「03/07/1864」
8.
La sera del giorno dopo l'ultimo loro appuntamento, Taehyung si era disteso davanti alla luna prima che arrivasse Jungkook, perché gli cominciavano a fare male le gambe a causa dell'attesa. Sospettava fosse un proprio problema, così come sentire il tempo scorrere troppo lentamente, perché Jungkook non accennava ad arrivare. Il loro solito orario era alle dieci e, prima di allora, non aveva mai fatto ritardo. Taehyung era fiducioso: era sicuro che fosse la sua mente a calcolare scorrettamente l'andamento del tempo. Non aveva un orologio con sé, per cui dovette affidarsi al movimento della luna, che già era arrivata sopra, dai raggi perpendicolari alla terra. Sbatté le palpebre qualche decina di volte cercando di non addormentarsi prima dell'arrivo del suo amico, perché di certo non voleva rimanere senza il suo colloquio serale giornaliero. Jungkook era veramente un bravo ragazzo, anche se a volte si mostrava abbastanza freddo nelle conversazioni: era il suo carattere, non poteva affatto biasimarlo, finché erano i concetti ad essere colmi della sua vera essenza. Gli sarebbe piaciuto parlare con lui ancora e ancora finché l'alba non sarebbe sorta davanti ai loro occhi e la luna non avrebbe salutato i suoi figli che ogni giorno le andavano a chiedere conforto.
Forse quella sera Jungkook aveva avuto un contrattempo, oppure il suo orologio aveva smesso di camminare. Taehyung poggiò una mano sul prato, sfiorando i cari fili d'erba, e sospirò, mentre una folata di vento emetteva il suono della solitudine.
Jungkook non era arrivato, ma non faceva nulla, perché la serata era abbastanza bella tanto da stare anche da solo. Così si era assicurato che il giorno dopo sarebbero rimasti più ore a recuperare tutte le parole e i silenzi che non si erano detti.
L'evento si ripeté il giorno successivo: sotto la luna e sul prato ad aspettare che il suo amico ricomparisse. Aveva tanta voglia, quella sera, di avvolgere il proprio braccio attorno alle sue spalle, come si è soliti fare tra giovani; voleva raccontargli di come quella mattina aveva trovato un cappello per strada che non sapeva di chi fosse, quindi era indeciso sul prenderlo e tenerlo per sé oppure consegnarlo agli incaricati di badare agli oggetti smarriti. Magari con lui avrebbe potuto aprire una discussione su quella faccenda, se fosse o non fosse lecito rubare oggetti in queste situazioni. Oppure anche una chiacchierata leggera, come chiedergli qual era il suo colore preferito di cappello. Il suo era il tortora: lo ammetteva, era veramente un bel colore che con la sua pelle e i suoi capelli andava a pennello - oltre al fatto che fosse la cromatura del suo copricapo preferito.
Forse anche quel giorno aveva avuto da fare: magari stava risistemando il suo libro negli ultimi dettagli. Chi era lui per sottrargli di mano il sogno che tanto lo rendeva un disperato, nel cercare di raggiungerlo? Sorrise dolcemente, immaginandosi il volto felice di Jungkook che si andava a sovrapporre sulla luce della luna di fronte a lui, credendo che fosse abbastanza vicino da poter notarlo vivido come nelle sere passate.
Era davvero contento di aver fatto felice il suo amico aiutandolo a raggiungere quel traguardo che forse, senza lui, era impossibile da poter anche sfiorare con un dito. Era quello il suo contrattempo, ne era sicuro: il giorno dopo si sarebbero rivisti.
Magari sarebbe anche riuscito a scambiare con lui un abbraccio amichevole oltre che qualche parola; anche solo una gli bastava, per la verità, perché Taehyung necessitava di sentirlo accanto a sé, senza che mai lo abbandonasse.
Ma Jungkook non toccò più la stessa erba che era stata sotto la sua schiena.
