「08/07/1865」
27.
Le campagne di Vienna erano meravigliose: anche d'estate c'era quel fresco venticello ed un'aria pulita, forse perché la fabbrica più vicina distava a circa una cinquantina di chilometri. Jungkook alzò il capo e ispirò dell'ossigeno nei suoi polmoni, assieme al profumo dei fiori che sbucavano da ogni siepe. Se non fosse stata notte, probabilmente avrebbe visto tutti i loro colori e ne sarebbe rimasto estasiato, così come lo era di quella masseria abbandonata posta alla fine della strada, alla fine di un vallo poco profondo. Si potevano udire tutte le cavallette cantare e le parole dei gufi che risuonavano nel buio, alla ricerca della loro casa, posta in qualche albero.
Si notava addirittura qualche lucciola posta sulle foglie, illuminandole di un colore giallognolo. Chissà perché Taehyung aveva scelto quel posto per parlargli e come aveva fatto a scoprire una così meravigliosa località.
Gli aveva detto di non preoccuparsi, che l'avrebbe raggiunto quella sera e di poter andare in qualunque zona, dato che lì non abitava nessuno da molto tempo.
Immaginava già a che anno appartenesse quell'antica fattoria: millesettecento? milleseicento? Gli giunsero alla mente immagini di qualche agricoltore del tempo che, non solo zappava la terra col suo aratro, ma trovava anche il tempo per far pascolare i suoi animali. Per quanto il luogo era ancora ben curato, con qualche albero sicuramente centenario, significava che quell'uomo aveva fatto un eccellente lavoro con tutta la sua passione e tutto il suo sudore, per sfamare sé e la sua famiglia. Era grato a lui per lo spettacolo a cui gli permetteva di assistere.
Si chiese poi come mai era stato costretto a lasciare quella fattoria: forse si era spostato in qualche altro Stato? Scosse il capo, tristemente: dava l'impressione di essere un regno a sé, quello lì, impossibile da lasciare se non a causa di forze maggiori. Forse, addirittura, quell'uomo non aveva neanche famiglia con cui condividere quel ben di Dio, tanto che alla sua morte nessuno aveva ereditato quei campi. Se osservava bene, la costruzione pareva essere cresciuta assieme a tutti quegli alberi, senza alcun intervento dell'uomo, tanto che nessun vandalo è stato mai in grado di accorgersi della sua presenza.
Quell'incanto era giunto fino a loro, in quegli anni, quasi fosse un regno fatato fuori dallo scorrere del tempo e dalle intemperie.
Più si avvicinava, più riusciva a riconoscere il grande portale d'entrata, sicuramente in legno, che però non si poteva riconoscere a causa della poca luce.
Sembrava la residenza estiva di qualche Re, per quanto era stata ben costruita, seppure la presenza di un grande capanno sulla sinistra facesse pensare ad un rifugio per animali.
Era strutturata per la maggior parte sul pian terreno, solamente il solaio era al piano superiore.
La porta dell'antica abitazione era posta sulla sinistra ed era aperta, dalla quale si poteva intravedere unicamente tutto il buio che sembrava essere intrappolato là dentro da secoli, senza essere mai cambiato con dei raggi solari; il pavimento era colmo di polvere e sporcizia, anche della paglia lasciata lì distrattamente e disordinatamente.
Per quanto la fattoria sembrasse grande, la prima stanza in cui Jungkook entrò — o almeno, cercò di entrare a causa di tutti quegli ostacoli per terra — sembrava essere molto piccola, che presentava unicamente un tavolo e delle sedie, sicuramente mangiati dai tarli, qualche tegame ed una zona angolare che fungeva da forno. Infine, nel pavimento, era posto un pozzetto utilizzato con molta probabilità come dispensa del sale e di tutte le provviste che avevano bisogno di essere conservate a lungo.
Intravedeva anche una porta alla fine del salone, che portava in un'altra stanza, che non volle però raggiungere, col timore di profanare la tana di qualche serpente, topo, o qualsiasi altro animale che non aveva intenzione di incontrare. Il fatto che la porta fosse ridotta in terribili condizioni lo frenò ulteriormente dall'andare avanti.
Si chiedeva per quale ragione Taehyung gli avesse chiesto di andare in quel luogo per terminare quel discorso di un paio di settimane prima. Alla luna piena era mancato tutto quel tempo, per cui lui non poté far altro che aspettare e cercare di non comportarsi come uno stupido ogni volta che incontrava Taehyung, il che era difficile, dato che vivevano assieme. Dopo la loro conversazione le cose erano cambiate, dato che non se la sentiva più di scappare da lui: se fosse stato un ragazzo forte, sarebbe stato in grado di affrontarlo e avrebbe messo a tacere velocemente il suo cuore irrazionale, uscendone vittorioso. Eppure, non era tanto forte, e questo l'aveva sempre saputo: era certo che, se avesse cominciato a non connettere più, non ci sarebbe stato più modo per tornare indietro e avrebbe rischiato di distruggere la loro amicizia.
