「01/09/1864」

13.

Da un'altra parte di Parigi, nello stesso momento, Namjoon si era imbattuto in una serale e sconveniente riparazione del tetto della sua nuova casa, la quale era molto più malmessa rispetto a quella condivisa con i ragazzi. Era una piccola casetta che si trovava in periferia di Parigi che apparteneva alla sua prozia Agnés, deceduta una ventina di anni prima. Aveva anche un capanno dove mettere gli attrezzi per la coltivazione dell'onesto orticello, ma era rimasta disabitata per tutto quel tempo, quindi i tarli e le intemperie avevano indebolito il legno. Era soltanto un luogo temporaneo dove vivere.
Aveva colto l'occasione per capire come vivere autonomamente, magari avrebbe anche cominciato a saper coltivare, ed oltretutto quello scenario era propedeutico alla realizzazione dei migliori quadri: era tranquillo, rustico e rilasciava tante emozioni positive.
L'unica pecca stava nel fatto che non ne aveva ancora realizzato neanche uno, aveva portato tutto il materiale, ma aveva paura che potesse inutilmente sprecarlo con dei quadri che valessero poco, poiché diversi dagli impressionanti  richiesti dalla gente, seppur colmi di emozioni classicheggianti.

Non volevano più la perfezione della linea come in passato e la realtà del colore che rendeva la figura tangibile, ma lo scenario prodotto tramite tante pennellate l'una sull'altra.
Contrariamente, pensava che quella situazione avrebbe risvegliato la parte più artistica di sé, tuttavia non aveva fatto altro che seminare insicurezze e paure.
Insicurezza riguardo le sue scelte e paura riguardo il fatto che fossero sbagliate.
Soprattutto, temeva che quella decisione fosse stata drastica e presa su due piedi, tanto che ogni errore poteva essere come una qualsiasi folata di vento, in grado di demolire casa e vita di Namjoon.

Yoongi, angelo corvino e dalla pelle lattea che rifletteva la luce splendente notturna, notò lo sguardo sconsolato dell'artista quando si sedette, con fronte sudata, sulle tegole dei gradini dell'abitazione, scomposto e con schiena incurvata. Era abbattuto per la pesante situazione, soprattutto perché Yoongi doveva continuare a vivere per conto proprio per ovvi motivi lavorativi e Nam non voleva occupare la sua abitazione e sentirsi un ospite indesiderato. La sua vecchia casa gli mancava, ma non l'avrebbe mai ammesso.

Namjoon non riusciva a comprendere dove fosse nel torto, ripensando alla lite: anche se provava a dare una giustificazione a quel che Jungkook aveva detto, magari anche distrattamente, era troppo orgoglioso per ricredersi riguardo le sue azioni e l'unica conclusione fu quella di rimanere nel suo finché Jungkook stesso non l'avrebbe scovato in quella casa di campagna e l'avrebbe costretto a tornare a casa con lui.
Chissà cosa avrebbe risposto: un semplice e celere "va bene", prendendo la sua poca roba e seguendo il più piccolo, oppure l'avrebbe cacciato malamente, rimpiangendo per il resto della sua vita di ciò che gli aveva fatto.
Si era agitato tanto quando Kook era scomparso ed aveva odiato come non avesse avuto intenzione di darsi giustificazione, a detta di Minsoo; dubitava, dunque, che sarebbe mai giunto a cercarlo di sua spontanea volontà.

«Namjoon?» lo scosse l'altro, dato che non si accingeva a dare una risposta, facendolo rimanere in attesa.
Alzò le sopracciglia, rendendosi conto di essere chiamato, annuendo poi subito dopo. «Va tutto bene.»

«Non va per niente bene, c'è qualcosa che non mi vuoi dire. Sputa il rospo, ti conosco troppo bene, ormai.» ordinò duramente, velando i timori nei suoi confronti.

Namjoon si lasciò sfuggire una leggera risatina, poiché la figura di Yoongi preoccupata l'aveva sempre fatto divertire: era così strano che un duro come lui potesse avere tanto a cuore qualcuno e che quel qualcuno fosse lui. In realtà no, non era tanto vero, dato che alla fine Yoongi non era un duro.
Lo si poteva percepire dal modo dolce nel quale premeva i tasti del suo pianoforte. L'aveva sentito così poche volte suonare, ma ogni volta che accadeva si innamorava sempre di più.
Esso era il motivo principale per cui il suo cervello aveva smesso di funzionare e per cui il suo cuore  batteva così forte da essere il suono più forte di tutto il suo corpo, che sovrastava persino la propria voce.
Gli tornò alla mente un ricordo nitido nel quale era corso fuori all'Opéra, quella sera piovosa dei primi giorni di marzo, quando le proprie lacrime si erano fuse assieme a quelle del cielo.
Stava passando un periodo così difficile ed indescrivibile in preda a tumulti dell'anima che erano in grado di picchiarlo più forte di quanto può fare un ladro con l'intenzione di rapinare qualcuno.
Era stato rapinato della sua razionalità.
Quella sera si era appostato, senza rendersene conto, sulle scale dell'uscita dal retro del grande teatro.

