「02/05/1865」

24.

La valigia colma di tutte le sue cose era chiusa e poggiata sul letto, ma rimase seduto a gambe incrociate per terra ad osservarla. Abbassò il capo tristemente e chiuse gli occhi, poggiando una mano sulla fronte e poi passandola sul viso.
Osservò il pavimento, il quale, se girava il capo verso sinistra, conduceva a quella porta dalla quale si riusciva ad intravedere il tavolo della cucina.
Stava veramente per abbandonare tutto quello e neanche aveva avuto il coraggio di accennarlo il giorno  prima a Soyeon?
Capì che era arrivato il momento di andar via quando sentì la ragazza rientrare in casa, chiamando il suo nome e dichiarando di essere tornata.
Era particolarmente allegra, stava ridacchiando felice per qualche ragione che gli avrebbe raccontato a breve, ma la sua risata fu mozzata non appena vide Jungkook davanti a sé in quella posizione e la sua valigia posata sul letto.

«Cosa... cosa sta succedendo?» chiese in confusione la ragazza, che quella serata aveva addosso una gonna con qualche merletto di colore nero e un corpetto bianco.
Jungkook alzò il capo verso di lei e le rivolse un sorriso, che non riuscì a non avere una sfumatura di malinconia.
«Ciao tesoro, come è andata oggi? Ti vedo allegra.»
Strinse le gambe al petto e poggiò il capo sulle ginocchia, inclinandolo per poterla osservare.

«Volevo dirti che... mi hanno pagata doppio oggi, però... che è successo, Jungkook?»
Alzò le sopracciglia tristemente, avvicinandosi verso di lui e poi poggiando le ginocchia per terra, al fine di mettere una mano sulla spalla del ragazzo ed accarezzargliela, in attesa delle spiegazioni.

Si guardarono dritti negli occhi e Jungkook cercò di comunicarle tutto quello che non era in grado di dirle, poiché aveva paura di farle troppo male. Quale sarebbe stata la sua reazione?
Quella domanda se l'era fatta anche per quando aveva lasciato Jimin, soltanto che nel suo caso non aveva mai raggiunto risposta, poiché era stato troppo vigliacco per affrontarlo davanti a sé.

Jungkook si era ripromesso che prima o poi sarebbe cambiato, che avrebbe utilizzato nuovi atteggiamenti, tra cui quello di non fare più del male a qualcuno come era solito.
Incredibile, la decisione che lui supponeva essere corretta in quel momento era stata la peggiore che avrebbe mai potuto prendere ed era arrivato a dubitare di se stesso, definendosi un essere orribile.
Il ragazzo si portò le mani sul volto, coprendo gli occhi, dispiaciuto di non essere in grado di parlarle e di usare le parole come se fossero delle armi.

Soyeon portò una mano tra i suoi capelli e poggiò il suo volto sulla spalla del ragazzo, avvolgendo l'altro braccio attorno al suo torso, in modo da abbracciarlo.
«Jungkook, puoi parlarmi, qualsiasi cosa sia successa: sono io, Kook, sono Soyeon. Tu tieni tanto a me ed io tanto a te.»
Se diceva così non lo aiutava, infieriva e basta. Però aveva ragione, era lei, colei che non gli avrebbe mai fatto pesare le sue decisioni, perché l'aveva conosciuto in un momento buio e avevano convissuto nella povertà, fino a quando lui stesso era stato spinto alla ricerca di un lavoro.
Lei è stata un elemento importante per fargli cambiare i suoi atteggiamenti, almeno di poco, iniziando a fargli capire che non serviva quel dannato lavoro da scrittore, ma bastava sopravvivere a quel mondo.
Come faceva lei, d'altronde.

Gli doleva il cuore abbandonarla, voleva darle quello che si meritava, ma evidentemente non era la persona giusta: se fosse stato il ragazzo giusto avrebbe detto di no a Taehyung e sarebbe rimasto a Parigi, poiché i suoi sentimenti gli avevano suggerito di fare così.
Infatti non c'erano profondi sentimenti tra Jungkook e Soyeon: lei era destinata ad un'altra persona, chiunque essa fosse, così come Jungkook era destinato a qualcun altro.
Le loro strade si erano intrecciate, ma non sarebbe stato per sempre: d'altronde si poteva già capire dal primo momento in cui si erano incontrati che non erano il destino dell'altro, però era stato bello finché era durato.

«Soyeon, sapevi fin dall'inizio che non sarei rimasto qui in eterno...»
Iniziò, facendola sussultare e sgranare gli occhi: dunque si allontanò dal ragazzo, staccandosi dall'abbraccio.
Lei si morse il labbro, abbassando il capo, ed annuì leggermente. «Non pensavo che il momento sarebbe arrivato così in fretta.»
Nuovamente i loro sguardi si incontrarono e sospirarono all'unisono.

«Mi dispiace, davvero tanto. Ma non posso rimanere qui in eterno, ho combinato un grande casino e adesso devo andarmene via.»

Avrebbe potuto anche parlarne con lei. Tenne gli occhi chiusi, le mani strette a pugno sulle ginocchia: no, non era davvero il momento per sciogliersi in lacrime per Jungkook, perché lui aveva ragione. Lo sapeva fin dall'inizio e già aveva avvertito i primi segnali quando la avvisò che avrebbe passato qualche serata fuori. Era la sua, di vita, non poteva obbligarlo a stare con lei e, se lui era felice, anche lei lo era.
Neanche lei lo amava, provava solo un forte affetto e si era accorta che sarebbe rimasto tale quando si rese conto che il ragazzo continuava ad avere quella scintilla di nostalgia negli occhi, anche quando appariva essere felice.