D'altronde, l'aveva già rischiato più volte, questa volta più di tutte.
Insomma, non lo voleva semplicemente ammettere a se stesso, rischiando di starsi sbagliando.
Mi passerà, mi passerà, si diceva incessante, ormai ogni giorno, senza neanche volerlo.
Quando mangiavano allo stesso tavolo, era diventato complicato guardarsi in volto senza divenire rosso, per cui preferiva tenere gli occhi il più a lungo possibile sulla sua minestra, anche se il nodo allo stomaco cercava di impedirgli di mandare giù quel cucchiaio.
Ci doveva fare l'abitudine a fingere di essere forte fino a quando se ne sarebbe convinto e finalmente il suo cuore avrebbe smesso di fare dei brutti scherzi. Ma chi glielo aveva permesso di comportarsi in quella maniera?
Jungkook lo sapeva che non avrebbe dovuto mai ascoltare Taehyung e fare quella cazzata assieme, seppur quello sarebbe significato lasciare il proprio padre in vita.
Ogni volta che ci pensava sentiva sempre quel solito vuoto: suo padre era morto. E neanche sapeva dire se quel vuoto fosse piacevole o spiacevole.
In momenti gli accadeva di sorridere, guardando il cielo e ridacchiando, sentendosi sollevato e felice, in altri abbassava gli occhi e si chiedeva se fosse stata la scelta più giusta.
Si guardò la mano che aveva stretto quella stessa pistola utilizzata per porre fine alla sua vita, ripensando a come una delle pallottole che aveva tenuto tra le sue dita e che aveva posizionato lì dentro, era servita per ucciderlo e adesso era ancora conficcata dentro al suo corpo privo di vita e in decomposizione.
Pensò al volto del genitore di colore pallido, cibo per qualche verme. Chiuse gli occhi, poggiandosi ad una parete, dopo essersi assicurato che non c'era nessun insetto a scorrazzare lì sopra.
Se lo immaginò come pasto dei suoi simili e se qualche volta gli era sembrata una bella visione, adesso desiderava solamente vomitare, per quanto era lo schifo che stava provando.
Dei vermi che mangiavano la faccia di suo padre, permettendo alle ossa del viso scarno di poter essere visibili anche senza quella sottile coperta di pelle.
Pensò nuovamente al sangue dell'uomo che sgorgava dal suo petto nel punto in cui il proiettile l'aveva trapassato, togliendogli il respiro e la vita, e pensò a quel pavimento che aveva ancora tracce di quel liquido della morte, scuro come vino. Rabbrividiva a pensarci e a pensare che qualcuno, per tirarlo su di lì, si era sporcato le mani con il suo sangue, quello che non aveva osato toccare poiché non voleva un omicidio alla vecchia maniera, con una lama affilata, per quanto codardo era stato. Pensò alle sue ossa che adesso erano conservate da qualche parte che lui non conosceva, lontane dal suo assassino, le quali temevano di essere profanate, come successo con il corpo di colui che le aveva possedute. Era ancora presto perché si trasformassero in polvere, ma già se le stava immaginando, quei piccoli trucioli che una volta erano una persona, che erano desolati da qualche parte, separati l'uno dall'altro, prima del tempo. Tutto a causa sua.
Brividi, brividi, brividi.
"Tu quoque, Brutus, fili mi."
Si portò la mano tra i capelli, stringendoseli, nel mentre si teneva stretto alla parete.
Sentiva addirittura ancora l'odore del sangue che aveva formato una grande chiazza sul pavimento del piano interrato di quel magnifico teatro, scenario di numerosi momenti della sua infanzia, ai quali aveva dato una rovinosa fine.
Giurava che quei tempi lontani, in cui ancora non era cresciuto abbastanza da capire quanto suo padre gli avesse fatto del male, erano belli e splendenti, fieri come statue di un tempio greco. Allora, forse, era lui ad essere stato il problema? Prima, tutto pareva normale e la sua vita era perfetta.
Forse non avrebbe mai dovuto crescere e sarebbe dovuto sempre rimanere quel bambino obbediente che pensava con la propria testa solamente quando occorreva farlo e che ascoltava ogni richiesta del suo parente più stretto.
Era colpa sua per non essere stato in grado di rispettare la sua volontà e non aveva nessuna competenza per scrivere il libro che suo padre avrebbe tanto desiderato. Ci aveva mai pensato se lui, con quelle minacce, volesse dargli un'importante lezione di vita?