Taehyung era convinto che sarebbe prima o poi tornato da lui, magari dopo che avrebbe parlato con Seokjin; poi era di nuovo tutto suo. Certo, ognuno coi propri impegni e spazi, perché gli aveva promesso ben due volte che gli poteva dedicare le serate.
La condizione era veramente dura da sopportare, perché voleva parlare con qualcuno: la sua mente era così piena di pensieri che ormai ne perdeva il filo dopo solamente due parole.
Perché Jungkook non tornava? Stava arrivando, riusciva a sentire i suoi passi fin dalla parte bassa della collina e l'avrebbe raggiunto. Jungkook non lo stava facendo, perché non lo stava facendo?
Non lo conosceva da molto, era vero, ma quel poco bastava a dire che, in caso contrario, l'avrebbe rincorso lui. Avrebbe potuto rimanere con sua sorella, tentando di farla addormentare come al solito, ma lei aveva capito che erano i desideri di suo fratello maggiore ad essere la priorità, lasciandogli passare le sere nel luogo che amava più di tutti.
Cos'è che Taehyung aveva che lo rendeva diverso da Jungkook, in modo da non poterlo comprendere a pieno? Forse il carattere: l'altro era più chiuso e meno empatico e ciò lo portava a non comunicare le proprie decisioni serenamente.
Tae, quella sera, doveva solo dormire in santa pace, perché neanche quelle dieci di sera sarebbero mai arrivate. Inoltre, se non fosse andato a dormire, sarebbe stato troppo stanco per passare dall'editoria il giorno dopo. Magari lì avrebbe incontrato Jungkook.
Jungkook.
Un pensiero violento gli attraversò lo stomaco.
Jungkook aveva smesso di andare da lui dopo che aveva ottenuto ciò che voleva.
No! Non aveva letto questo in quel suo amico. Non era quello il motivo per cui pareva odiare rispondere e fare conversazione, eppure gli dava comunque corda. Jungkook era un bravo ragazzo, non sarebbe mai stato in grado di sfruttare Taehyung, perché aveva quell'animo benigno in grado di cogliere l'eleganza e il significato degli astri.
Sfruttare Taehyung. Esattamente come un pupazzo di pezza, quel pupazzo imbottito con dei bottoni al posto degli occhi appartenente a sua sorella. Dopo che gli occhi erano stati tolti e usati per una camicia senza un paio di bottoni neri, l'orso rimase cieco. Si sentiva così maledettamente cieco e bisognoso della voce, anche solo un minuto, di quella soffice e calda voce di Jungkook, il suo unico amico che lo comprendeva a pieno e che non lo aveva ancora abbandonato.
Cos'aveva il proprio carattere che non andava, tanto da essere così evitava? Stancava la troppa allegria, l'ottimismo e il sorriso: essi erano comuni solo nel passato, giocando nell'acqua del fiume assieme ai coetanei dalle gambe esili.
E se Jungkook non avesse provato neanche un minimo di quello che sentiva lui? E se fossero stati semplici conoscenti? Si erano conosciuti da poco e non c'era nulla di cui stupirsi.
Si passò il braccio sopra gli occhi, tirando su col naso: il sonno lo aveva condotto in questi pensieri labirintici.
Il problema era suo, era stata colpa sua tutte quelle volte in cui si era affezionato a qualcuno, che poi se ne era andato. Jungkook era un tipo interessante, sembrava l'altro lato di sé: e quel lato si sarebbe mai dimenticato di quello principale? Eppure erano facce di una stessa medaglia, le quali vanno insieme e non possono essere separate, anche se per anni Taehyung e Jungkook avevano vissuto non sapendo minimamente dell'esistenza dell'altro. Questo significava che avrebbero potuto benissimo continuare a farlo.
Cos'è che in lui non andava? si chiese nuovamente, affondando il capo nel terreno sotto di esso. Erano i capelli? La voce? Il carattere? Le sue passioni?