Se non riusciva a cancellare quell'emozione tanto complessa, come pretendeva che tra loro due nascesse qualcosa? No, non lo pretendeva.
«Va bene, Jungkook.» gli disse comprensiva, alzando il capo verso di lui, rivolgendogli un dolce sorriso.
Sospirò nuovamente, ripensando a quanto vicina fosse stata nel provare il vero amore: anche se le sensazioni non erano quelle, dato che l'avrebbe capito solo nel momento giusto cosa fosse l'amore, riconoscendolo come se fosse un caro e vecchio amico.

I loro volti in quel momento erano estremamente vicini e, in altri momenti, avrebbero fatto combaciare le loro labbra così come era successo tante altre volte, sorridendo inoltre su di esse.
Capirono che era tutto finito quando Jungkook si allontanò, non avendo il coraggio di baciarla e si alzò in piedi, avvicinandosi alla valigia posta sul suo letto.

«Vai via da solo?» chiese allora lei dopo qualche secondo di silenzio. Lui allora chiuse gli occhi, già avvertendo la menzogna che faceva largo nella sua gola, non sapendo neanche perché come mai volesse dirgliela. Qual era il motivo? Come sarebbe potuto cambiare se era tale e quale ad un lupo che non ha la capacità di rinunciare ai suoi vizi?
Non si voltò verso di lei, poiché altrimenti avrebbe letto le sue espressioni facciali e le sue bugie.

«Sì.»

Perché? Quale era il motivo? Cosa gli era preso?
Si chiedeva se si sarebbe mai deciso ad affrontare quel cambiamento, come si era prefissato di fare.
Forse non quel giorno, forse perché trovava spaventosa la verità.
E che aveva di spaventoso? Non lo sapeva, ma si vergognava di andare via con Taehyung e non da solo: d'altronde lei non aveva chiesto il motivo, per giunta ignobile, ma la compagnia. Cosa c'era di sbagliato nell'andare via con quell'amico?

Prese la valigia e il giaccone posto sull'attaccapanni che si trovava accanto alla porta di quella stanza.

«Jungkook!» lo richiamò lei, forse per l'ultima volta. Anche lei si stava facendo tante domande, ma quella più emergente era perché aveva gli occhi lucidi, se tanto non amava quel ragazzo.
L'interpellato si girò verso di lei, rivolgendogli quell'ultimo sguardo, ricambiato dal mesto sorriso. «Mi mancherai.»

Quando avvertì il tonfo della porta che si chiuse, portando con sé Kook, lei cadde sulle sue ginocchia, non importandosene se ciò le avrebbe provocato del male e poi dei grandi lividi.
Tirò su col naso e poi una lacrima le scese lungo la guancia.
Non era triste perché aveva perso un amore: come detto, lei non lo amava, eppure sentì il cuore spezzarsi.

Forse perché aveva finalmente trovato una persona che tenesse a lei, tra tutte quelle che ogni giorno incontrava e, forse, era arrivata a definirlo amico.
Quale altro grande malore esiste, se non quello di perdere un amico che l'aveva salvata dalla solitudine eterna?

Trasalì quando sentì bussare alla porta e, per un attimo, credette che lui avesse cambiato idea e avesse deciso di rimanere con lei. Si asciugò le lacrime, dato che non poteva farsi vedere in quelle condizioni, non poteva rischiare che lui la credesse tanto debole, dopo che nel corso degli anni era cresciuta e aveva imparato ad affrontare le situazioni più orribili.
Cercò di riparare la sua espressione con una piccola risata e si rimise in piedi, camminando impacciata verso la porta e la riaprì, col sorriso sul volto.

Tuttavia il sorriso scomparì pian piano, perdendo tutta la sua allegria e speranza, dato che si trovò davanti a sé un uomo totalmente diverso da colui che lei si aspettava.
Aveva un cappello sul capo, gli occhi scuri e profondi come la notte, le labbra carnose, lo sguardo impassibile, la perfetta pelle senza alcuna imperfezione. Era molto alto, tuttavia la sua figura imponente era coperta da un lungo cappotto dal colore nero tendente al grigio. Sembrava avere delle spalle molto larghe, ma probabilmente lei si stava sbagliando dato che l'uomo teneva le sue mani dentro le tasche e non riusciva a distinguere molto bene la sua corporatura.
«Non piangere, madamoiselle.»

Lei tirò nuovamente su col naso, abbassando il capo per non far vedere i suoi occhi rossi e passò le mani su di essi, per eliminare ogni residuo di lacrime rimasto.
«Scusate, non vi conosco.» fece per dire, provando a chiudere la porta, cercando di farlo rimanere fuori, ma stava sottovalutando la forza di volontà dell'uomo, assieme alla sua forza stessa, con la quale fece rimanere la porta al suo posto.

«Sono sicuro sarai felice quando saprai che devi smettere di fare quell'orribile lavoro. Non vorresti forse lavorare per noi? Ci serve solo qualche tua importante informazione e il tuo ingegno.»

Per noi?
Ma chi era quell'uomo sconosciuto? Jungkook non si era accorto di lui lì vicino quando era uscito? Forse, per una strana coincidenza, non avevano fatto in tempo ad incontrarsi.
No, non era il momento di pensare a Jungkook, ormai aveva oltrepassato la soglia e le aveva detto addio per sempre.
«Quanto... quanto sarebbe il guadagno?»


Esattamente nello stesso istante, da un'altra parte di Parigi vi era un fratello in procinto di dire addio a l'ultimo membro della sua famiglia naturale, dopo la morte della zia di un paio di giorni prima.

«Mathilde, vieni, sorellina.» la chiamò il fratello più grande, facendola avvicinare a sé e prendendole la mano. Si piegò poi in ginocchio davanti a lei, guardandola dritta negli occhi e accarezzandole i capelli con dolcezza, sorridendole tristemente. La ragazzina se ne accorse del modo strano in cui suo fratello stava agendo e mise una delle sue mani sottili su quelle più grandi del ragazzo, abbassando lo sguardo in attesa che lui continuasse a parlare.
«Devo dirti una cosa importante, molto importante.»
Taehyung esitava nell'iniziare a spiegare la situazione, provava un profondo dolore e dispiacere e la ragazzina se ne era ovviamente accorta: si parlava di suo fratello, colui che conosceva da quando era nata, meglio di qualsiasi altra persona.