Ma quale lezione di vita, quale lezione di vita! Non avrebbe mai potuto sapere del perché delle sue azioni, soprattutto perché la sua codardia gli aveva impedito di poter scontrarsi direttamente con lui e di sapere la verità, trasformandosi in un vero e proprio assassino.
Non che non lo fosse già, ma aveva ucciso quell'uomo con il collo di una bottiglia in vetro rotta solamente perché desiderava difendere una ragazza che non meritava di avere il suo orgoglio infangato.
Ripensò a quanto tutto sia partito da quel momento, da quell'uccisione, da quella povera ragazza, da se stesso.
La sua mano stringeva la cute ancora e ancora, quasi a volersi fare del male, dato che questo dolore era il minimo che si meritava. Mano sporca, mano da omicida, mano che aveva afferrato una bottiglia, che adesso era nascosta da qualche a Parigi, con segni di sangue e delitto. L'aveva afferrata lui, aveva stretto lui quell'arma, era lui un omicida.
Chissà se le sue stesse mani sarebbero state in grado di porre fine alla sua propria vita, per quanto erano pericolose.
Quel verme si fece largo nella sua testa, mangiando parte del suo cervello così come quei vermi stavano proprio in quel momento mangiando le carni di suo padre.
Strinse i pugni, digrignò i denti e serrò le palpebre. Che diamine di idee gli venivano in testa? Non voleva morire, non voleva far trovare il proprio corpo senza vita a Taehyung, che sarebbe arrivato da un momento all'altro. Voleva risolvere con lui e sentire da lui altre parole che gli avrebbero stretto il cuore, anche se questo avrebbe comportato diventare rosso in viso, avvertire i palmi delle mani sudare, assieme ai suoi piedi e alla sua fronte, anche se questo avrebbe comportato far diventare i muscoli di tutto il suo corpo molli e dunque non sarebbe stato più in grado di camminare per qualche minuto.
Voleva sentire il suo cuore scaldarsi per Taehyung, voleva sentirlo battere per lui, qualsiasi cosa essa significasse, ma era certo che non voleva morire per le sue stesse mani.
Non significava affatto che tenesse alla sua vita più di quella degli altri che aveva ucciso: lui era un omicida, ma aveva lo spirito puro, uno spirito che permetteva al cuore di avere vita.
Non si meritava di avere anche uno spirito oscuro, sebbene il tanto travaglio che aveva subito in passato. Ma il passato è passato, no?
«Jungkookie? Dove sei? Sei arrivato?» sentì una voce proveniente dall'esterno, realmente inconfondibile.
Era notte, poteva arrossire senza che Taehyung se ne rendesse conto anche se lo guardava dritto negli occhi.
Gli mancava il suo sguardo, assieme al perdersi nel proprio riflesso misto all'essenza più profonda di Tae, tutto ottenuto grazie alla luna e le stelle che fungevano da fonti di luce.
Si passò una mano sul viso, allungando le palpebre inferiori, con l'intento di svegliarsi da quell'incubo e da quegli orribili pensieri che si stava facendo.
Prese un gran respiro, cercando di calmarsi. Il suo cuore avrebbe ricominciato a battere tra poco, non era meraviglioso quello?
«Taehyungie! Sono qui dentro!» esclamò con la voce più ferma che poteva sostenere, aspettando che il ragazzo lo raggiungesse.
«Woah» Taehyung, una volta entrato, si guardò attorno, notando tutte quelle cianfrusaglie grazie alla poca luce del satellite che entrava attraverso una piccola finestrella, e si poggiò al telaio della porta, abbastanza bassa rispetto all'altezza normale, con entrambe le mani. «Sembra essere successa una rivoluzione qua dentro.»
«Come hai scoperto questo posto?» chiese Jungkook, osservando anche lui tutt'intorno, domanda che desiderava fare sin da quando era arrivato.
«Non ci sono mai entrato, però l'altro giorno stavo passeggiando di prima mattina — ti ricordi? Quando sono uscito prima perché avevo bisogno di aria fresca — ed ho notato un cancelletto arrugginito dal quale si accedeva ad una stradina alberata che conduceva a questa casetta abbandonata. Mi avevano colpito principalmente i fiori violetti all'inizio della strada.»
«Con questa luce parevano neri.»
«Peccato. Allora una volta dobbiamo passarci anche durante il giorno. Magari possiamo anche trovare qualche albero da frutto da qualche parte, nella nostra passeggiata, e raccoglierne qualcuno. Ho tanta voglia di mettere sotto i denti una mela rossa.»
Jungkook annuì con un mugugno, tornando a guardarsi intorno.
«E invece, come mai hai scelto questo posto per parlarmi?»
«Perché adesso che non abbiamo più il Montmartre, volevo trovare qualche luogo desolato, in mezzo alla natura, solamente nostro. Sembrava ci stesse aspettando, quest'antica fattoria.»
