「13/06/1864」
6.
«Jungkook, Hai mai guardato il cielo e ti sei interrogato sull'infinità dell'universo, se esso sia conoscibile o meno, struggendoti per l'intelletto degli umani troppo misero per cogliere la vera essenza del mondo in cui viviamo?»
«Almeno una volta nella vita, questa domanda bisognerebbe porsela: sono giunto alla conclusione, rimuginando per diverso tempo, che l'esistenza dell'universo non è da mettere in dubbio, contrariamente al pensiero scettico, ma l'infinità è troppo grande per l'uomo. Egli ha solo avuto più intelletto di quel che gli spettava ed ha cominciato ad interrogarsi di questioni che non gli riguardavano affatto, affabulando amici e seguaci con varie credenze e diversi ideali, arrivando persino a credere che la morte sia una congiunzione tra l'anima e l'universo intero.»
La richiesta di Taehyung del parlare con Jungkook non si era realizzata immediatamente e quest'ultimo, nel frattempo, era ritornato a dormire di notte, uscire il giorno e a dedicare soltanto poche ore alla scrittura, rendendosi conto che in quel modo non gli faceva più tanto male la mano e il collo.
La passeggiata mattutina, però, era di rito per entrambi, ed entrambi si incontrarono di nuovo in quel café dove si parlarono per la prima volta con un cornetto sotto mano. Jungkook fu contento del fatto che il cornetto quella volta fu migliore della prima, dato che la pastafrolla era più profumata e ricolma di una dolce confettura all'amarena. Taehyung non si era trattenuto a chiedergli nuovamente di poter uscire una volta, magari anche quella sera stessa, perché gli serviva un amico che lo potesse ascoltarle e con cui colloquiare.
Taehyung si sentiva capito da Jungkook, colui che rispondeva a tutte le sue domande con schiettezza e puro ideale, sebbene egli provasse emozioni contrastanti per quel ragazzo curioso del mondo: da una parte Tae lo faceva proprio arrabbiare, perché era invidioso di come riuscisse ad essere se stesso nella solita semplicità e genuinità e della sua superiorità come scrittore; dall'altra era combattuto dalla sua stessa sincerità e di gentilezza, a partire dalle carezze rivolte alla sorella.
Ma era il tipo di persona testarda, invidiosa e dal carattere pessimo, che difficilmente accetta la realtà e che si aggrappa alle convenzioni immature della propria mente.
Alla fine si erano dati appuntamento alle undici di sera ai piedi della collina del Montmartre, precisamente davanti au Théâtre de l'Atelier, quel piccolo teatro edificato da non più di quarant'anni e sempre pieno di persone specialmente di sera. Dal momento in cui si erano trovati, non si erano scambiati neanche una parola, se non per dei semplici saluti o per chiedere con esattezza dove stavano andando.
Era Taehyung dei due a fare strada, poiché l'intenzione della serata era di andare sulla sua collina preferita, che dava lui grande ispirazione nelle sue opere, assieme alla nuova compagnia.
Per cui in quel momento erano entrambi stesi sul prato della collina a guardare verso l'alto quel cielo stellato, con la fortuna di trovarsi in un luogo in cui la luce della città non era in grado di arrivare.
«Non lo credi? Non credi che la morte sia la liberazione dell'animo?» girò il capo verso Jungkook, incuriosito dai suoi pensieri. Non erano state tante le volte in cui qualcuno gli dava la possibilità di esprimersi senza interromperlo, frenando le parole sulla lingua con amarezza; infatti, in quel momento, non sapeva da dove cominciare a parlare. Credeva che la morte fosse la liberazione dell'animo, il quale incontrava il nulla, disperdendosi come fossero delle ceneri organizzate alla rinfusa. Il ritorno all'iperuranio non era contemplato, per tutte queste povere disgraziate, destino comune a tutta l'umanità. Il cielo, sul quale Taehyung stava disegnando il tracciato delle costellazioni, era una bolla in procinto di esplodere per i lamenti inudibili delle anime, bruciate al sole. La metafora materialistica era un'esplicativa spiegazione del nulla dopo la morte, la quale dava giusto qualche secondo per rimpiangere tutto quello che non si è fatto durante la vita. La vita! Essa, per Kook, era un ammasso di eventi che si susseguivano senza alcuna relazione, per cui non ci si poteva rattristare per quello che non si era fatto e rimuginare sui progetti a lungo termine: essi erano inutili. La disperazione, invece, era lecita per i progetti che soffocavano il presente e non permettevano una vita tranquilla. Credeva in aggiunta che non servisse contemplare la vita ed adorarla, neanche coglierne tutti gli attimi, poiché non aveva senso dato che tutto conduceva alla morte, in quell'universo dal tempo relativo.