Quello che sapeva era che Jungkook aveva preso quello che voleva e se ne era andato, dimenticandosi di aver fatto del male al cuore debole e tenero di Taehyung, anche se lo aveva messo in guardia, chiedendogli umilmente pietà.
Taehyung aveva così tanta paura delle persone, persino di colui che gli aveva fatto credere che non esistesse il male di questo crudele mondo.
Nello stesso momento in cui Taehyung si disperava sul Montmartre, proprio Jungkook era seduto al solito bancone, bevendo chissà quale sostanza alcolica. Era consapevole che il giorno dopo sarebbe dovuto essere quello decisivo, quello per cui aveva aspettato così tanto tempo, nella più profonda agonia e che l'avrebbe condotto sia sulla strada della gloria che quella della libertà dall'uomo che più odiava.
Anche se senza Namjoon non era più la stessa cosa: senza le sue pacche sulla spalla, i suoi consigli sinceri da amico e le sue preoccupazioni.
Ma che vada al diavolo! Aveva cominciato lui quella discussione ed era lui che se ne era andato.
Il barista coi baffi attorcigliati verso l'altro, ancora una volta, cercava di estrargli informazioni incuriosito e tirarlo su di morale, mentre asciugava i bicchieri con uno straccio già umido. Lo conosceva abbastanza bene da sapere come rispondergli al fine di non trapelare alcuna informazione che non gli riguardasse, utilizzando anche del tono scorbutico.
«Dammene un'altra.» disse sospirando, dopo aver contato il denaro nel suo portamonete che bastava giusto per un altro boccale, che finì tutto a un sorso.
Sia lodata la povertà, altrimenti la sua fine sarebbe stata cadere ubriaco sul pavimento oppure mettersi a ballare sul bancone, come successo una volta, quando i suoi tre coinquilini lo avevano fermato prima che si potesse rompere un osso distrattamente. Il ricordo gli fu doloroso, soppresso con un altro sorso. Probabilmente sarebbe finito stecchito a terra, privo di sensi, se avesse potuto permetterselo.
Fu distratto da degli uomini che stavano ridendo a gran voce alla sua destra, ad un angolo della stanza, per cui decise di spostare la testa dall'altra parte e di osservare la strada con qualche solito passante notturno, al fine di non urlare loro contro, perché odiava le risa a gran voce.
«Eh già! Mia figlia è una ballerina, devi vedere come riesce a volteggiare!»
Le conversazioni riusciva ancora ad ascoltarle, anche se non era pettegolo e con orecchio lungo come il barista, per cui si prefissò di non dare loro attenzione.
«È un gran bel pezzo, hai proprio ragione!» commentò la voce di un uomo d'età inferiore, mentre rideva assieme all'altro. «L'unica pecca è la sua faccia. Non lo dico per cattiveria, ma lo sai benissimo anche tu! A partire dal naso fino alle orecchie e a quel monociglio. Da lontano sembra carina, però!»
«Tutta colpa di mia moglie. Bisogna sapersele scegliere bene le mogli, una figlia con lei mi è bastata. Fortuna che c'è sempre qualche prostituta qua in giro, vero?» detto ciò l'uomo scoppiò a ridere nuovamente, assieme alla sua combriccola, dando delle pacche sulle spalle a diverse persone. Assieme a loro c'era anche una donna, che aveva notato avere i capelli castani, labbra dipinte di rosso e un vestito dello stesso colore: le sue cristalline risate arrivavano fastidiose anche al ragazzo.
«Hai proprio ragione!» rispose il più giovane facendo sospirare Jungkook e alzare gli occhi al cielo, roteandoli. Non gli poteva importare di meno di quello che facevano gli altri, anche se era ben certo che un uomo che non portava rispetto ad una donna, per lo più della sua famiglia, non era un uomo. Il disgusto gli amareggiò la bevanda. Era proprio per questo che non era intenzionato ad avere una famiglia, almeno per quel momento, poiché la sua mente non era affatto in grado di essere un uomo amorevole e presente con la famiglia.