«Il proprietario non sarebbe tanto contento di noi che osserviamo i suoi averi.»
«E chi te lo dice? Non potrai mai saperlo con certezza. Forse ha reso questo luogo così bello per poterlo tenere tale per secoli e secoli, fino a quando non sarebbe stato il luogo segreto di qualcuno.» Tae fece un piccolo sorriso, portando le mani in tasca e muovendo leggermente il piede per terra, lasciando la scia della sua scarpa.
«Tae... potremmo passare a te che finisci quello di cui stavamo parlando? Mi hai fatto rimanere sulle spine.»
Taehyung che aveva ridacchiato con dolcezza, parlando del loro luogo segreto, aveva spinto Kook a cercare di andare avanti nella conversazione. A volte si chiedeva se lo facesse apposta a renderla così spinosa ed imbarazzante.
«Hai ragione. Sei stato paziente, Kookie.» gli sorrise solare, tale che sotto gli occhi si crearono delle piccole mezzelune. Gli afferrò poi la mano, tirandolo a sé e proseguendo verso la porta dell'altra stanza nella quale Jungkook non aveva voluto entrare per paura di qualche animale.
«AAH- dove stiamo andando?» esclamò preso alla sprovvista e col rischio di inciampare in un ramo massiccio posto per terra che si mimetizzava col pavimento poco illuminato.
«Sto cercando una stanza. Se sta, certo. Dovrebbe esserci, sperando che non c'è rimasta qualche cimice dei letti.» ridacchiò Taehyung, trascinandolo ancora con sé.
Jungkook non si concentrò molto sull'ultima frase detta dal ragazzo, che era stata detta come una sorta di provocazione, aspettando di osservare la sua reazione.
Rimase un po' deluso dell'essere stato ignorato, ma sempre divertito del suo amico che rischiava di cadere ogni due per tre.
«Aaah, fanculo, stai fermo, sembro un imbranato se mi fai correre così!»
Avevano percorso tutto quel grande stanzone, che era colmo di cianfrusaglie, tra cui numerosi mobili e cassettiere distrutti, la cui utilità non si poteva ben identificare. Forse era anticamente un salone, dato che vi era una piccola cavità con la finalità di camino, magari con attorno qualche sedia comoda.
O forse no, dato che a un contadino non servivano tali comodità, ma anche la misera semplicità.
Aperta la porta sul fondo della stanza si trovarono in un piccolo e stretto ambiente, sviluppato di più in lunghezza, che presentava sul suo fondo un letto molto malandato, i cui piedi posteriori si erano entrambi rotti e per questo era finito per terra.
Le coperte lasciate lì si erano quasi trasformate in polvere.
«Beh mi aspettavo molto di meglio.»
Jungkook alzò un sopracciglio, confuso dalla sua affermazione, nel mentre cercava di togliere dai suoi pantaloni la polvere che c'era finita passando accanto ad un ammasso di vecchio legno.
«Che vuoi dire? Ovvio che questa casa fa schifo, è disabitata da decenni e nessuno ha mai pensato alla manutenzione.»
Tae alzò gli occhi al cielo, ruotando gli occhi. Non c'era gusto adesso che non capiva lo scherzo che gli stava facendo solo per vederlo imbarazzato. Va bene, bastava aspettare solamente qualche minuto ed era sicuro che l'avrebbe rifatto.
Certo, certo! Da quando aveva visto il volto di Jungkook diventare tutto rosso, forse aveva capito cosa gli era preso e da allora non poteva smettere di sentirsi leggero e sollevato, dato che tutte le sue preoccupazioni erano risultate essere vane.
D'altronde lui l'aveva sempre saputo, nel suo profondo, sebbene credeva che quella vicenda avvenuta qualche mese prima se l'avesse immaginata.
Scosse il capo, togliendosi per adesso quel pensiero dalla testa, che avrebbe ostacolato il racconto principale, scopo di quell'incontro.
«Ti ho mai raccontato di quello che successe con un mio amico quando andavo a scuola?»
Chiese, avvicinandosi alla finestra, attirando a sé l'attenzione del bruno, appena alzatosi.
«No, certo che no. Altrimenti credo che non saremmo qui, questa sera.»
«Ci saremmo venuti comunque, anche se la situazione sarebbe stata poco poetica, a mio parere. E perché sprecare un luogo così splendido se non in modo poetico?»
Jungkook annuì, trovandosi in accordo con le sue parole: da quando aveva conosciuto Taehyung la poesia non era più un semplice ammasso di parole poste in rima, ma una vera e propria forma d'arte in grado di esprimere tutti i più spigolosi angoli della propria anima senza neanche la paura di non essere capiti dato che si comunica unicamente con se stessi.