La vita era colma di interrogativi quante sono le voci degli uomini, così tante che la morte ne era invidiosa, sottraendo quelle molteplici anime sperando di ricevere la stessa allegria e tristezza dei vivi, ma accorgendosi dopo che era rimasta da sola, con dei ricordi etichettati sulle tombe.
«Non lo credo. Non libera l'animo, lo distrugge.»
Tae si avvicinò al suo orecchio, con fare giocoso, ponendo le mani a coppa e comunicandogli un sussurro. «Non sai dove Lei si nasconde: potrebbe presentarsi da un momento all'altro.»
La voce lugubre e roca provocò un tremore al minore, che si allontanò da lui con la frenesia del scappare. Non aveva mai detto di voler cadere nelle braccia della morte, arrendendosi come un suicida afflitto, con ancora le proprie questioni in sospeso.
«Non dire queste cose senza preavviso, siamo al buio.» si lasciò sfuggire e Taehyung ne approfittò.
«Hai paura del buio?» chiese ed entrambi si girarono, fissandosi, mentre sulle gote di Jungkook comparivano delle macchie rosse non visibili sotto quella fioca luminosità.
«Non... non ho paura del buio.» cercò di difendersi, portando le braccia incrociate al petto e ritornando a guardare in alto, incontrando la luce della luna, adesso che quella nuvola si era spostata.
Taehyung alzò un sopracciglio a quella risposta e si appoggiò con il gomito, guardando con un sorrisetto il volto di Jungkook, illuminato dal satellite. Poteva giurare di averlo visto più colorito.
«Tu dici?» si avvicinò nuovamente, con sguardo di sfida e malizia, senza mai inclinare quella curva rosacea sul viso ed abbassare le gote. «Lei potrebbe rapirti da un momento all'altro; un uomo incappucciato potrebbe assalirti con la sua lama affilata.»
Jungkook avvertì pressione sulla schiena e il proprio cuore battere più velocemente, sudando dalle mani. Preferiva una morte naturale ad una violenta e si girò di scatto, impaurito, subito dopo che Taehyung fece lo stesso, con occhi che divennero inusualmente cupi.
Non c'era nessuno. Gli diede uno spintone, mentre Tae stava rotolando sul prato a causa delle risate, trattenendosi la pancia per l'urlo poco virile lanciato dallo scrittore, dovuto allo spavento.
«Smettila, idiota.» protestò, senza prendere parte alla sua allegria. «Volevi parlare, ma se devi comportarti come un bambino non vale neanche la pena starti a sentire, perderei tempo.»
Lui fece per alzarsi, ma fu frenato dalla mano di Taehyung che, di nuovo sdraiato sull'erba, gli afferrò la caviglia, invitandolo a restare. Teneva l'altra mano sotto il capo, con i capelli mori che si confondevano con i fili verdi del prato, neri come la notte. La luna gli illuminava il sorriso e gli occhi brillavano magnifici, pronti a cogliere le migliori meraviglie; il suo volto era liscio e privo di imperfezioni, quasi surreale e, se lo avesse toccato, Kook si sarebbe accorto di come era morbido, pari al velluto, con fronte disordinatamente coperta.
«Mi piace quando qualcuno ascolta le mie idee strane e concezioni diverse, facendomi sentire un filosofo. Vorrei farlo più volte, Jungkook.»
«Non sono qui perché tu ti prenda gioco di me.» replicò rigido, ma Taehyung non risultò esserne affatto intimorito e lo ignorò.
«Per esempio, secondo te come si sviluppa la paura del buio?»
«Non ho paura del buio.» ripeté, sospirando, sedendosi accanto, costretto a soddisfare i desideri di quel giovane capriccioso.