Era proprio uno stronzo come suo padre e non aveva intenzione di far soffrire la propria prole come aveva sofferto lui.
A partire dal ragazzo che aveva abbandonato sul Montmartre senza riflettere delle sue azioni. Era per una buona causa, in realtà: quanto avrebbe sofferto Taehyung se in futuro avrebbe scoperto che era tutto l'opposto dell'amico che si aspettava? Sperava di averlo fatto soffrire un minimo adesso e non ferirlo ripetutamente in futuro, come era accaduto come Namjoon. Non si meritava nessuno dei due, d'altronde.
Bevve ancora, non perché aveva rimorsi nella propria decisione, ma perché era dolorosa a lui per primo, tentando di compiere un atto di altruismo.
«E con tuo figlio? Come va? Ti ha ridato quei soldi che ti spettavano?» chiese un altro uomo, sempre dello stesso gruppo, dalla voce nasale. Jungkook continuava a tenere la testa girata, ma involontarie orecchie rizzate.
«Stiamo parlando del fallito di mio figlio. Ma un giorno di questi vado alla polizia e confesserò quello che ha fatto al ragazzo morto l'anno scorso e finalmente finirà in prigione.»
Quella risata, quell'agghiacciante risata. In un poema dove il riso e l'allegria erano costanti e opposti al pessimismo, il suono in questione fu in grado di incenerire ogni strato di pelle di Jungkook, il quale, esterrefatto, voltò lentamente la testa dalla parte dove provenivano quelle voci, riuscendo a vedere, con la coda dell'occhio, colui che aveva parlato.
A parlar del diavolo, escono le corna: gli si gelò il sangue nelle vene a riconoscere quel volto anche troppo simile al proprio e il suo respiro si fece corto, analizzando le sue ultime parole ed avvertendo la pressione da parte delle sue costante minacce.
Non poteva essere suo padre, non poteva aver appena detto quelle parole, non poteva farlo veramente: era pur sempre suo figlio. Era spregevole, ma non tanto da denunciarlo.
Quella volta, l'anno prima, era stato uno sbaglio, un semplice sbaglio, e non poteva punirlo dopo che già si era mostrato spiacente. Se lo avesse mai denunciato avrebbe rischiato il carcere e se si fosse saputo della morte talmente violenta che aveva provocato a quell'uomo, l'avrebbero condotto al patibolo.
Di fatto, già sentiva la pelle del proprio collo che veniva staccata da quella della faccia tramite una fredda lama, mentre il mento era posato sul legno liscio della ghigliottina, tutto tenendo le mani legate da una stretta corda e senza la possibilità di scappare. Si portò le dita tremanti tra i capelli, avvertendo già la propria testa privata del corpo ed esso che veniva brutalmente accatastato su puzzolenti carretti colmi di insetti e vittime.
Li percepiva già, tutti quei vermi che, ingordi, correvano dal naso fino al cervello, logorandolo e lasciando solamente un mucchio di ossa come ricordo. Strinse le palpebre, avvertendo dolore: ecco qual è la fine che si incontra dopo la morte.
Quel giorno dell'anno prima era talmente vivido da essere impresso nei ricordi, sebbene avesse tentato più volte di rimuoverlo come se stesse utilizzando una gomma da cancellare farlocca. Era stata anche l'ultima volta in cui aveva preso parte alle uscite noiose di suo padre, la quale non previde la solita visita ad uno dei suoi tanti amici nobiluomini, i quali gli offrivano biscotti al miele e giochi noiosi.
A vent'anni Jungkook era già andato alla ricerca di esperienze con delle donne, specialmente assieme a Namjoon.