«Mhmh. È per quel tale che hai paura di essere abbandonato?» chiese, tentando di avere un breve riassunto del racconto.
«Già.» girò il capo da qualche parte, cercando qualche luogo su cui sedersi. L'unica sedia che c'era nella stanza aveva la gamba mozzata e dunque era caduta per terra, per cui non c'erano altri luoghi dove sedersi, se non ai piedi di quel letto malandato. Si avvicinò lì, sedendosi con le gambe incrociate e fece segno a Jungkook di fare lo stesso, mettendosi davanti a sé.
Una volta che i due furono seduti frontalmente, Taehyung non perse tempo ad afferrare le mani del ragazzo e a giocherellare con le sue unghie. Non erano molto lunghe, probabilmente perché troppo deboli e perché si rompevano facilmente: aveva notato che ad alcune si erano appena spezzate dato che, al tatto, apparivano più affilate di tutte le altre, dalla forma arrotondata. Era concentrato sulle sue dita che afferrava con tutta la facilità del mondo e che combaciavano alla perfezione con le proprie, come pezzi di un puzzle, con l'unica differenza che era più complicato sbrogliare quell'unione che trovarla; non aveva tempo di concentrarsi sul viso di Jungkook, in quel momento doveva solamente giocherellare con le dita e mettere assieme tutti quei lontani ricordi che avrebbe desiderato dimenticare.
D'altronde, nella vita di ogni studente c'è stato almeno un ricordo spiacevole che si vorrebbe con tutto il cuore dimenticare e, se ciò non è mai accaduto, significa che quello studente non è cresciuto sopra i propri dolori e non ha cresciuto il proprio castello della vita con dei pesanti mattoni in pietra viva.
«Tu lo sai, non ho mai vissuto nel lusso e sempre in periferia, per cui lo stesso è stato con la mia scuola. Ho frequentato l'école primarie fino ai miei dodici anni ed avevo il sogno di iscrivermi anche ad un'istruzione superiore, apprendere tutte quelle materie come la filosofia, le scienze naturali, il latino, anche il greco. Tuttavia, la mia famiglia non è mai stata molto ricca e l'unico modo per sfamarla era andare a lavorare, dato che mia sorella era nata da poco e necessitava di tutte le attenzioni possibili.»
«Storia triste in arrivo, ne avevo proprio bisogno questa sera.» disse Jungkook con fare scherzoso smorzando l'atmosfera, tanto da far ridacchiare anche Taehyung.
«Dai, non fare lo stronzo. Ognuno ha un proprio passato ed ogni passato va raccontato, sempre facendo attenzione a non occuparci anni.»
«Quello no, certo che no. Chi lo fa mi dà solamente pena.»
Non smise di giocare per un attimo con le dita di Jungkook, le utilizzava come una sorta di antistress.
«Credo che la mia infanzia abbia avuto termine quando mi venne detto che non potevo più andare a scuola, tanto da non essere in grado di tenere il capo alto per qualche giorno, qualche settimana: perenne era la mia sensazione di vuoto, dato che non dover più imparare era la pena più grande che mi si poteva dare, come fossi un giovane peccatore. Peggio dell'essere mangiato vivo, era quella sensazione. Già avevo più volte percorso il tragitto che portava dalla mia casa natale, fino alla fabbrica di tessuti dove avrei prestato servizio, strada che durante l'inverno faceva rabbrividire. Solamente il mio migliore amico sapeva che avrei dovuto abbandonare gli studi per cominciare a lavorare, un ragazzino di nome Thèo, di statura e corporatura media, che si confondeva tra la massa. Era un semplice e tipico ragazzo senza alcuna caratteristica particolare, ma che era in grado di farmi ridere tanto, fino a farmi sbellicare dalle risate.»
Jungkook alzò un sopracciglio, fingendosi offeso dal fatto che avesse tirato in ballo il suo vecchio migliore amico, ovviamente per nulla paragonabile a quello attuale, ovvero lui. Certo, tutto scherzosamente, facendo ridacchiare ancora Tae.
«Scemo. Tu mi fai ridere anche se ti muovi, già afferro al volo quello che vuoi dire.»
«Così non c'è più gusto però.»
Taehyung si avvicinò a lui con il corpo poggiando allora la sua testa sulla spalla di Jungkook, chiudendo gli occhi, facendo così sobbalzare il ragazzo, che rimase con gli occhi sgranati e bocca dischiusa. Il cuore gli batteva a mille e non aveva la più pallida idea di come farlo smettere prima che Tae se ne rendesse conto.