«Lasciami finire.» gli rispose quasi in un lamento, per poi ricomporsi con un colpo di tosse. «Credo parta dalle insicurezze che la vita ha creato in una persona, dalle varie paure e dal timore del non essere protetti, cercando riparo nella luce.»
«Questo non implica il fatto che non si debba temere della morte che agisce nel buio stesso.» replicò Jungkook.
«È naturale, invece: si ha paura della morte perché si sa che essa è il momento in cui si chiudono gli occhi, accolti dal buio, il quale, durante il corso della vita, non ha mai protetto, ma ha causato così tanta delusione, così tanti pianti e così tanti tremori. Io non so chi tu sia in realtà, non conosco ogni tratto del tuo carattere come si deve, però non ho paura di te, come la ha del buio colui che ne ha paura! Il misterioso buio tiene nascoste così tante cose che so di doverlo temere, non come te, che non conosco abbastanza da riconoscere tratti spaventosi. Il buio è come uno specchio, il quale ci riflette, mostra il nostro passato e le nostre paure e noi le temiamo. Ma se anche noi non ci conosciamo a pieno, così come non conosciamo il buio, allora noi temiamo quella parte di noi che abbiamo compreso?»
Si rese conto di aver paura del buio, tramite quelle contorte parole di Taehyung, accostate dalla curiosità e dettate dal suo sguardo perso nel cielo di sera. Era ferreo con la sua concezione riguardante la fine delle anime, ma gli venne un dubbio sulla morte che accorreva a rubare gli uomini dalla vita: era anche troppo panteistica, seppur una personificazione, perché la vera morte è propria nell'essere umano, che cade dal suo corpo chiudendo gli occhi, avvolto dal buio.
«Guarda che bello, il buio che tanti uomini temono.» commentò infine Taehyung, allungando il braccio verso la luna avvolta da quelle nubi ribelli.
Anche Jungkook alzò gli occhi al cielo, sgranandoli per quell'imponente astro che vegliava su di loro. Era quello il buio, era quella la morte, era quello il suo passato e la sua rovina?
«Non ho paura del buio, Taehyung.» insinuò, certo che altrimenti sarebbe stato preso in giro. «La mia ragione sovrasta tutti i timori, riesco a fidarmi della natura.»
«Ti sei mai chiesto perché avverti la paura del buio? Le cause?» continuò imperterrito, come se l'avesse letto nella mente e si fosse accorto della sua bugia.
«Il tuo termine è riduttivo, Taehyung, con la tua concezione del buio: esso non genera la paura del buio, ma la paura stessa, ed esse convergono tutte quante nello stesso punto.»
Comprese che il buio non era, come aveva sempre creduto, le palpebre chiuse e pipistrelli notturni che strillavano, volando minacciosi su un cimitero colmo di nebbia, ma una cassa chiusa e sigillata dall'interno.
«Cosa è la paura, allora? Di cosa hai paura tu?»
Jungkook si lasciò cadere per terra, sulla distesa di fili d'erba, poggiandosi sul fianco nella sua direzione con palmo sotto la guancia, mentre l'altra mano fini per errore a scontrarsi con le dita di Taehyung.
Il minore si sottrasse al contatto e l'altro si girò nella sua stessa posizione, guardandolo negli occhi in attesa di una risposta.
«Ho paura di mio padre. E tu?»
«Ho paura che le persone mi facciano del male.» rispose in un sussurro, senza alcuna esitazione, spinto dalla fiducia.
Kook non riusciva a comprendere come fosse possibile che una persona tanto solare e allegra avesse una tale fobia.
«Tu? Paura delle persone?»
«Ho paura che se ne vadano come hanno fatto mamma e papà, che mi avevano promesso che sarebbero per sempre rimasti al mio fianco, per poi pugnalarmi e lasciarmi logorante in solitudine.»
Sua madre gli aveva assicurato che non sarebbe mai scappata, eppure doveva accontentarsi del suo lontano ricordo, sperando che non ricapitasse mai più tale dolore.
Jungkook si sentì male, con i senti di colpa che lo graffiavano: era proprio quello che aveva intenzione di fare quando Taehyung non gli sarebbe servito più, con cattiveria e privo di compassione. Lo immaginava nella disperazione a causa sua, tradito dal suo nuovo amico di cui tanto si fidava.