«Fratellone, si vede che qualcosa non va... sei tanto preoccupato, cosa ti turba? Posso aiutarti?» chiese cordialmente e con un sorriso che andava da un orecchio ad un altro, il quale fece genuinamente sorridere il più grande, che non si accorse di avvertire i suoi occhi farsi lucidi.
Se ne rese conto soltanto quando iniziarono a bruciare tanto da richiedere di chiudersi e tanto da formare un alone confuso sulla sua iride che non gli permetteva di vedere bene: ciò stava a significare che si stava lasciando andare in lacrime e questo non doveva accadere, non doveva lasciar vedere alla sua sorellina che c'era qualcosa di preoccupante e brutto.
La abbracciò, stringendola fortemente e poggiando la testa sulla sua spalla, e poi chiuse gli occhi.
Tirò poi su col naso, ma tentò di nasconderlo tramite una risata alquanto strana, ma Mathilde non si fece domande a riguardo.

«Sorellina, sai che... sai che ti voglio immensamente bene. Lo sai e credo che lo saprai per sempre. Insomma, voglio dire, in qualsiasi luogo io sarò tu sarai sempre mia sorella e vorrò sempre il meglio per te.» iniziò, ricevendo un mugugno di assenso in risposta. «Ecco...» ma la sua frase non riuscì ad andare avanti, quasi privo di coraggio nel metterla di fronte a quella realtà che lui stesso si era andato a cercare e di cui era certo avrebbe trovato una soluzione.

«Taehyung, qualsiasi siano le tue decisioni, per qualsiasi cosa, io sarò d'accordo con te.» pronunciò lei, sprofondando anch'essa nell'abbraccio del ragazzo e inebriandosi del suo calore fraterno.
Sembrava quasi l'avesse letto nel pensiero.

«Ecco, anche se sarò lontano da te, il mio bene per te sarà sempre lo stesso e ti penserò sempre, poiché tu sei la ragione per cui ho sempre un motivo per cui sorridere. Sei il miracolo migliore che io abbia mai potuto avere e... e adesso, me ne andrò, Mathilde, ma non potrai venire con me. Perché tu devi stare bene e al sicuro, io ho fatto qualcosa di sbagliato e cattivo, ma non me ne pento: adesso però devo andar via.» spiegò, adesso lasciando andare tutte le parole che erano racchiuse nel suo cuore.

«Fratellone» lo chiamò lei con tono di confusione, come era solita fare. «come puoi dire di aver fatto qualcosa di sbagliato se non te ne penti? Ci si pente quando si fa uno sbaglio, ma se non lo fai vuol dire che nelle tue azioni c'è stato almeno un briciolo di giusto.»
Aveva ragione, aveva tanto ragione, soprattutto perché avevano fatto tutto quello soprattutto perché lui e Kook erano tutto tranne impauriti del doversene pentire.
Adesso, però, stava arrivando la parte più difficile del discorso e, ancora, Taehyung teneva poggiato il suo volto tra i capelli corvini della sorella, bagnandoli leggermente con le sottili lacrime scese involontariamente dai suoi occhi.
«Sono d'accordo col tuo pensiero, Mathilde... forse questo potrebbe farmi sentire meno in colpa. Comunque sia, sorellina, non ci tengo a rovinare te e il tuo sogno, lo hai sempre saputo perfettamente, per cui vorrei... vorrei contribuire... anche senza il denaro, come sembrava sarebbe accaduto in passato.»
Fu allora che finalmente ritornarono a guardarsi negli occhi e Taehyung strinse le mani attorno alle sue braccia.
«Mi hanno detto di qualcuno che potrebbe aiutarti a perfezionarti ogni volta che vorrai farlo: è un caro amico di Jungkook, ha la tua stessa passione e un carattere solare ed altruista, sarà sicuramente molto propenso ad aiutarti. E poi questa casa poi non servirebbe più, potrete venderla, e guadagnare qualcosina per il tuo futuro.»
Stava parlando di Hoseok: lui e Jungkook avevano affrontato l'argomento di nuovo, dopo la sera a teatro, ed erano giunti alla conclusione che lui fosse l'unico in grado di aiutare quella ragazzina. Era troppo buono, non l'avrebbe mai lasciata per strada, neanche se Minsoo glielo avesse ordinato.

«E se dovesse servire quando tornerai?» chiese ingenuamente lei, con un tono di voce così curioso che causò un groppo alla gola al più grande.
«Quando... quando tornerò si vedrà, ci sarà tanto tempo per sapere cosa fare. Poi potrei anche ritornare con tanti soldi, con più di prima, tanto da poter comprare una grande villa proprio al centro di Parigi e da poterti far esibire all'Opéra ogni volta che lo vorrai... ed io potrò comprare sempre il biglietto migliore di tutti, quello più costoso e che mi permetterebbe di vederti meglio.»
«Non succederà mai...» ridacchiò leggermente lei, sentendo le sue gote tingersi di rosso a causa dell'emozione che la scena le provocava. «Non sono abbastanza brava e lo sai.»
«Avrai tempo per allenarti durante la mia assenza, non è proprio quello che ti sto consigliando?»
Tae si staccò da quell'abbraccio, guardandola negli occhi con dolcezza e fieramente.