Oltretutto, diversi tasselli si erano finalmente assemblati tra di loro, perché adesso capiva come mai, mentre il bruno preferiva passare la notte con una delle ragazze di strada che trovavano in giro mentre entrambi uscivano, Namjoon gli alzava il pollice in su e gli diceva che si sarebbero visti la mattina successiva, certo che c'erano visi e corpi migliori di quelli.
Il padre non sapeva nulla delle sue uscite notturne ed era davvero stanco del ragazzo che non aveva intenzione di trovare moglie, scappando ogni volta dal destino che gli era stato designato dal genitore, scontento. L'uomo si era solo focalizzato su Jungkook che stava via notti intere con Namjoon o chissà quali altri suoi strani amici, per cui un giorno il figlio sentì sussurrare ad un amico con cilindro e bastone qualche frase di cui riuscì ad afferrare soltanto un "devo assolutamente curarlo, mi fa schifo averlo come figlio".
Ecco perché giorni prima aveva schiettamente detto a Namjoon che non era come lui.
Quella situazione gli provocava imbarazzo anche solo a ripensarci, perché suo padre lo credeva omosessuale per Namjoon, dato lui riusciva a nascondere anche troppo bene le proprie notti: era arrivato a pensare di doverlo ricondurre sulla retta via, addirittura, e stringere le forme esili di una ragazza tra le mani.
Suo padre, quella sera vivida, gli aveva messo la mano sulla spalla, ridacchiando solo come un diavolo riesce a fare, mentre camminavano per i vicoli nascosti di Parigi tra donne con ampie gonne, seducenti e dalle capigliature fastose che lasciavano scoperte le spalle «Ti piacerà provare queste emozioni. Poi, conosco un nobile signore dalla figlia abbastanza carina; soprattutto, sono entrambi estremamente ricchi. E fidati, andrà pazza per un ragazzo colto come te: lei cadrà ai tuoi piedi e vivrai una vita da signore, in una lussuosa villona da far invidia a chi ci odia, più grande di casa tua.»
Già da allora aveva compreso che non avrebbe mai voluto fare un tale male ad una ragazza sciagurata, condannandola ad una vita miserabile con un marito come lui ed i figli destinati ad odiare se stessi per essere nati.
«Si chiama Dahyun. Col tuo cognome ci starebbe a pennello, mh?» e gli scappò un'altra risatina, facendo sospirare il ragazzo che intanto sprofondava in se stesso dall'imbarazzo. Aveva infatti visto in lontananza la ragazza biondina, con cui era finito a letto la settimana prima, che gli sorrise cordiale, la quale poi ci rimase male non appena il ragazzo spostò lo sguardo altrove. Gli dispiaceva, dopo aver parlato come due normali ragazzi la mattina dopo, a partire dalla considerazione sui suoi capelli corti e dorati che non le arrivavano neanche alle spalle: le era sembrata veramente simpatica e avrebbe voluto che conducesse una vita migliore di quella.
«Padre, tra cinque minuti torno a casa da solo. Non voglio stare qui.» si impuntò il ragazzo, facendo già cenno di girarsi dalla parte opposta per scappare via, se non fosse stato per la mano di suo padre che lo tenne fermo per la spalla, aumentando la presa tanto da fargli male. Nel frattempo egli non smetteva di sorridere e nulla gli fece più paura di quello sguardo.
«Avete detto di Dahyun, che senso ha fare tutto questo? Domani fissate un incontro e ci parlerò, valuterò se sposarla.»
Non lo avrebbe mai fatto, ovviamente: neanche la più ignobile delle giovani si meritava un tale essere come compagno di vita.
«Sono tuo padre e voglio il meglio per te.» sostenne, in tono severo. Non era vero, quello non era il meglio per lui.
«Fatemi andare a casa.» ordinò, cercando di togliere la mano dalla propria spalla, ma intanto aumentava la presa e il dolore, dovuto anche a lunghe unghia, dalla consistenza di artigli, che stava conficcando nei vestiti e pelle. Mugugnò per la sofferenza, immobilizzato da essa stessa.