Si stese supino, chiudendo gli occhi e sbadigliando.
«Rimani con me, questa sera. Torniamo a casa domani mattina.»
Anche Kook era stanco per via delle difficili discussioni, per cui si voltò verso la luna, che gli illuminava le palpebre chiuse: avvertì le loro falangi scontrarsi di nuovo, ma questa volta lui non le volle ritrarre.
La mattina successiva, dopo che entrambi si diedero l'ultimo congedo, Kook arrivò a casa mentre il sole albeggiava, ma le sue chiavi gli scivolarono per lo spavento, ritrovandosi Namjoon davanti con braccia strette al petto ed espressione criptica. Deluso, severo, preoccupato: giurò di aver potuto acchiappare la tensione con la mano libera se avesse avuto la possibilità di muoverla, ma entrambi rimasero fermi l'uno di fronte all'altro.
«Dovremmo parlare.» esordì Namjoon dopo diversi secondi di silenzio e Kook deglutì. Non aveva scusanti per il suo ritardo.
Namjoon e gli altri si dicevano sempre dove andavano per tutta la notte: al più grande era capitato di andare da Yoongi, a Minsoo dalla ragazza e ad Hoseok era capitato di dover stare tutta la notte ad esercitarsi e migliorare dei passi di danza dentro un piccolo appartamento a ridosso della strada qualche isolato più avanti. Il minore non si era neanche preso la briga di avvisare.
Jungkook chiuse la porta e poggiò le chiavi al loro posto, deglutendo ed alzando il mento il tanto che gli bastava per poter guardar bene il suo amico, data la differenza di qualche centimetro che rendeva il pittore minaccioso.
«Dimmi tutto.»
«Questa storia sta durando fin troppo.»
Jungkook aggrottò le sopracciglia, in confusione, perché nessuna storia era mai cominciata. Con Taehyung era la prima volta che si vedeva, né gli aveva mai detto niente di quella sua trovata per giungere alla pubblicazione in modo losco.
«Come, scusa?»
La ramanzina era proprio ciò che non sopportava, specie se fatta da Namjoon, che aveva solamente tre anni in più di lui eppure si comportava come se dovesse proteggere a tutti i costi il più piccolo dei quattro coinquilini, credendolo ingenuo. «Yoongi mi ha detto che giorni fa, circa un mesetto, quando è uscito con Jimin gli ha notato dei segni sul collo. Me ne avevi parlato, non ti biasimo per questo, piuttosto per il fatto che non vi siate mai più visti, rendendo il povero Jimin uno straccio, senza che sia successo nulla che rovinasse il vostro rapporto.»
Fu come se lui avesse sentito la verità e non quello che voleva sentire! Jimin non voleva più rivolgere la parola a Jungkook, chissà per quale altra fissazione ed imbarazzo. «Sto cominciando a pensare che tu l'abbia fatto con un doppio fine.» proseguì ed il collo del bruno scattò come una molla, con gli occhi ormai sgranati, sentitosi preso in causa. «È passato un mese e per tutto questo tempo invece di concentrarti a vivere la tua vita sei stato col capo chino a scrivere, a scrivere e a scrivere. Come se avessi trovato un appiglio per raggiungere il tuo ideale, no?»
La vera motivazione non era stata certo quella, ma non era nel torto quando affermava che l'avesse fatto per giungere ai suoi scopi.
«Namjoon, anche se fosse, non eri stato tu il primo che mi aveva proposto un'uscita con l'amico di Yoongi in caso diventasse un'esperienza positiva solo nel mio interesse?» ribatté, allontanandosi di qualche passo, il necessario per fronteggiarlo completamente, guardandolo da capo a piedi.
«Volevo ti facessi delle amicizie, così da lì ne avresti fatto buon uso, non che sfruttassi le persone e le lasciassi con la bocca asciutta perché magari ti sei pentito. Cristo, Jungkook, sei un incoerente ragazzino che pensa solo a se stesso. Poi quel cognome, Boyer! Lo sapevo che c'era qualcosa che non quadrava, già dall'inizio non avevi intenzione di starci con lui ma di usarlo e basta. Poi perché non torni da lui, per completare la tua opera? Non vuoi più pubblicare utilizzando qualcun altro, oppure temi che possano ridere ancora di te, in editoria, leggendo le tue frasette scritte come un ossesso?» concluse in tono più acido e severo, con la voce che risuonava nella cassa toracica come in una caverna.