«Hai del potenziale a non finire, dentro di te. Sei un pozzo di talento, di ottimismo, di altruismo, di tutte le qualità positive che ti possono venire in mente. E sono fiero di te, sorellina. Davvero tanto fiero.» disse, tentando di mantenere un tono fermo, tuttavia la sua voce si ruppe e allora non riuscì a trattenere delle altre lacrime anche davanti a lei.
Era davvero la parte più difficile dirle quell'arrivederci, non avendo neanche idea se fosse un addio o meno.
Ma aveva fatto la sua scelta, la scelta di stare con Jungkook, affidandosi alla buona sorte e sperando che ci sarebbe stato un lieto fine per tutti quanti.
Sapeva di star facendo la cosa giusta, sapeva di averla sempre fatta e si fidava del suo istinto.
Si fidava di sua sorella, era certo che sarebbe diventata fenomenale e il suo nome sarebbe stato ricordato, molto di più di quanto lo sarebbe stato quello di V.
«Non ti deluderò, fratellone.» lei allungò le mani e prese le dita di Taehyung, facendole intrecciare con le proprie ed esili. «Tu non deludere me. Quando ritornerai, sono sicura che avrai trovato la felicità e, magari, mi racconterai del motivo per cui sei andato via.»

Si sorrisero: si fidavano a vicenda, lei sapeva che prima o poi l'unica persona a cui realmente teneva sarebbe tornata, sebbene questo avrebbe comportato una lunga attesa.
Ma serviva un lungo periodo di tempo per allenarsi e perfezionarsi al fine di raggiungere il suo ambito sogno, no? Il ritorno di Taehyung era una sorta di traguardo.

Prima che la lasciasse per sempre, allora, le prese il polso e lasciò che la sua voce confidasse quel segreto che tanto lo stava opprimendo. Del teatro, di Jungkook, di ogni cosa. Non ce la fece più, in pochi minuti riassunse tutte le proprie colpe e peccati, considerandoli come giusti perché effettuati seguendo l'unica via del suo cuore.
Se lei avesse voluto guardarlo in biasimo, non avrebbe avuto nulla da ridire.

Lei ne fu comprensiva, paradossalmente, dandogli poi un bacio sulla guancia, non importandosene di essere accanto a colui che aveva ucciso un uomo e che adesso, per non essere catturato dalla polizia, se ne stava scappando a Vienna con Jungkook.
Era sempre sua sorella, non l'avrebbe mai biasimato per le sue decisioni, e lui ne fu grato, così tanto da stringerla in un ultimo forte abbraccio. Pareva come se non volesse lasciarla mai più, ma ormai la decisione era stata presa.

Taehyung si alzò in piedi, senza lasciarle la mano.
«Ti porto a casa del ragazzo di cui ti parlavo, si chiama Hoseok. Abbiamo pressappoco la stessa età, però né io né Jungkook possiamo... possiamo farci vedere, né dovrai dire che ci conosci e che sei qui a causa nostra.»
Lei annuì, capendo al volo che, in realtà, per il ragazzo la sua comparsa sarebbe stata una vera sorpresa.

Fu più di una sorpresa, anzi, quando lei si presentò davanti alla porta di casa di quell'appartamento collocato su un ponte abitativo con una borsa in mano, contenente tutti i suoi pochi averi.
Sorrise, non appena vide quel ragazzo dai capelli rossi davanti a sé che la squadrava con sguardo confuso e accigliato.

«Ciao...?»
«Sono Mathilde!» allungò cortesemente la mano al fine di poterla stringere all'altro, il quale ricambiò. «Volevo sapere se... se potessi avere qualche lezione. Mi è stato detto che c'è un maestro proprio bravo che abita qui, in questo appartamento. Siete per caso voi, un ballerino?»
Lui strabuzzò gli occhi sentendo quelle parole.

«Sono un ballerino, ma non un maestro-»

«Sono convinta che, un giorno, ballare diventerà la mia professione.» lo interruppe, posando lo sguardo per terra con imbarazzo.

«Un attimo, ragazzina, come mai sei qui con...» allungò lo sguardo sulla sua borsa, notando qualche indumento che fuoriusciva da lì.
Per cui lei sospirò, alzando gli occhi verso di lui con tristezza.
«Sono rimasta da sola, non ha più senso stare nella mia casetta se tutta la mia famiglia è andata via. Un giorno vorrei tanto esibirmi nel più grande teatro di Parigi, ma ho poco allenamento e ciò che so fare è frutto degli stessi esasperanti esercizi fatti alla stessa maniera in una piccola stanza. Vuoi essere mio maestro?» gli disse in tutta franchezza, senza ricorrere a qualche menzogna, cosa che a lei non piaceva per nulla.
Non aveva mai visto quella ragazzina prima d'ora, perché crederle se l'aveva conosciuta solo da qualche secondo?
Poteva essere una ladra, d'altronde aveva una borsa dove poteva mettere tutta la roba più preziosa di casa loro, anche se non era molta.
Eppure aveva quell'accezione sincera e il suo viso quasi angelico incorniciato dalle corvine ciocche di capelli incrementava solamente la sua purezza.
Forse diceva il vero, forse voleva solamente ballare e forse sarebbe giunto ad una più razionale decisione dopo una chiacchierata con lei.

Allora sospirò, annuendo. «Vieni, entra. Non toccare nulla e raccontami un po' di più. Poi deciderò se essere il tuo maestro o meno, insomma: al di là di tutto, è una grande responsabilità.»
Lei allora sorrise di cuore ed entrò nell'appartamento, tanto da far alzare inavvertitamente l'angolo delle labbra anche ad Hoseok, che chiuse la porta di casa dietro di sé.

Intanto Taehyung, che aveva osservato la scena da lontano e di nascosto, sentì il suo cuore rompersi dopo che non fu più in grado di osservare la figura della sorella, poiché era certo che non gli sarebbe più capitato di vederla per molto tempo, se tutto gli andava bene.
Come già detto, lui si era affidato alla buona sorte ed era certo che non l'avrebbe deluso: né lui, né tutti gli altri.