«Che bella ragazza che sei!» esclamò un uomo del più del doppio della sua età, indicando una ragazza dai capelli castani raccolti in una crocchia ed abito aderente al corpo, ovvero il suo intimo. Deglutì spaventata, indietreggiando: il suo rossetto carminio era stato già sgualcito senza alcuna pietà e i capelli scompigliati. Sulle clavicole era impresso il segno di un graffio fresco, sporca per tutto il petto. Aveva un neo sotto gli occhi cervone, che Kook riuscì a vedere sotto le scarse luci notturne, i quali chiedevano aiuto, sebbene fosse costretta ad aggiustarsi accattivante il corsetto, speranzosa di guadagnare altri soldi.
Non aveva fiatato neanche per un attimo, poiché non poteva sottrarsi alle violenze di quell'uomo, il quale si avventò sul suo corpicino esile, graffiandolo con degli strumenti di tortura, ovvero delle affilate unghie in metallo che lasciarono il segno delle cinque dita sul suo braccio. Le scivolò una sentita lacrima sulla guancia quando l'uomo la prese per le cosce e la strinse a sé, mordendole l'orecchio e sussurrando qualcosa ad esso, mentre lei tremava a causa del bruciore freddo che provava all'arto colpito. Con uno di quegli artigli le accarezzò la guancia, per poi conficcare la punta in essa e tranciando la pelle, mentre lei stringeva dolorante i denti, desiderosa di scomparire seduta stante.
L'uomo le stracciò anche il vaporoso intimo provocando il suo primo stridulo, che infastidì non poco quel violento. Lei strinse gli arti inferiori, piegandosi in avanti, vituperata.
«Fai il tuo lavoro e muoviti. Muoviti!» le ordinò. La prese per i capelli che ancora erano raccolti e la fece rialzare, mentre cercava di slacciare via il corsetto alla povera giovane.
Puzzava di alcool e i suoi capelli ne erano unti: raccapricciante.
Non poteva trattarla in quel modo: se era uno di quegli odiosi gentiluomini doveva avere coerenza con se stesso e trattare la povera donna come si meritava, ovvero come un gioiello. A lui non spettava neanche di toccarla con un dito, un essere che era tanto meraviglioso e puro, di eleganza solo per essere parte del genere sommo e prezioso. Chissà cosa aveva passato la ragazza per arrivare a fare un lavoro del genere e per dire neanche una parola contro dei clienti tanto maligni ed assaliti dalla follia.
Gli occhi della biondina dai capelli corti avevano brillato quando Jungkook le aveva dato cinquanta franchi al posto dei quaranta che chiedeva. Forse dei problemi di famiglia che l'avevano portata a cercare disperatamente dei soldi, sfruttando il suo bel faccino: nessuno sapeva la storia degli altri e bisognava almeno tentare di comprenderla, ipotizzarla. Nessuno meritava di nascere come persona e morire come oggetto.
L'aveva strattonata un'altra volta e l'aveva tirata a sé stringendola per il polso, sorpassando Jungkook e monsieur Jeon senza curarsi della nudità della indifesa ragazza, né del sangue che le sgorgava irrompente sporcandole il seno lievemente scoperto e la mano nodosa. Era magra, talmente magra che aveva bisogno di soldi per mangiare e sarebbe stata disposta anche a lacerarsi per sopravvivere. Cristo, quell'uomo non poteva farlo.
Tolse violentemente la presa di suo padre dalla sua spalla, con il coraggio e la giustizia che lo spingevano a voltarsi e correre indietro. Le unghie del genitore gli avevano lasciato l'impronta da sotto la giacca, ma non fu affatto una priorità, in una tale situazione.
I due familiari si scambiarono sguardi di fuoco.
