fermava a guardare verso il nulla e a pensare a tutto quello che avrebbero potuto fare i personaggi, senza contare la rabbia contro di loro, le loro azioni ed il suo io passato, definendolo troppo tonto per aver scelto un proseguimento così ovvio e che non gli rendeva nessun interesse.

Proprio quello era il suo problema con la scrittura, ovvero essere troppo beota per fare delle scelte di cui non si sarebbe pentito in futuro, contrariamente a tutti gli altri scrittori, con quel loro talento naturale e concrete capacità intellettuali. Si trovava di una marcia indietro e quindi gli spettava un lavoro doppio e triplo rispetto a quello di questi predestinati.

E come se non bastasse, oltre a tutti quei caffè che si era bevuto la notte per stare sveglio, quella mattina, abbattuto dal sonno, andò a prenderne un altro in un bar davanti al Notre Dame.
Addirittura spese una moneta da due franchi per quella bevanda data la collocazione pittoresca del luogo e perché il bar era destinato a qualcuno più ricco di lui. Come se gliene importasse! Sarebbe potuto cadere per strada dal sonno e quello fu il primo luogo che gli capitò sotto mano.

Ci mancava soltanto quell'uomo e quella donna che entrarono a braccetto e ridendo di gusto sicuramente per qualche battuta intellettuale detta da uno dei due: lei aveva indosso un abito porpora lungo fino ai piedi e pieno di pizzi e balze, i quali ne decoravano le maniche e lasciavano intravedere la punta delle dita, tra cui l'anello matrimoniale, ben visibile dato che la donna aveva poggiata la mano sul petto. L'altro braccio era stretto a quello dell'uomo, che aveva un frac nero abbinato ad un cilindro dello stesso colore; lui si sorreggeva ad un bastone dal manico dorato, anche se aveva tra le dita della stessa mano un sigaro molto costoso da cui usciva ancora del fumo.
Dopo qualche tempo che loro continuarono a ridere in maniera assai irritante, la donna riuscì finalmente ad intraprendere una conversazione che Jungkook origliò.

«Ho avuto il piacere di leggere il nuovo libro della Mabillon, di un certo scrittore anonimo. All'inizio diffidavo da questo individuo che non mostra il suo nome al pubblico, tuttavia, andando avanti nella lettura, mi sono ben accorta della raffinatezza delle strutture lessicali miste all'originalità della trama e al significato profondo. Credo che le Routes du cœur, di V,  sia uno dei migliori romanzi che abbia mai letto. Ve lo consiglio vivamente, monsieur.» disse la donna con una voce troppo squillante quanto sgradevole.
Buono a sapersi! Taehyung aveva già riscontrato successo tra nobili e borghesi ben vestiti, coi gusti troppo raffinati e dalla puzza sotto al naso, da meno di un mese dal suo debutto nel mondo dei scrittori. Il sarcasmo era assai pungente seppur pensato.

Si chiese allora, esasperato, quand'era che Jimin sarebbe ritornato a farsi vivo, in modo che anche Jungkook potesse diventare uno scrittore di successo ed essere anche lui sulla punta della lingua di tutti. E chissà! Avrebbe anche smesso di odiare Taehyung poiché non avrebbe più provato invidia nei suoi confronti, ma si sarebbero trattati da pari e colleghi. Per quel momento, Kook continuò a ribollire di rabbia per l'insostenibile ingiustizia, più di quanto il suo caffè avesse raggiunto l'ebollizione qualche minuto prima.