Jungkook, invece, appena uscito da casa di Soyeon, si era già incamminato verso la sua ultima destinazione, ovvero la magnifica casa di Jimin.
Adesso che conosceva le sue stanze, riusciva ad intravedere da fuori le sedie della stanza da pranzo e i divanetti del salone, assieme ad alcuni quadri posti sulle pareti. Se la ricordava a memoria la disposizione delle stanze, assieme ad ogni piccolo dettaglio, persino quelle in cui lui c'era stato pochissimo o soltanto una volta. E come dimenticarsi la stanza al piano superiore con quel meraviglioso piano colmo di polvere sul suo dorso, la quale gli dava un aspetto estremamente caratteristico. Non capiva perché Jimin non si era mai preoccupato di toglierla da là sopra.

Chissà come stava Jimin e cosa gli aveva causato la lettera che gli aveva lasciato.
Sperava davvero tanto che a lui non avesse fatto né caldo né freddo: non l'avrebbe sopportato, il caso contrario.
Era stato veramente orribile, ma era necessario.
Perché, perché, perché era così necessario?
In quel momento tutte le motivazioni di qualche mese prima stavano venendo meno e non avevano più alcun senso.
Si avvicinò alla porta e bussò tre volte con vigore nel polso.

«Chi va là?» sentì la sua voce, dopo tutti quei mesi, chiamare lo sconosciuto fuori alla porta: ma lui non rispose, tenendo il capo basso, in attesa che scoprisse da solo di chi si trattava.
«Ho detto, chi va là?» ribadì, vicino alla porta per farsi sentire meglio.
«Se è ancora una volta uno scherzo, di sera, sappiate che non è divertente, mocciosett-»

No, non erano quei ragazzini che ogni tanto venivano a bussare a casa sua per fargli qualche dispetto, per poi scappare via ridacchiando. Rimase semplicemente ad occhi sgranati quando vide il ragazzo davanti a sé, che teneva occhi bassi i quali esprimevano dispiacere, senza bisogno di squadrarli.
«Jung... Jungkook...» disse, adesso con bocca spalancata. «Allora sei... sei ancora...»

«Vivo? Purtroppo sì, non ho mai smesso.» gli disse, facendosi sfuggire una risatina che poco aveva di esilarante in quella situazione drammatica.
Il silenzio durò troppo a lungo dopo la sua frase, per cui Jungkook alzò leggermente gli occhi verso Jimin per osservare la sua reazione: non ebbe neanche il tempo per farlo, che ricevette una grande e forte sberla sul viso.

«Ouch!» si lamentò, portando la mano sulla guancia vittima. «E questo perché?»
Che domanda stupida, era ovvio il perché.

«E me lo chiedi pure, Jungkook Boyer? Mi chiedi pure perché io ti ho dato uno schiaffo dopo che sei ritornato dopo qualche mese in cui sei stato assente senza che io sapessi realmente il perché? Dopo tutto quello che ho cercato di fare per renderti a tuo agio, per farti sentire bene e a casa! Te ne sei andato senza neanche consultarti con me, potevi dirmi almeno cosa c'era che non andava!»
Era impossibile fermare i suoi strilli mentre agitava le braccia con fare confusionario, per cui Jungkook decise di farsi piccolo piccolo ed ascoltare tutto quello che l'altro aveva da dirgli, dato che aveva la ragione dalla sua parte.
E lui invece era in torto.

«Sei un grande irresponsabile, hai sicuramente vagato per tutta Parigi come un barbone, senza un luogo dove abitare e dormire al coperto! Menomale che avevi qualche mio vestito... e saresti potuto morire di fame! Sei un grandissimo irresponsabile! Poi mi hai fatto preoccupare, per qualche giorno temevo di uscire fuori poiché avevo paura di trovare il tuo cadavere in decomposizione da qualche parte, senza vita a causa mia e della mia scarsa vigilanza: non me lo sarei mai potuto perdonare...!»
Jimin strinse i pugni, urlando verso di lui tutte le sue preoccupazioni e quello che aveva pensato per gran parte del tempo da quando se ne era andato e, solo da qualche mese, aveva smesso di pensarci.
Anche se qualche volta gli ritornava il dubbio e il senso di colpa.
«Ti darei altri mille schiaffi, però non voglio rischiare di farti male alla mascella e non permetterti di divagare, perché qui attendo le mie scuse e le mie spiegazioni. Perché sei andato via e perché sei tornato?»

«Jimin, sono tornato perché devo andare via da Parigi.»
L'altro alzò un sopracciglio. «Quindi vieni qui per avere il salutino prima del viaggio.»
«Smettila. Lo sai benissimo che io ti voglio bene e lo sai benissimo che io stesso mi sento una merda per averti lasciato con un pezzo di carta, proprio per questo sono qui. Jimin, tu non ti meriti quello che ti ho fatto, è vero, ma non ti meriti neanche che io parta senza conoscere nulla di me. Perché tu non sai nulla, non sai affatto nulla e questa cosa mi fa un male incredibile. Tu non ne hai idea, ma io non sono quel Jungkook che hai conosciuto, non sono quel Jungkook Boyer a cui hai tanto tenuto. Io sono proprio uno stronzo,» sottolineò quelle parole con fare acido e colme di disprezzo verso se stesso «uno stronzo da capo a piedi e che ancora deve capire come si tiene a qualcuno. Io sono un mare di menzogne, mento così tanto che a momenti quasi mi scordo quale sia la realtà. Non posso andarmene via senza che tu sappia perché ho fatto quello che ho fatto, hai ragione: perché tu sei un ragazzo dal cuore d'oro, meraviglioso ed altruista e non ti meriti di essere trattato nel modo in cui io ho fatto. Prima che io lasci la città, permettimi di raccontare chi sono io veramente: permettimi di far ricordare a me stesso qual è la realtà, al fine di poter vivere un migliore futuro. Poi se tu vorrai picchiarmi, prendermi a schiaffi, a pugni e calci, sbattermi fuori da casa tua indignato, potrai farlo! Potrai farlo perché me lo merito! Chi altri se lo meriterebbe se non io: è vero, tutto quello che ho subito ha fatto tanto male, ma c'è chi è messo peggio di me, eppure riesce facilmente ad avere qualsiasi qualità di  questo mondo che è definita buona.»