«Ehy!» chiamò l'uomo non appena fu abbastanza lontano da suo padre. Teneva i pugni stretti e continuava ad avvicinarsi a lui, per poi fermarsi anche quando i due lì davanti si placarono.
«Lasciala in pace immediatamente. Non puoi permetterti di trattare una ragazza in quella maniera!» esclamò, emettendo subito dopo il fiatone dovuto alla corsa.
L'uomo si girò e scoppiò a ridere, non appena capì che un misero ragazzino aveva intenzione di affrontarlo, mentre Jungkook schioccava le proprie dita minaccioso.
«Se la pago posso farle tutto ciò che voglio.»
La ragazza abbassò gli occhi verso terra, mentre teneva la mano a penzoloni, poiché l'avambraccio era stato stretto dalla presa ferrea dell'uomo; fece muovere le dita sottili in cerca di ossigeno dal sangue che faticava a muoversi tra i capillari.
«È una persona di tutto rispetto quanto lo sono tutti gli altri, eppure» Jungkook si avvicinò di qualche altro lento passo «stai solo dimostrando di avere lo stesso rispetto di un verme. Un uomo deve avere i suoi valori e tu dovresti esserle grato ed essere grato a tutte queste donne che hanno deciso di vendersi a te, pazzoide che non sei altro.» commentò duro, ricevendo un'altra risatina in risposta.
«Hai ragione.» disse l'uomo, lasciando il braccio della ragazza di cui intanto poteva vedere il parziale volto esprimere gratitudine. Lei non fece neanche in tempo a guardare gli altri segni rossi su di esso, che dovette trattenere un'esclamazione strozzata a causa di quella stessa mano che prima le stava facendo del male, adesso nuovamente attorno alle ciocche di capelli.
«Ho detto di lasciarla!» esclamò Jungkook a voce alta e profonda, avvicinandosi di più. Se avesse potuto vedersi in volto avrebbe notato gli occhi stretti a fessure che esprimevano una scintilla d'odio.
«E chi mi fermerà? Tu?» chiese l'uomo in tono di sfida, tirandola ancora e facendola ansimare dal dolore. La vide stringere i denti e mordersi il labbro, mentre cercava di rimanere in piedi.
Doveva trovare una soluzione. Una qualsiasi. Una qualsiasi. Qualsiasi. Anche la bottiglia di vetro posta tra la strada e il muro del palazzo alla sua destra.
Si abbassò velocemente a prenderla, notando che fosse vuota e ancora integra.
«Esatto, io: lasciala.»
Ordinò per l'ultima volta ricevendo un'altra risata in risposta: l'aveva voluto lui.
Fece scontrare la bottiglia di vetro sul muro, provocando il rumore sordo dei cocci che venivano lanciati in ogni dove, facendo rimanere nella mano di Jungkook soltanto il collo della bottiglia.
«Va' al diavolo, brutto stronzo.» bisbigliò a capo basso, per poi correre nella sua direzione senza pensare un secondo di più.
Sentiva come se l'alcool della bottiglia l'avesse bevuto lui e come se quell'alcool fosse il colore rosso lungo la camicia di quel verme. Sporca la pelle, sporco il tessuto, sporca la strada.
Giurava di volergli colpire solo la spalla, ma si sa che un ubriaco non vede dove sta colpendo. Fece penetrare il vetro nello stomaco dell'uomo ripetutamente, delirante, mentre il rumore della carne che scrosciava contro il materiale fu duraturo e agghiacciante, mentre rivoli di sangue gli scivolavano anche dalla bocca, tossendo. Graffiò le pareti dell'intestino, spintonandolo al muro e facendo sì che le unghie di metallo, che erano un'arma, cadessero per terra, raccolti prontamente dalla ragazza, stretta su se stessa e che stava urlando a squarciagola per il terrore.
L'uomo cadde per terra, privo di vita, lasciando un alone di sangue scuro sull'argilla dei mattoni e sulla strada.