Terminò di bere la sua bevanda, amara, poiché lo zucchero non gli era una priorità.
Quella donna tutta in ghingheri e dallo sghignazzo irritante lo fece distrarre dal sublime gusto che aveva sulle labbra, rovinandoglielo, e il desiderio del caffè passò. La tazzina gli scivolò dalle mani e si schiantò con il tavolino rettangolare in legno impiallacciato di palissandro quando, incredulo e attonito, vide, d'aspetto magno e solenne, proprio colui che non avrebbe mai voluto incontrare. Ironicamente, fu proprio colui che la donna noiosa aveva nominato qualche secondo addietro: la sua figura, ombrata, era alta e snella, con spalle larghe e d'eleganza impeccabile, portava una casacca ingiallita e una camicia stropicciata. L'aspetto era del tutto diverso dal borghese che si sarebbe aspettato, ma esso fu plausibile poiché era prevedibile che si sarebbe nascosto dalla folla che tanto desiderava che lo acclamasse.
Non aveva merletti cuciti alla rinfusa né un galante fazzoletto posto attorno al collo, bensì era l'immagine della decenza contadina, smentita da quei dieci franchi che mise sul tavolo con fierezza.

La sua ordinazione gli arrivò subito sotto il naso, assaporando con l'olfatto un croissant appena uscito dal forno e impreziosito da dello zucchero a velo.
Quello zuccherò finì su tutta le labbra di Taehyung e nelle sue vicinanze, imbrattandogli guance e naso.
Indossava un cappello schiacciato che tentò di cadere dal suo capo un paio di volte, per cui decise di rimuoverlo per comodità.

L'acquolina divenne insostenibile e, sebbene avesse pochi risparmi nella tasca, decise di poggiarli sul bancone, avvicinandosi ad esso.
«Scusi, anche io vorrei un croissant.» alzò la mano Jungkook, sperando che in questa maniera Taehyung si sarebbe girato nella sua direzione e avrebbe notato la sua presenza. E se Jimin era scomparso, quel tale era il suo unico appiglio per comprendere, senza darlo troppo a vedere, i comportamenti infantili dell'assistente, al fine di giungere alla tanto attesa pubblicazione.

Predette correttamente, poiché la sua voce attirò l'attenzione dell'altro ragazzo, il quale si girò nella sua direzione e gli rivolse un sorriso cordiale quando lo riconobbe, mostrando i residui della confettura alla ciliegia tra i denti.
«Jungkook Boyer, sbaglio o siete proprioㅡ volevo dire, sbaglio o sei proprio tu? Non ci si vede da un po'.»

Jungkook si trovò d'accordo con le parole di Taehyung, anche se era in procinto di correggere il suo cognome infastidito, prima di ricordarsi che ormai lui era Jungkook Boyer, non più Jeon. Come tenerlo nascosto se neanche lui finiva per non ricordarsene?
«Beh sì, ho sentito che hanno pubblicato il tuo libro.»
Di nuovo, cercò di non usare un tono acido nei suoi confronti.

«Eh già!» sospirò lui, poggiando la metà del cornetto rimanente nel piatto, volendo aspettare che arrivasse anche a Jungkook, per mangiare in compagnia di suo fianco, su quel bancone. «Però non voglio che gli altri sappiano che l'ho scritto io.» riprese a parlare a bassa voce. «Sembra come se il mio successo sia dovuto alla fama della casa editrice e non certo per il contenuto del racconto e per quello che ho cercato di trasmettere con tutto me stesso.» abbassò gli occhi tristemente, riprendendo a mangiare quando anche a Jungkook venne consegnata la sua ordinazione, che non toccò prima di qualche secondo a causa dell'irrompente fastidio e dal desiderio di urlare con scortesia. Non era così? Non aveva avuto successo solo perché quella era la più importante casa editrice di tutta la Francia? D'altronde la gente non lo conosceva, si fidava unicamente dei successi precedenti.
Poi, "avere successo": non era quello che voleva, che nascondeva con modestia? Perché altrimenti aveva deciso di pubblicare, per divertimento, delizia e per abbellire un piedistallo apposito?