«Hai ragione, che ci posso fare se stiamo sulla stessa lunghezza d'onda, però.» sospirò, beandosi del calore del più piccolo. «È capitato tante volte che io e Thèo percorressimo quella strada per arrivare in fabbrica: ci eravamo promessi che fino alla fine mi avrebbe accompagnato, saremmo stati bene assieme, anche se separati. Io per primo, che ero stato costretto a lasciare una mia grande passione per cause più grandi di me. Non nascondo che ero anche invidioso di lui e di quanto era fortunato ad essere ricco, vestirsi bene e con abiti puliti ogni giorno, a poter avere addosso delle scarpe che non erano rotte, ad avere sempre il cibo migliore che la sua famiglia poteva trovare, ad avere sempre i libri rilegati con tutta la precisione possibile. Chissà cosa pensava realmente lui di me, pezzente qual ero, che era ai piedi di Cristo. Diceva di tenere a me, ma continuavo ad avere paura dei suoi pensieri, di tutto quello che aveva nella sua testa. E se lui mi avesse parlato alle spalle con altri ragazzi? Come potevo sapere che ero veramente il suo amico più fidato e non fossi solamente una barzelletta per tutti quei figli di papà?»
Jungkook accarezzò la spalla di Taehyung, dato che dal tono della sua voce si poteva capire che era veramente giù.
«Ogni giorno che passava, più persone mi rivolgevano gli sguardi, ridevano dei quaderni stropicciati e già scarabocchiati, più temevo che Thèo fosse andato in giro a raccontare della mia situazione economica e di come avrei lasciato in futuro la scuola. Sapevo, sapevo che era stato lui, sapevo che dietro quel dolce sorriso c'era un mostro, che utilizzava la mia vita per ridere con tutti gli altri più popolari. Come potevo biasimarlo per quello che aveva fatto? Era l'unico modo per cui la mia inutile vita servisse a qualcosa e avrebbe fatto felice qualcuno: l'unica cosa che potevo fare era correre via e attraversare quella strada che portava alla fabbrica di seta che cominciava a presentare i primi boccioli della primavera. Mi ricordo che quella sera urlai e caddi a terra stremato. Tutti avevano riso di me, tutti mi consideravano uno scherzo, un giullare.»
Jungkook gli strinse con dolcezza la mano. «Sebbene tutto, ho sempre creduto che lui fosse lì con me, che lui non avesse detto loro nulla, che continuasse a stringermi la mano, che continuassimo a correre assieme per i campi. Avevo paura di perderlo, avevo paura di essere abbandonato e lasciato solo in quel mare di belve che non facevano altro che puntarmi il dito.»
«Hai paura che anche io ti lasci.»
Taehyung annuì, spiaccicando la sua faccia sulla giacca di Jungkook, annusando anche il buon profumo che la sua pelle emanava. «TaeTae, eravate dei ragazzini, i ragazzi non mantengono le promesse. Eri ingenuo, eri debole. Adesso siamo qui, adulti, che siamo pronti a difenderci a vicenda, perché siamo entrambi ancora deboli e con tante lacune.»
«Forse siamo fatti per stare assieme.»
Perse ancora una volta un battito. Come gli era venuto di dire una frase del genere? Il cuore di Jungkook cominciò a battere senza neanche un attimo di tregua, tanto da provocare un forte dolore al petto, assieme alla stretta allo stomaco e adesso anche una alla gola.
«C-che vuol dire?»
«Che forse tutti quanti facciamo parte di un enorme puzzle e abbiamo dunque le sembianze di pezzi. Sai quanto è difficile trovare due pezzi che si incastrano perfettamente l'uno con l'altro? Forse Thèo era solo simile al tuo pezzo, quando invece l'unica persona che potrebbe completarmi sei tu.»
«Da quand'è che hai cominciato a dirmi cose tanto dolci?» chiese in imbarazzo, abbassando d'istinto il capo.
«Da quando mi hai confermato che non mi abbandonerai. Come va con Gowon?»
«È innamorata.»
«E tu?»
Sospirò. Tanto valeva dirglielo. Era il suo migliore amico, sebbene tutto quello che gli faceva provare, e se non veniva confortato da lui allora non sapeva proprio come risolvere i suoi problemi.
«No. Mi serviva solo per dimenticare qualcun altro.»
Taehyung alzò il capo da lui e sbatté ripetutamente le palpebre in un modo carino e divertente che, in altre situazioni, avrebbe fatto ridere Kook. Non era il momento migliore, appunto.
«Chi altro c'è?»
Che avrebbe dovuto dire? Ormai aveva il cuore in gola, non era in grado di parlare riguardo quell'argomento; era un libro aperto, era certo che un giorno Taehyung l'avrebbe scoperto, ma doveva cercare di tenerlo nascosto per sé il più a lungo possibile. Come se fosse mai possibile se lo osservava con quegli occhi meravigliosi.