Ancora il bruno teneva gli occhi bassi, sentendo le gambe farsi molli e il respiro pesante: si pulì il viso dagli schizzi con la propria giacca, avvertendo l'odore del crudo.
«Scappa via.» comandò alla ragazza, la quale scivolò un paio di volte per terra a causa della fretta e dagli occhi madidi di lacrime.
«Jungkook...» sentì una voce provenire da dietro di sé, incontrando gli occhi di suo padre sgranati come lo erano stati poche volte.
«Padre.» sussurrò in rimando col fiatone e col proprio sangue sempre più gelido, mentre quello sulla bottiglia ancora gocciolava, fresco.
«Figliolo...»
Quella voce nel passato risuonava così come lo facevano i ricordi più limpidi, in tono sconvolto.
La stessa parola, sentita nel presente, lo fece girare dalla parte opposta, incontrando gli occhi di suo padre, non visti fin dall'aprile prima, quando gli aveva chiesto ancora una volta i soldi. Kook non si era accorto che il padre gli si era avvicinato proprio quando era impegnato a riportare alla mente tutti gli avvenimenti di quella serata.
Era di fronte a lui e di nuovo sentiva il sangue gelargli.
«È così un piacere rincontrarti.»
Disse ridacchiando, avvicinandosi sempre più al figlio.
Egli si alzò di scatto e volle indietreggiare, ma così facendo fece cadere la sedia per terra, provocando un forte rumore in tutta la stanza e attirando tutte le attenzioni su di sé.
«Dove eri finito? Ti stavo cercando in tutti questi mesi!»
«Non stavi dicendo sul serio» chiese retoricamente Jungkook, come ad aspettarsi una risposta positiva, cosa che non arrivò perché al suo posto ricevette un ghigno ancora più ampio.
Non usava più il formale, nei suoi confronti: era proprio da allora che aveva smesso di usarlo, a causa della sua repulsione verso l'alta società.
«Credevi che mentissi tutte quelle volte?»
«Credevo fossero solo minacce per spingermi a trovare quel dannato denaro.» replicò, deglutendo.
«E credo non abbiano funzionato, perché mio figlio è uno scansafatiche senza lavoro.» si avvicinò al suo orecchio. «Devo davvero rendere noto alla polizia chi ha ucciso quell'uomo l'anno scorso?»
Jungkook indietreggiò ancora.
«Non ho i soldi. Non ho quei fottutissimi soldi perché non sono stato in grado di pubblicare un libro scritto alla perfezione in poco tempo, anche se smettessi di respirare per trovare il tempo per farlo. Lasciami in pace,» spiegò con un cipiglio serio in volto, in modo da farlo in qualche modo convincere di smetterla di perseguitarlo. «tanto a te a che servono altri soldi? Sei un borghese che si atteggia come nobiluomo» sputò quella parola ripugnante «vai a bere con i tuoi amici quando capita, sei sempre stato influente nella società con il tuo nome, hai la possibilità di soddisfare gran parte dei tuoi sfizi: allora che c'entro io? Solo perché mi vedi come potenziale da spremere fino all'ultima goccia di denaro poiché sei avaro come nessun uomo prima d'ora?»
Il suo tono di voce si era alzato e il volto fatto rosso, nel mentre teneva i pugni stretti.
Poi calò il silenzio per qualche secondo: forse l'aveva ascoltato, oppure no.
«Ti do tempo fino a domani per consegnarmi quello che mi spetta, perché io sono tuo padre ed io ti ho dato una casa, del cibo e gli sfizi fino a quando non te ne sei andato di tua spontanea volontà. Io non sono avaro, io ne ho il diritto. Ma se entro domani non avrò ciò che mi spetta, puoi anche salutare la cella e sperare che ti rimanga la testa sul collo, odioso ragazzino.»
Si feriva al giorno successivo, lo stesso in cui aveva il tanto atteso colloquio con Seokjin.
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