«Non me ne frega niente di Jimin, faccio quello che voglio con il mio libro!» urlò, lasciando che le sue parole echeggiassero fin fuori alla finestra, nel viale, e rimbalzassero sulle case dalle facciate sporche e medievali, ancora da ristrutturare nelle nuove e sfavillanti palazzine haussmanniane.
«Poi, mi fa schifo stare con un uomo. Non sono come te...» concluse a bassa voce ad occhi ridotti a fessure. L'acidità delle parole si ripercosse nel petto, che si strinse come i suoi pugni: non era più una semplice ramanzina, ma una dichiarazione di guerra tramite il silenzio frastornante.
Tuttavia, la guerra non è affare di tutte le Nazioni, se esse non hanno a disposizione un valido esercito ed un'esemplare flotta.
Namjoon strinse i pugni e guardò verso il basso, indietreggiando di qualche passo.
«Non sei come me, ha ragione.»
Lo sguardo pallido dell'offeso gli fece pensare di aver appena compiuto un grave errore, testimoniato anche dalla spallata data quando Namjoon uscì di casa senza neanche prendere le chiavi. Il minore non disse nulla, fissando il legno malandato e mangiato dai tarli dal quale entravano spifferi di corrente.
Gli aveva sputato in viso, crudamente, che non era come lui e non andava contro la natura, con quel suo atteggiamento libertino e dissoluto e le sue tendenze ribrezzanti. Lui era normale. Lui aveva avuto un rapporto con Jimin solo perché doveva arrivare al suo tanto atteso traguardo, senza temere di sentirsi orribile. Non era una novità, tra gli uomini, che ci fosse una persona tanto egoista quanto disperata: dopo il libro tutto sarebbe terminato, esattamente come era terminato lo spostamento dell'aria e il conseguente tonfo causato dalla porta non appena Namjoon se ne fu andato. Sentì i suoi passi scendere la scalinata dell'ingresso per qualche altro secondo, durante i quali anche i suoi pensieri furono silenti.
Poi portò entrambe le mani attorno alla testa, quando si rese conto che la vocina dentro essa riprese a parlare assiduamente, privandosi di attimi di tregua.
Non appena si voltò verso la porta notò il buio come la notte. Ma non era notte, bensì buio come quello che avevano descritto lui e Taehyung la sera prima. Il buio che era la paura di aver trafitto Namjoon con una spada, durante quella battaglia. Il suo amico era debole d'esercito, ma Kook non si risparmiò nel cospargere sangue sul terreno di guerra, recidendo il cuore in due parti esatte.
Jungkook non aveva paura del buio. Solo di quel tipo di buio in grado di fargli accapponare la pelle, sentir rivoltare lo stomaco e le dita delle mani e dei piedi tremargli. Il buio causato da Namjoon che se ne era andato: era in ansia, come se si fosse addentrato in un atro labirinto senza fine.
Hoseok e Minsoo stavano dormendo beatamente nelle loro camere, con le porte chiuse, e neanche si erano accorti di tutto quello che era successo e dei demoni che erano entrati in casa, assillanti ed urlanti, nelle orecchie di Jungkook, che si coprì con le mani, struggente.
Namjoon non tornò più a casa, da allora, lasciando Jungkook con le parole alla gola che lo strozzavano: buio, rimpianti e perdono.
Aveva proprio paura dell'oscurità ed ormai ne era certo, così come la sorella di Taehyung aveva paura di passare una notte da sola, senza il fratello più grande a ricordarle di fare bei sogni grazie alle favole della loro mamma. Ci sono degli esseri umani tormentati dalle paure ed altri che capiscono come inondarsi di luce, poiché ella, quella mattina del quattordici giugno, fu ritrovata addormentata e distesa davanti al camino, sporca di fuliggine su fronte e gote. Aveva sopportato la stanchezza della notte fino a che non vi era abbandonata ad essa.
Non era il buio a causare strazio in Jungkook; non era esso un demone, perché il demone era Jungkook stesso.
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