«Non sei felice se qualcuno compra e legge un tuo libro?»
«Mia sorella è affascinata da ogni cosa che scrivo e che io le racconto o leggo. È stata lei a volere questa pubblicazione, altrimenti quei fogli sarebbero rimasti unicamente miei e suoi. L'ultima cosa che volevo era proprio essere conosciuto per la nomea della casa editrice, non per quello che voglio trasmettere.»
Un altro sospiro.

Jungkook avvertiva il crepitio e il bruciore di storia triste nell'aria, sebbene la trovasse alquanto improbabile: era pur sempre il grande amico di Park e parente raccomandato di Kim Seokjin! Se qualcuno doveva ricavare successo dalla propria miseria, quello era proprio Jungkook, perché Taehyung non aveva la minima idea di cosa significasse provare tristezza tale da attanagliare tutto il corpo, corrodendo la gola, raschiandola dalle urla.
«Io non l'ho ancora letto il tuo libro e non lo farò finché non lo riterrò necessario.»

Le risa e la risposta di Kim furono inaspettate: «Non mi importa più di tanto. Si legge ciò che si vuole, alla fine, senza costrizione. Tu, invece, alla fine hai parlato con l'editore riguardo al tuo lavoro?»

Jungkook scossa il capo, sospirando, deciso a comunicare un'ennesima menzogna. «Alla fine ho rinunciato perché ho paura che l'odore della carta mi dia la nausea. Sono leale verso il mio caro amico Jimin, mi piacciono i libri, ma preferisco attendere un altro po': chissà!»

Taehyung gli rivolse un sorriso cordiale, poggiando la mano ormai libera sulla sua spalla.
«Hai ragione: non sai mai cosa ti riserverà la vita. Sono tante le passioni esistenti e, se questa non è la tua vocazione, ne troverai un'altra oppure la raggiungerai in futuro.»
Il contatto indesiderato fece storcere il naso di Jungkook, innervosito dal suo atteggiamento cortese ed espansivo, che avrebbe evitato ben volentieri. Eppure la sua introversione lo portò a tacere alla richiesta di Taehyung di poter fare un giro anche quell'oggi, data la sua buona compagnia.

«Come mai anche oggi un giro? Non dovresti andare... che so, a lavorare, leggere, ideare un nuovo romanzo? Sei uno scrittore a tutti gli effetti adesso e hai i tuoi impegni.» propose Jungkook, terminando anche lui il cornetto, di crema pasticcera. Taehyung scosse il capo, apprezzando la sua ingenuità e ricordandosi di come anche lui credeva che bastasse sedersi alla scrivania in tutte le ore del giorno utili. «Non ho ispirazione. Magari parlando con te mi ritornerà, mi sembri una persona interessante.»

Jungkook aggrottò un sopracciglio a quella serie di espliciti complimenti.
Come avrebbe potuto dire di no ad un'ulteriore strada per la casa editrice che l'aveva ignorato così tante volte! Se anche loro fossero divenuti amici, avrebbero finalmente considerato i pareri del loro prediletto, parente di Kim Seokjin.

Per cui si alzò dallo sgabello imbottito che rendeva la seduta più comoda e si avvicinò all'uomo al bancone per pagare: gli faceva male al cuore lasciare una moneta da dieci per entrambi, ma fortunatamente fu fermato dalla mano di Taehyung che pagò al posto suo, per cui tirò un sospiro di sollievo, portandosi la mano sul cuore quanto fu sicuro che l'altro non lo stava osservando.
Neanche il tempo di uscire dal Café, che si trovarono davanti tutte quelle donne con ampie gonnelle e merletti inseriti in ogni vestito come se fossero del prezzemolo. Le loro labbra tinte di rosso erano coperte dai ventagli eccentrici, che sventolavano per il calore di maggio. Porpora, rosa o azzurro delicati come di un fiore, lilla, giallo: erano un arcobaleno tutto in femminile, dai busti stretti inumanamente con corpetti solidi come la pietra. Erano in grande numero anche le donne di mezza età con già numerosi figlioli, col peso dell'età sulle spalle e con il viso solcato dal trucco; esse muovevano con grazia i loro capi, acconciati con criterio e destrezza, incrociando fiocchi e perline alle trecce e crocchie.
Gli uomini! Erano ridicoli, con cappelli a cilindro che abbassavano verso le signore in cortesia, portando loro rispetto e baciando loro le mani, portando loro a sghignazzare come delle oche giulive. Era una vergogna osservare quei gentleman che fingevano di trattare con rispetto le loro dame e le donne, ma che non erano altro che ribrezzanti in altre sedi. La barbetta dei signori era ispida, di mezza lunghezza e ben curata, sebbene si potessero notare i peli grigi o bianchi, specie in quell'americano in carrozza che passò accanto a loro, davanti al Notre Dame. Jungkook si vergognò del suo vestiario misero e poco curato, sebbene fu interrotto da Taehyung che si stava trattenendo dallo sbellicare.