No, no, sperava che non glielo dicesse mai, dato che era certo fosse soltanto una fase che sarebbe terminata dopo qualche settimana. Magari forse più di qualche settimana, ma prima o poi sarebbe passata: si conosceva abbastanza da saperlo.
«Allora, tu come hai studiato se dovevi lavorare?»
«Per conto mio e grazie a mia madre, lo sai. Chi altro c'è?» insistette con impazienza, poggiando entrambe le mani sulle sue spalle.
«Perché ti interessa tanto saperlo, Tae?» disse con tutto il coraggio che aveva in corpo. Per la verità, non sapeva neanche come era stato in grado di far uscire quella frase quando le sue corde vocali erano congelate.
«Perché sono tuo amico e se mi stai nascondendo qualcosa, vorrei sapere cosa.»
Lo ammetteva, era molto ambiguo il modo in cui si comportava, non sapeva in che maniera mentire per non farlo star male.
Bugie a fin di bene, questa volta. Tentava sempre di dire bugie bianche e di combattere quel suo grande problema con le menzogne.
«Jungkookie, se c'è qualcosa che non va dimmelo e lo risolveremo assieme. Sono qui per te: siamo scappati assieme, sarò sempre pronto per te.»
Come poteva dire quello che la sua mente stessa cercava di nascondere?
Dillo, dillo, dillo: immaginati di confessarglielo e così sarà sempre più chiaro alla tua mente. Ma non voleva che diventasse tale! Non voleva, non voleva quei pensieri e basta. Desiderava riavere la stessa mente di qualche mese prima, oppure il metodo per far dimenticare tutti quegli interrogativi.
Non voleva renderli reali.
«Taehyung, mi hai fatto la ramanzina perché io non ti sono sembrato più Kookie, quando tu stesso non esiti a comportarti stranamente.» si allontanò con il corpo per evitare che posasse nuovamente le sue mani sulle proprie spalle, dato che un contatto fisico, in quel momento, era proprio quello di cui non aveva bisogno.
«È solo una semplice domanda, perché non vuoi essere sincero?»
Il suo comportamento era strano, inaspettato, gli fece quasi perdere qualche battito a causa del suo cambiamento repentino che lo fece quasi temere per la propria incolumità. Ovviamente non aveva paura di Taehyung, ma il fatto che fosse così insistente, quando il più delle volte avrebbe semplicemente lasciato andare l'argomento attendendo che fosse lui stesso a riprenderlo di propria spontanea volontà, gli aveva fatto sorgere qualche interrogativo e provare un po' di spavento.
Jungkook strinse le palpebre e girò il capo, evitando dunque di guardarlo il meglio che poteva, prevedendo che, se si fosse fatto distrarre dai suoi occhi, avrebbe finito per vuotare il sacco.
«Taehyung finiscila! Non voglio dirtelo, va bene? Perché sei così insistente?» esclamò il più piccolo, adesso tenendo un braccio sul viso posto involontariamente al fine di proteggersi meglio.
Attimi di silenzio interminabile, così profondo che non si sentì neanche il soffio del vento fuori dalla casa, come se ogni cosa avesse smesso di muoversi, come se l'orologio del mondo avesse smesso di ticchettare e adesso fosse finito in uno spazio dell'universo dove il tempo era fermo ed era l'unico a potersene rendere conto e a poterlo vivere.
Neanche il fruscio delle foglie, né le cavallette, né lo scroscio dell'acqua del ruscello posto a non molti metri di distanza, nascosto anch'esso nella campagna viennese.
L'orologio appariva rotto, ma quando Jungkook riaprì gli occhi e si rimise composto si rese conto che Taehyung aveva riposto le gambe incrociate e il capo basso, senza dire alcuna parola e senza neanche emettere un respiro, compiendo invisibili movimenti come se fosse un fantasma.
Non osava parlare, non osava interromperlo da quella posizione e neanche infrangere quel silenzio religioso che incorniciava quella situazione poetica quanto una tragedia.
Lo notò mordersi il labbro e alzare le spalle e ingrossare il petto per poter respirare, azione che non si avvertì minimamente al suo orecchio: era forse diventato lui sordo?
«Jungkook.» Taehyung squarciò quel silenzio violentemente, prendendo un grande respiro, che fece aumentare il timore di Kook riguardo quello che aveva intenzione di dire: pareva una cosa abbastanza seria dal tono che stava utilizzando. «Sono insistente per una ragione, non credevo che avrei mai parlato di questo con te. A dire la verità, non ci avevo mai pensato.»
Più che il timore, era la curiosità che quel discorso aveva suscitato.
E allora tutto quanto smise realmente di muoversi, la dimensione diventò solamente loro, il mondo si divise e fece quel luogo una zona privata di quei due.