Jimin rimase a braccia incrociate in ascolto delle sue parole, stupito della sua uscita e con un sopracciglio aggrottato.

Jungkook abbassò il capo, grattandosi la nuca ed indeciso sul continuare o meno: ormai non poteva più tirarsi indietro, però, e, per l'ennesima volta nella sua vita, si chiese come mai doveva essere tutto così complicato.
Sospirò.
Alla fine se ne sarebbe andato comunque da Parigi, che problema c'era se lui sapeva la sua storia o non la sapeva? Che problema c'era se la sua reazione era stata negativa o positiva?
«Non so da dove cominciare. Non voglio essere prolisso.»

«Sono tutt'orecchie.» disse freddamente, ma altrettanto impaziente di sapere cosa aveva da dirgli.

«Va bene. Anni fa, rimasi orfano di madre, ad una età molto giovane. Capita spessissimo ai bambini di perdere uno dei loro genitori, e così facendo sono costretti a vivere la loro esistenza con una grande mancanza nel loro cuore. Ma io non ho mai avuto questa mancanza, almeno fin quando c'era mia nonna, che mi veniva a prendere da scuola, che mi teneva stretta la mano, che mi sorrideva. Saltellavo felice al suo fianco: ero così felice e così solare che mi avevano tutti soprannominato figlio del Sole. Ero un figlio del Sole e ne andavo fiero! Amavo essere accarezzato dai suoi raggi e temevo la notte, temevo che lei mi avrebbe aggredito nel momento in cui avrei chiuso gli occhi. Ma c'era lui, il Sole, a proteggermi. Era lui il mio vero papà. Forse era mio padre stesso: non era il miglior padre di tutti, quello mio vero, perché era sempre impegnato in questioni lavorative, si ritagliava ben poco tempo per me, suo figlio. Però pareva che mi amasse, in quei momenti che passavamo assieme. Sembrava tutto così normale in quella mia splendida famiglia, dove la nonnina aveva assunto il ruolo di un angelo custode, che vegliava sempre su di me.»

Deglutì, scurendo il suo volto e facendo scivolare la propria mano lungo il fianco, quando i suoi ricordi gli riaffiorarono alla mente. «In ogni momento, lei c'è stata. Lei era la nuvola del cielo che di giorno mi inseguiva e che veniva spinta dal vento, ovvero il suo amore per me, affinché mi stesse sempre vicino. Quando mi resi conto che il cielo era più limpido del solito, cominciai a capire che forse il mio mondo stava cambiando. Lei non c'era più al posto delle nuvole. Lei non c'era più. Mio padre cominciò, durante la mia adolescenza, a trascurarmi sempre di più. I miei cambi di umore erano frequenti, in quel periodo, oserei dire più del normale, eppure non avevo alcuna persona con cui condividerli e a cui chiedere consigli. Nessuno mi era amico a scuola, nessuno, e non osavo neanche andare da loro strisciando, perché erano più insignificanti di un misero moscerino, quei ragazzi ricconi. Ero praticamente solo, chiuso nella mia bellissima stanza, di una casa meravigliosa, piena di oggetti costosi, appartenente all'uomo più edonista esistente sulla faccia della terra: Auguste Jeon, mio padre.»

Jungkook prese una pausa, in attesa di sentire qualche commento di Jimin per cui già aveva cominciato a pensare a qualche risposta, ma non ne arrivò neanche uno, per cui decise di continuare.

«Se mi fosse mancato qualcosa nella mia infanzia, forse non mi sarei lamentato e sarei stato grato di tutto quello che possedevo e tutte le possibilità che avevo davanti con tutto quel denaro e con tutti gli sbocchi culturali che avevo sempre ricevuto, come una visita settimanale all'Opéra. Tuttavia durante il corso della mia vita ho sempre avuto tutto, tutto quello che desideravo, così tanto da cominciare a non voler più nulla, abbandonato alla solitudine, alla povertà e la semplicità. Un giorno però, incontrai quello che sarebbe diventato il mio più grande amico, Kim Namjoon, quel ragazzo dalle adorabili fossette e sorriso amichevole che incontrai in un café al centro di Parigi con un grembiule tutto sporco di pittura ad olio. Mi ricordo di come il proprietario della caffetteria lo sgridò malamente dato che aveva macchiato il bancone di rosso, minacciandolo di essere in grado di denunciarlo se non avesse subito rimediato al pasticcio che aveva commesso. E no, non parlo di una minuscola macchiolina di colore, era tutto sporco di colore rosso e andava in giro con quella veste più fieramente di quanto le donne si pavoneggiano delle loro strane acconciature. Mi avvicinai a lui al proprietario e offrii qualche manciata di monete, che tenevo in tasca, per poterlo far smettere di inveire contro il ragazzo, ed un'altra per poter offrire mezza stecca di cioccolato ad entrambi. Davanti al cioccolato si fanno le migliori amicizie, lo si sa per certo. Insomma, diventammo sempre più uniti e io venni a sapere che faceva l'artista per professione, sebbene non guadagnasse molti soldi. Io avevo così tanti sogni in quel periodo! Avevo intenzione di diventare una figura di prestigio, magari un grande politico o un condottiero militare ed utilizzare l'abilità da oratore al fine di dare alle genti una guida da seguire ciecamente. Io e Namjoon ci divertivamo così tanto assieme, eravamo diventati inseparabili l'uno dall'altro, e più vedevo che il suo sogno di essere un artista si stava realizzando, più credevo che il mio nome sarebbe stato nei libri di storia, un giorno, così come accadde con i comandanti romani. Non mancavano le sere in cui ci ubriacavamo e andavamo a spassarcela con qualche prostituta che trovavamo, ed io ero sempre disposto ad offrire per entrambi, permettendo a Namjoon di usare il suo misero guadagno per pagarsi le spese di una casetta, composta da una singola stanza e luogo unicamente delle sue cianfrusaglie. Circa due anni fa, però, mio padre decise di trarre delle conclusioni errate su me e Namjoon, che tanto eravamo inseparabili: credeva che fossimo una coppia. Credeva che fossi omosessuale, che commettessi sodomia, e dunque tentò di curarmi nel miglior modo che poteva, portandomi dalle donne di strada. Forse anche io nella mia mente cominciavo a temere la stessa cosa, forse provavo gratitudine verso mio padre, che si era accorto in tempo del mio difetto. Non importava quanto tempo passavo assieme a Namjoon come suo amico, perché ogni volta non riuscivo a smettere di credere che fosse un bel ragazzo. Dalla bella corporatura, dal bel sorriso, con un intrigante modo di parlare: tutte caratteristiche di lui che mi attiravano, ma se prima la consideravo una cosa normale, come se stessi solo idolatrando il mio amico, appena sentii le parole di mio padre mi sorsero tanti dubbi, che misi a tacere repentino. Non mi piacevano gli uomini, mi dicevo; è contro natura che non mi piacciano le donne, credevo; commettere sodomia non è solo un peccato, ma è un oltraggio all'onore, ritenevo; mi piacciono le donne e tutte le loro forme, mi piace il loro corpo ed esplorarle, riputavo.»