«Perché ridi? Ho i capelli fuori posto?» chiese come prima opzione, tanto che Taehyung si girò verso di lui e portò le mani in avanti scuotendole in segno di negazione, poi aggiustò il suo basco che tentò di scivolare un'ennesima volta. Kook si sentì giudicato, per cui tentò disperatamente di sistemare la testa tramite la sua saliva, irritato da quel suono giocondo.
«Hai visto quella signora lì? Quella sulla carrozza.»
Il bruno, confuso, gli chiese ulteriori spiegazioni con lo sguardo, abbassando le mani dal capo perché il problema non erano i suoi capelli, che portava corti fino alle orecchie. Parlava della donna accanto all'americano.
«Cappellino e abito rosa, puri come se fossero la veste di una bambina: eppure con sguardo altezzoso, pronta a giudicare! Gli occhi dell'ipocrisia, di una donna che ha vissuto tutti gli anni della sua vita come una principessa, che ride di quei poveracci per strada e poi vorrebbe essere ascoltata quando parla. Che mangia con le forchette e poi lancia gli avanzi dalla finestra, divertendosi. Che si acconcia i capelli per nascondere le zecche.»
Le signore accanto a loro li guardarono con occhi storti quando udirono le sue parole, allontanandosi di qualche passo dalla verità.

Taehyung proseguì, passando accanto alla Cattedrale e ficcando il naso per notare tutte quelle persone che aveva appena descritto, mentre Jungkook lo inseguiva in confusione. Quest'ultimo alzò i palmi verso di sé, notando le maniche sbiadite dal tempo e dall'utilizzo cospicuo ed avvertì in corpo l'ipocrisia di colui che cercava di imitare tali elementi, sebbene li odiasse con tutta la sua anima. Fatto sta che non riusciva a comprendere il suo ragionamento, da ragazzo che aveva studiato troppo e si era rifugiato nella campagna, stanco della società che parla di continuo perché ha tante ore di vita da sprecare. Kim Seokjin era suo parente ed il suo ragionamento non aveva nulla di errato: quindi, come mai non pareva aver passato l'infanzia nel lusso, tra le ville abbellite da statue neoclassiche e da giardini immensi adatti per le nobili e lunghe passeggiate?
Si vergognava ad ammetterlo, ma tutte queste usanze le conosceva perfettamente perché le aveva vissute in prima persona. Figlio di un ricco borghese avaro e pazzo, da bambino era sempre stato abituato ai giardini fioriti o agli incontri con gli amici di famiglia, in cui doveva rimanere per qualche ora con la schiena eretta, costretto a prendervi parte. Quando nessuno lo stava osservando, i domestici solevano passargli un legnetto da usare per spingere un carretto dello stesso materiale: un affare che provocava noia anche prima che divenisse un giovane di dieci anni, quando capirono che era meglio tenerlo seduto al tavolo con loro a bere una tazza di tè e a gustare quei biscotti ricoperti di miele che, a dire la verità, serviva solo a coprire lo sgradevole sapore del burro bruciato nel forno. Dopo neanche sei anni sarebbe arrivato all'età in cui si poteva essere definiti uomini, degli stupidi omiciattoli viziati e col moccio pulito via da donne in grembiule e cuffietta. Quel figlio del sole era ancora troppo giovane per comprendere qualcosa dalla vita e Taehyung faceva bene a ridere di quell'alta società, che tanto era esilarante.