Adesso il silenzio non c'era più, anche se non parlavano, potevano avvertire i loro cuori battere all'unisono, in una magnifica melodia, sincronizzata, come se fosse stata scritta su uno spartito e guidata da un direttore d'orchestra. Erano loro i loro stesso direttori, direttori di quel magnifico concerto: in quel momento i loro occhi si scontrarono, diversamente da come era successo fino ad allora.
Diverso, stava diventando tutto diverso.
Come era successo tutto quello, da quand'è che era diventato diverso? Forse lo era sempre stato?
Un battito, due battiti, nessun battito, occhi sgranati.
«Cosa?» era incredulo per la domanda che aveva appena sentito pronunciare da Taehyung, che alle sue orecchie giunse ovattata. Sentirlo dire ad alta voce faceva proprio un altro effetto.
Si chiedeva proprio come avesse fatto a saperlo, nello stesso modo in cui un bambino si chiede come un genitore abbia fatto ad accorgersi delle sue bighellonate.
Si sentì svenire, si sentì cadere in un vortice di imbarazzo, in un burrone profondo e oscuro, colmo d'ombra. Perché aveva fatto trapelare così facilmente ciò che il suo cuore aveva cominciato a provare? Il cervello e il corpo non potevano cercare di fare del loro meglio? Perché non ci avevano neanche provato?
Forse erano destinati a fare in quella maniera, forse le cose stavano andando in quella maniera perché era stato scritto in quella maniera ed era inevitabile, doveva solamente accettarlo.
Vergogna, imbarazzo, disagio. Adesso non si poteva più tornare indietro, vero?
Cosa poteva fare, ormai l'aveva scoperto, non poteva fare altro se non annuire.
Gli occhi di Taehyung emanavano una luce diversa: erano certamente felici, ma non aveva quel solito sorriso sulle sue labbra, le quali erano dischiuse; le sue palpebre erano socchiuse morbidamente e si avvicinavano pian piano volendo ammirare più da vicino il volto di Jungkook, che questa volta non accennò a spostarsi. Soprattutto perché non sapeva affatto cosa fare, ovviamente non si era mai trovato in una situazione del genere ed era solamente paralizzato.
Taehyung si avvicinava sempre di più.
«Kookie, voglio dirti un segreto.»
Ed allora il cuore di Jungkook esplose realmente, provò quel calore al petto che non credeva avrebbe mai sentito, le sue dita smisero di tremare a causa dell'ansia, i suoi muscoli si sciolsero, le sue labbra assunsero una piega verso l'altro.
Erano morbide, morbide quelle altre labbra, erano soffici, erano confortevoli, come il ragazzo stesso. Avevano un sapore dolce, il più dolce di tutti quanti, più dolce dei deliziosi croissant che adorava.
Quelle labbra, quelle labbra.
In quel nido, sotto la Luna, sotto il suo consiglio e sotto il suo sguardo, finalmente, Jungkook assaporò le labbra di Taehyung, il quale da più tempo aveva rapito il suo cuore, facendolo arrossire e non facendogli connettere i pensieri, facendolo impazzire.
Era così doloroso, ma era il dolore più bello che voleva provare e che avrebbe mai provato.
Incredibile come Taehyung avesse cambiato Jungkook e fosse stato in grado di cambiargli la vita, che pareva una schifezza prima di lui.
Erano scappati assieme, erano soltanto loro, in quella città bella quanto un sogno, nella quale parlavano una lingua solamente loro, si capivano perfettamente con degli sguardi ed erano in grado di creare concerti con le semplici emozioni dei loro cuori.
«Io lo sapevo già.» terminò Taehyung a fior di labbra, riprendendo poi quel bacio morbido e colmo di tutto il suo affetto e sentimento che provava per Jungkook.
"Non vuoi dirmelo perché sono io, non è così?"
Era stata la domanda che Taehyung gli aveva fatto e che aveva ricevuto una risposta affermativa.
Ovvio che Taehyung se ne era accorto: del resto, era successo quando aveva chiaramente visto il volto completamente rosso di Jungkook per la prima volta e aveva solamente fatto due più due con il suo comportamento strano e più imbarazzato del solito, oltre ad essersi ricordato di quel che non pareva più un sogno, ovvero il 'quasi bacio' avvenuto quasi un anno prima.
Taehyung era solamente molto, molto felice, tanto che aveva più volte pregato sotto la luna che fosse vero quel che credeva, chiedendole di spingere realmente quell'altro suo figlio, che desiderava tanto, dalla sua parte.
Semplicemente, aveva lasciato tutta la sua vita per Jungkook, e solo allora si rese conto che l'aveva fatto perché non concepiva più nessuna esistenza senza di lui.
Per questo gli aveva raccontato quella storia: sperava che non lo abbandonasse mai, anche perché un pezzo di un puzzle è perso senza quell'altro che lo completa.
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