Jimin lo guardò sprezzante, in procinto di dargli un'altra sonora sberla sul viso, ma fu fermato in tempo.
«So che sei incazzato, sto parlando di due anni fa. Non picchiarmi finché non avrò finito.»

Jungkook alzò involontariamente le braccia davanti a sé per proteggersi ad un minimo movimento di Jimin, gesto che interpretò erroneamente dato che l'altro annuì invece con riluttanza.

«Ecco,» deglutì, facendo ricadere le mani lungo i fianchi «ero ben disposto a trascorre una serata con una bella ragazza, seppur fosse alquanto imbarazzante il fatto che lì mi avesse condotto mio padre. Ma che potevo farci, il tempo sarebbe trascorso e anche bene. Se non fosse che quella era la sera in cui cambiò tutto nella mia vita. Vidi un uomo che stava molestando una delle prostitute e le stava provocando i peggio mali sotto gli occhi di tutte le altre, impotenti, che non potevano fare nulla per aiutarla. Per cui non ci vidi più: fu un'azione spontanea afferrare una bottiglia di vetro da terra, frantumarne la base sul muro li accanto e usarla come arma. Neanche so più cosa mi ha spinto a farlo, cosa mi ha spinto a commettere quell'azione che sarebbe rimasta indelebile, come fosse una cicatrice, traumatizzando la mia mente e tutte le mie scelte successive.»
Jimin allentò la stretta delle sue braccia al petto, ascoltando la parte forse più importante del racconto: neanche se ne era accorto, Jungkook, che non indossava più sguardo severo, dato che i suoi occhi erano rivolti a fissare il vuoto, quasi come le sue pupille avessero smesso di funzionare.

«Mio padre mi aiutò a trascinare via il corpo e la nostra serata, che avrebbe dovuto scacciare via tutti i pensieri spiacevoli, si concluse lì, perché dopo, appena tornati a casa, mi strinse per il colletto della camicia, colma di schizzi di sangue, e mi guardò dritto negli occhi. Mi disse chiaramente che avrei dovuto dargli una ricompensa per il suo aiuto e per la sua bocca cucita. Non credevo dicesse seriamente e si riferisse davvero a del denaro, poiché pensavo volesse solamente della gratitudine, che aveva già ricevuto all'istante. Le richieste aumentarono di giorno in giorno, tanto che mi mise davanti una lista di lavori, dalla quale avrei dovuto scegliere la mia futura occupazione. Scienziato, capo di una fabbrica, proprietario di un'industria tessile. Non c'era il condottiero tra le proposte, il che mi stupiva, ma appena chiesi spiegazioni mio padre sostenne che si trattavano di sciocche fantasie, le mie, e che dovessi ritornare nel mondo reale. Neanche il filosofo era tra le possibilità, anche se una figura di prestigio e rispetto: fortunatamente la filosofia non era mai stata il mio forte così come lo erano le parole, per cui decisi di intraprendere la carriera dello scrittore, la quale doveva raggiungere le alte vette in maniera immediata, altrimenti ci sarebbero state conseguenze: accettai, sapendo che potevo farcela, dato che ero già bravo a parlare. Cosa ci voleva a scrivere? Ma scrivere è un'arte complicata, che necessita consolidamento, allenamento, lettura di tanti libri dei Grandi, e che non prevede una repentina ascesa. Promisi troppo, andando via di casa e decidendo di andare a vivere con Namjoon — ovviamente questo particolare lo omisi fino a quando non lo venne a scoprire da solo, qualche mese più tardi, con una reazione di inaspettata indifferenza. Andammo in affitto in una casa più grande assieme ad altri due inquilini, Hoseok e Minsoo, rispettivamente un ballerino ed uno speranzoso librettista. Ben preso divenimmo amici e il loro sostegno mi aiutò a scrivere tanti romanzi in così poco tempo: il mio primo libro parlava di un condottiero romano che era stato dimenticato dalla storia. Sembrava più un racconto che alternava a delle situazioni ironiche e allegre delle scene tragiche, ma che non suscitavano abbastanza emozioni; inoltre, presentava un'insufficienza di informazioni, scopiazzate palesemente da qualche libro che avevo sotto mano. Non conoscevo abbastanza la storia romana per scrivere un romanzo, tanto che oltre ad uscire strano, ebbi l'impressione di aver compiuto un parto. Colmo di imperfezioni ed errori grammaticali di cui non mi curavo granché, decisi di inviarlo alla casa editrice della Mabillon. Sapevo che i tempi per avere risposta erano molto lunghi, fino ai sei mesi, ma proprio non potevo aspettare. Scrivevo, scrivevo e scrivevo altre storie, senza farle leggere a nessuno dei miei amici, dato che temevo mi avrebbero fatto notare i difetti. Ciò che scrivevo non aveva difetti, non serviva che loro mi dicessero il falso! Completai il mio secondo romanzo dopo un solo mese, ed anch'esso lo mandai alla stessa casa editrice. Scrivevo finché non avevo risposta e, prima che la ricevessi, la scrittura era un passatempo spensierato. Quando ricevetti risposta negativa, la sfida che mi ero posto degenerò, diventando quasi un atteggiamento tossico verso quell'unico appiglio che avevo per dimenticare mio padre. Ogni giorno lui faceva sì che mi ricordasse di dargli dei soldi, sebbene fosse già ricco e un grande avaro. Cercavo di raggiungere disperatamente la vetta come se fossi uno scalatore sul punto di scivolare nel precipizio immediatamente sotto di lui. Mi sono raschiato le mani per poter aggrapparmi alle rocce più solide e molte volte ho rischiato di scivolare giù.»