«Dai fastidio se ridi così.»
Commentò Jungkook, appostandosi vicino alla cancellata della maestosa chiesa e prendendo una sigaretta da dentro la sua tasca per portarsela alle labbra. Dopodiché prese un fiammifero dal suo taschino per accendere quel piccolo e pallido cilindro.

L'altro si zittì, ma non vide il motivo per cui smettere di sorridere e di lasciare che l'aria fresca e pura della mattina lo aiutasse a volteggiare, con quel fare genuino. «Casa mia è nella periferia della città da sempre, adesso passare gran parte della giornata nel centro è una grande novità per me. E non fumare! Ti fa male.» gli disse in rimprovero, prendendogli la sigaretta dalle dita e dalle labbra, lasciando che lo guardasse quasi sconvolto dalla sua azione più che maleducata. Come se non bastasse, Taehyung portò quella sua stessa sigaretta alle proprie labbra e ne fece un tiro, lasciando che metà del fumo andasse in aria mentre l'altra metà sul volto di Jungkook, al quale aumentò lo spirito omicida. Dovette rimanere calmo: lui era Kim Taehyung, ovvero V, ovvero la nuova stella della Mabillon, pupillo di Kim Seokjin, colui che sarebbe stato in grado di farlo avvicinare ad una pubblicazione. Represse gli insulti e si finse tranquillo, per cui prese un'altra sigaretta dal pacchetto, riprendendo la solita e monotona procedura. «I nobili non sono gli unici ad essere ipocriti, a quanto vedo. Bastava che me la chiedessi, invece di togliermela dalle mani come un infante.»
La nube di fumo coprì il volto di entrambi, i quali si erano affrettati ad andar via da quel centro affollato per non causare altre lamentele.

«Sono buone.» constatò Taehyung, dopo qualche minuto di silenzio, guardando il mozzicone di sigaretta fino a che non cadde per terra, mosso solamente dal gentile vento.
«È tabacco, non liquirizia né una bacca di cacao. Cos'è che dovrebbe essere buono?» chiese, buttando anche il proprio mozzicone per terra e schiacciandolo con una scarpa.

«A te piace?» gli chiese allora il moro, allontanandosi di qualche passo da lui, ricevendo scossa del capo in risposta.
«Perché fumi, allora. Non è mica liquirizia, che puoi mangiartela quando vuoi.» gli prese il pacchetto dalla tasca contro il suo permesso e lo scrutò, leggendone la marca e le scritte agghindate. Poi la prese e la mise nel taschino della propria casacca, provocando così un rigonfiamento dalla forma rettangolare ben visibile.

«Questo non c'entra. Lo faccio perché mi va.» fece per allungare la mano a riprendere il pacchetto dal taschino, ma venne fermato dalla mano di Taehyung, nel momento esatto in cui gli occhi dall'espressione infastidita di Jungkook scontrarono quelli dell'altro, che sembravano riflettere soltanto una scintilla di divertimento. Lo aveva appena comprato e così facendo gli aveva rubato i suoi soldi!
«Questa è la tua filosofia di vita? Fai le cose perché ti va di farle?»

«Non dovrebbe essere così?» chiese Kook, abbassando il braccio rassegnato dal non avere più indietro quelle sigarette, ma facendo ritornare sul suo volto un'espressione confusa.

«O perché vuoi farle?»