Alzò lo sguardo verso Jimin, incontrando i suoi occhi. «Incontrarti è stato... un dono del cielo, forse. Cosa sarebbe successo se non ti avessi visto in quel locale e quella mattina non avessi raggiunto la Mabillon? Non lo so, sicuramente non sarei qui a parlarti e sicuramente avrei tenuto nascoste a me stesso così tante altre cose.»

«Jungkook.» lo interruppe il più grande avvicinandosi a lui, adesso con una posa meno rigida. Continuarono a fissarsi per qualche secondo senza dire alcuna parola. «Chi sei veramente?» chiese Jimin sottovoce, quasi fosse una disperata richiesta. Non era semplice curiosità, non più. Voleva liberare Jungkook da quel peso che lo stava tramortendo da anni.

«Mi chiamo Jeon Jungkook, ho 22 anni, in passato volevo la fama e la salvezza, ed ho usato coloro a cui adesso voglio bene al fine di ottenerle, poiché ero ammattito. Ero stato costretto. Ero spaventato dalle conseguenze se non l'avessi fatto. Ero spaventato, perché temevo che una mia azione sbagliata sarebbe stata tanto traumatica come lo è stata quella sera, mentre avevo in mano quella bottiglia maledetta. Temevo di fare del male a tanta altra gente con le mie decisioni.»

«Jeon Jungkook, cosa ti ha cambiato?»

«Sono stato orfano per tanto tempo, anche il Sole, di cui ero figlio, non era più mio padre. Poi ho trovato la mia vera madre, la Luna, e la mia anima ha giurato, nel corso del tempo, che un giorno l'avrei raggiunta e avrei realizzato i miei sogni. Ho deciso di scappare via con quello che è diventato mio fratello, perché siamo entrambi figli della Luna e siamo certi che lei non ci abbandonerà mai. So che se chiudo gli occhi, lei rimane ad osservarmi e a vegliarmi e, se non ce lei, c'è lui.»
Jimin fece un sorrisetto, annuendo leggermente.

«E chi sarebbe questo tuo fratello in cui confidi tanto?»

Jungkook si morse il labbro, indeciso se dirgli o meno il nome di Taehyung, il ragazzo, un tempo amico di Jimin, che era stato da poco licenziato dalla casa editrice per cui lavorava.

«Un mio amico.»
Preferì tacere, abbassando il capo con imbarazzo.
«Vado via da Parigi e trovavo lecito dirti tutto quello che ti meritavi di sapere. Che... che ti ho usato in passato, credendo che non potessi fare altro. E mi dispiace Jimin, mi dispiace davvero tanto, perché non ho fatto altro che essere egoista e non pensare ai tuoi sentimenti e a come ti saresti sentito quando avresti capito che da parte mia non c'era alcun interesse. Se non avessi passato del tempo con te... da amici, insomma, senza più baci e robe varie, forse non mi sarei conto di quanto io ti abbia fatto del male senza che tu te ne rendessi conto. Mi dispiace, mi dispiace davvero tanto Jimin, sono mortificato per tutto, ti voglio bene.» concluse, mascherando con un colpo di tosse la sua voce che alle ultime tre parole si era rotta.

«Non mi hai detto tutto. Mi stai nascondendo qualcos'altro.»
Il biondo poggiò le mani sulle spalle di Jungkook, al fine di far scontrare nuovamente i loro sguardi.
Certo, certo che c'era dell'altro! Ma neanche Jungkook aveva idea di cosa fosse, talmente incerto e confuso.
«Evidentemente lo starò nascondendo anche a me stesso.»

«Quando un giorno ritornerai a Parigi, prometti che tornerai da me e mi abbraccerai, dicendo che avevo ragione, che c'era dell'altro e che grazie a me ti sei reso conto della sua presenza, anche se hai analizzato quell'altro completamente da solo.»

Dopo un ultimo sorriso malinconico e di addio, Jimin indietreggiò dentro casa sua e chiuse la porta, senza dire nessun'altra parola, forse anche reprimendo una piccola lacrima di commozione nel suo occhio.
Jungkook rimase lì, nel portico, a riflettere delle sue ultime parole.

Certamente un giorno futuro avrebbe abbracciato Jimin.
E quel giorno avrebbe finalmente capito cosa si stava nascondendo?
L'unica parte della sua storia che a Jimin non aveva raccontato dettagliatamente erano stati gli incontri sotto la Luna con Taehyung, il suo periodo di convivenza, la loro amicizia e soprattutto il suo nome.
Si era sentito mentre raccontava la storia della sua vita e si era accorto, finalmente, che non era stato l'addio di Namjoon a cambiarlo, né l'amicizia con Jimin, né il periodo da vagabondo e neanche i mesi passati con Soyeon, che erano stati al contrario puro letargo per il suo cervello e le sue preoccupazioni.
Fatto sta che era stato soltanto Taehyung ad averlo potuto cambiare, usando il suo carattere unico.

L'aveva addirittura chiamato fratello.

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