Quella domanda così d'effetto fece scoppiare a ridere Jungkook, questa volta, scuotendo il capo per la troppa ingenuità del ragazzo di fronte a sé: era matto! Sembrava la filosofia di un ragazzino che ha tenuto troppo in mano un libro dei grandi filosofi antichi oppure i contemporanei, venendo fuori con la testa con una guazzabuglio di idee del mondo troppo contorte per essere reali. La filosofia si deve osservare con criticità, senza farsi condizionare e cambiare idea passando dal pensiero empirista a quello razionalista.

«È un antistress, non è il gusto che mi attira a farne fuori diverse al giorno.»
«Sei stressato?» chiese poi Taehyung incuriosito, con occhi ancora una volta pari a quelli di un infante in procinto di ricevere la risposta a tutte le sue domande e curiosità. Era indisponente e seccante!

«Tutti gli scrittori sono stressati ad un certo punto del loro percorso, perché scrivere a volte diventa un supplizio a causa della mancanza delle idee che non cadono dal cielo e tu dovresti saperlo in primis.»

«In realtà io faccio arte perché voglio farla, non perché mi va e basta.» affermò in tutta fierezza e Jungkook decise di camminare più velocemente, trovando le sue convinzioni alquanto imbarazzanti e prive di alcun fondamento: quasi aveva sperato che non lo seguisse, perché così era costretto a dover parlare nella sua lingua, provando a pensare alla sua maniera.

«Tu fai arte? Sei uno scrittore, non un artista.»
Non capiva ancora, Jungkook, non capiva di certo la concezione dell'arte di Taehyung, intrinseca di gioiosa beltà e amore per la vita e tutte le cose che essa poteva offrire. L'arte era la passione, la tempesta, l'impeto e il sentimento, mossi dall'irrazionale ragione.

D'altra parte, nella Mabillon tanto nominata e criticata, Jimin era svenato per aver passato tutta la mattina a terminare la compilazione di quella pila di fogli e foglietti; inoltre quella stilografica scomoda, che gli aveva già segnato il dito con un paio di calli e una cunetta, non aiutava. Alzò il capo tirando un sospiro e stiracchiandosi, posando gli occhi sull'orologio a pendolo poggiato sul muro, che ancora segnava le undici di mattina, il che significava altre tre ore di lavoro pieno prima di una pausa per il pranzo.

Sospirò portando la mano sotto la sua camicia sbottonata ai primi bottoni di sopra e grattandosi il lembo di pelle, avvertendo ancora il dolore dei lividi passionali, i quali stavano scomparendo gradualmente: solamente indossarli gli provocava grave imbarazzo.

«Jimin, avete finito di compilare tutto quanto o serve un aiuto?» chiese la persona più importante di tutto l'edificio, ovvero Kim Seokjin, il proprietario della casa editrice, dopo essersi appostato alla porta dell'ufficio dell'assistente.
Jimin scosse il capo, alzando gli occhi verso di lui e sorridendogli cortese, onorato da una tale richiesta. «No no, non si preoccupi! Posso farcela da solo.»
Una stilla di sudore gli scivolò dalla fronte, causata dalla mano mossa con impressionante velocità.

«Sicuro?» alzò un sopracciglio, avvicinandosi a lui con le braccia incrociate che poi sciolse per sistemarsi meglio il monocolo sulla guancia, portato di rado.
«Non vorrei che vi stancaste troppo, perché dovete svolgere un altro compito il prima possibile. Per cui, se volete, do a qualcun altro la compilazione di questa roba.»
Park provò a replicare, ma fu interrotto sul nascere: «Siete stanco e sono le undici di mattina, mi servite intero per la revisione di quest'altro libro.»

Un lavoro insolito, dato che di solito evitava di compiere un ruolo che prevedeva l'impiego di un'ingente quantità di tempo. Infatti l'ultimo libro revisionato di sua mano era stato quello di Taehyung, ma per una sua scelta personale: i due ragazzi, della stessa età, avevano già fatto amicizia e il modo di parlare dell'altro lo aveva lasciato tanto incuriosito da voler essere lui stesso colui che avrebbe revisionato i suoi scritti.
«Come? Di già?»

L'altro annuì con un mugugno. «Esattamente. Non ci crederete, ma Taehyung proprio ieri ha consegnato bozze di un'altra opera all'ingresso: ha lasciato detto che sarà una raccolta di poesie, ma essa sarà terminata con l'avanzare del tempo. Preferiva custodirlo in un luogo sicuro, piuttosto che rendere questi fogli il mangime di qualche topo di campagna. Non irrompe, ovviamente, la data di scadenza, ma avendo analizzato le prime due, ritengo che sarà abbastanza piacevole. Riposatevi, monsieur Park, secondo me siete stanco.»

Le mani del biondo passarono, esauste, sul legno in noce della scrivania ed i piedi strusciarono con le mattonelle scure del pavimento, che rendevano il suo ufficio cupo e rilassante, adatto per concentrarsi. Le pareti erano tappezzate da librerie ricolmi di tomi rilegati di dorato e l'ambiente profumava del canto del paradiso. La fortuna più grande era stata quella dell'aver trovato un capo come lui, gentile ed umano nei suoi confronti e, soprattutto, non ancora corrotto dalle malizie della vita, offerte dalla sua posizione di rilievo. Era piacevole colloquiare con quell'uomo, seppur suo superiore, perché finiva spesso per credere che fossero due pari.

Dopo qualche secondo, egli ritornò nella stanza con un plico di fogli sotto braccio, rilegati da uno spago, i quali furono poggiati sulla scrivania di Park, spostando il calamaio da sotto gli occhi per fargli comprendere di smettere di rimuginare su quelle stesse carte.
«Non esitate nel prendere una pausa, buon lavoro!» esclamò Seokjin, chiudendo la porta dell'ufficio e lasciando il ragazzo da solo. Era proprio fiero del suo dipendente tanto diligente e responsabile, del quale si fidava ad occhi chiusi.

Jimin sospirò stiracchiandosi una seconda volta, una volta solo.
«Va bene, Taehyung. Vediamo cosa ci riservi oggi.»

Prese il primo foglio di quella pila e subito riconobbe la scrittura elegante del suo amico scrittore esordiente, sorridendo dolcemente mentre lesse il titolo che aveva dato alla sua prima poesia: La Lune.

"Arrivai a dubitare di me stesso
di fronte la finestra.
La luce della Signora m'obliava,

mamma mi guardava e diceva 'rientra';
la rivorrei proprio adesso,
quella voce chiara ch'il sol mi ricordava.

La Luna mi parlava,

il gatto sul davanzal accarezzavo,
i suoi occhi di luce riflessa splendevan,
l'universo vedevan:
sembravano sognarlo ed io sognavo.

Forse io ne scappavo?
Nei sogni mia madre c'era,
volevo sognarla, ma ne avevo paura:
durante la bella sera
la Luna me ne toglieva la mancanza"

Dovette rileggerla un paio di volte per capire effettivamente cosa intendesse con quella poesia: si accorse quanto fosse geloso delle proprie parole e concetti, come se essi fossero i suoi più grandi gioielli, che non poteva lasciare nelle mani di alcuno, poiché non li avrebbero compresi. I concetti labirintici e le frasi semplici, splendenti come perle brillanti, rendevano tutte le frasi di Kim Taehyung una meraviglia per i suoi occhi, come se a lui fosse dato il permesso di toccare le stelle splendenti del cielo. Le immagini erano intriganti e velate, immobili e nel vuoto, colme di meraviglia.
Girò la pagina, adesso trovandosi davanti ad un'altra poesia, più breve dell'altra, intitolata Pas et Mer, ossia Pece e Mare.

"Era bello avere le dita nelle trecce,
i capelli pece rammendavano le frecce:
quelle che non lasciavano affatto tracce
poiché scure sulla terra.

Gli occhi mare che frenano la guerra ,
quella del mio cuore. La mano m'afferra,
tra le sue soffici lei dolce la serra
son grato al cielo per avermela fatta conoscere"

Il sirventese pareva essere dedicato ad una donna, probabilmente un suo amore, uno di quelli perduti. Forse proprio per una donna aveva cominciato a scrivere! Si trovò a pensare a come la donna avesse fatto un'azione che aveva giovato all'intera comunità, ispirando quel genio nascosto nei meandri della desolata periferia di città.
Di certo non poteva immaginare che Taehyung stesse parlando delle trecce color pece e degli occhi del mare di sua sorella, l'unica figura femminile ormai presente come una costante nella sua vita. L'altra donna della sua vita era sua madre naturale, la quale era stata persa e che non avrebbe mai più riavuto indietro.

Sebbene fosse puro e naturale amore fraterno, quei versi possedevano una tale musicalità e beltà che i più grandi poeti del tempo lo avrebbero congratulato.
L'assistente voltò nuovamente la pagina, trovandosi davanti a tante poesie una dietro l'altra. Le prime due le aveva scrutate anche Seokjin, mentre per le altre era probabilmente il primo fortunato che le leggeva.
Ce n'era una che si chiamava "Botte bianca", un'altra "Girasole", poi vi erano terzine e ottave alternate, alcune senza nome ed altre denominate ognuna come un vento, continuative come le Quattro Stagioni di Vivaldi.

Trovava quel ragazzo davvero pieno di talento: soprattutto in Girasole, le parole venivano spalmate sulla carta come se fossero miele, con maestria così come le api facevano il loro lavoro.
Era grato a Seokjin per aver permesso a Taehyung di far pubblicare un suo libro, perché con l'avanzare del tempo il bocciolo già di bell'aspetto sarebbe diventato un meraviglioso germoglio, dalle spine e dal profumo totalizzante, dalle parole avvolgenti come un canto soave.

Trovò estremamente particolare una tra le ultime poesie analizzate, ormai arrivato alle due del pomeriggio e senza più alcuna voglia di fare una pausa pranzo, troppo preso dalle parole su quei fogli di carta.
Con una semplice poesia e il movimento celere e disordinato di un polso, aveva espresso il concetto dell'arte. Cos'era l'arte? Cos'è l'arte?
L'arte è ogni cosa che si presenta davanti agli occhi speranzosi e sognatori, tutto quello che si riesce a percepire e si giova, con spensieratezza. Non importa la tristezza, la felicità, basta avere consapevolezza della propria persona e del suo infondersi nel mondo, divenendo parte di esso. Nessuno ha una propria arte, tutti sono la propria arte.
Il concetto, ancora una volta labirintico, fu incredibilmente afferrato da Jimin, a caccia di nuovi insegnamenti, e lo comprese subito: quale sciocco era stato, per aver atteso tanto nel rendersi conto di una tale verità, che aleggiava davanti al naso da tempo e che non aveva mai avuto il coraggio di cogliere?

Non importava se ci fossero delle formiche che camminavano sul soffitto tutte assieme, esse erano affascinanti poiché andavano a formare dei disegni mentre zampettavano. Non faceva nulla se vi erano quelle crepe sul muro che non riusciva a far aggiustare, poiché fuori dai suoi pensieri: la loro combinazione risultava affascinante.
Quei girasoli ormai secchi e rivolti verso il basso davano al vaso delle sfumature di pittoresco.
La sua vita era un addensato di frammenti che si susseguivano l'un l'altro e che prendevano parte ad una irrepetibile composizione, tracciata con pennellate su pennellate su quell'immensa tela e persino gli eventi che più gli avevano causato dolore si sarebbero susseguiti creando della vera e propria arte.

La poesia, in esplicativa semplicità, si intitolava "Nous sommes art".

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