Il suono della pioggia che rimbalzava sul marmo delle scale era dotato della capacità di essere più rumoroso dei singhiozzi del ragazzo.
Aveva solo paura in quel momento.
E se fosse andato tutto male?
Se la sua carriera da artista fosse finita, se Jungkook non fosse mai stato in grado di pubblicare un libro e suo padre l'avesse cercato e avesse chiesto denaro a tutti quanti? Se Hoseok non fosse mai riuscito a ballare davanti a un grande pubblico?
Se avessero perso ogni minimo appiglio per poter guadagnare almeno uno spicciolo a giornata e avessero dovuto abbandonare i loro sogni?
Già era stato sempre assalito dalla beata ignoranza fin da quando era piccolo: voleva solo usare la sua arte per guadagnare qualcosa e per comprare qualche libro in più da leggere. Gli sarebbe piaciuto percorrere le sale della reggia a Versailles, studiando con occhio critico le strutture barocche, dando le sue opinioni secondo la conoscenza enciclopedica di cui era privo, tastando i marmi, per poi ritornare a Parigi e girare tra le chiese, notando la loro ricchezza e conoscendo tutta la loro storia. Sarebbe stato bello, anche, avere sotto gli occhi i quadri del Rinascimento italiano e poter essere tanto vicino ad essi da permettere che il colore venisse riflesso sulla sua pelle.

Gli doleva così tanto non aver mai potuto passare la vita che desiderava, con un poco di vizi e di passioni in più.
L'unica dote che aveva era quella di saper usare una matita, ma da qualche giorno a quella parte non sapeva neanche più tenerla in mano, a causa dei pensieri che non gli permettevano di concentrarsi. Forse aveva perso tutti quegli anni ad allenarsi per nulla: non si era realizzato, perché non sapeva davvero disegnare e dipingere o, se lo faceva, non era ciò che richiedevano i suoi pochi acquirenti. Semplicemente non era in grado di fare altro se non esprimere se stesso con il proprio stile.
Altro che ragione: folli, folli erano coloro che avevano creduto che la ragione potesse guidare tutto, perché altrimenti avrebbe saputo controllare tutte le parole che la mente gli stava urlando contro.

Piangeva, piangeva così forte.
La pioggia non era in grado neanche più di tacerlo, tanto si stava commiserando con lui: erano diventati un suono solo.
Nel momento in cui la natura si era piegata alle emozioni del giovane travolto dalla tristezza e rassegnazione, qualcuno aprì la porta sul retro del teatro, rendendosi conto del mal tempo ed emettendo un forte brontolio, il quale faceva così ridere, nel complesso.
Namjoon si spaventò, perché non aveva idea che qualcuno potesse uscire da qualunque porta in mezzo a quella tormenta: lui era l'unico idiota che stava fuori casa, a rischio di prendersi una polmonite e magari morire a causa di quella. Sempre meglio di vivere in quelle condizioni, dove gli attacchi di panico stavano diventando all'ordine del giorno, e in cui si tratteneva dal porre fine all'esistenza con qualcuno dei suoi pigmenti tossici.

Sperò che quel tizio non lo vedesse e che se ne andasse via, perché non aveva alcuna intenzione di spostarsi di lì e trovare un altro luogo dove andarsi a sfogare.
Nessuno però gli disse nulla e nessuno gli toccò la spalla per dirgli di spostarsi. Nessuno fece niente, dato che quel tipo appena sceso dalle scale si era seduto sul suo stesso gradino ad un metro di distanza, sotto la pioggia torrenziale e senza preoccuparsi di nulla. Namjoon alzò un sopracciglio, confuso, ma fin quando nessuno si sarebbe rivolto la parola sarebbe andato tutto bene.
«La giornata non poteva andare peggio, devo dirti la verità. Chiunque tu sia.» cominciò a parlare quel tizio.
No, non se ne parlava proprio né di ascoltare né tanto meno di scambiare qualche parolina amichevole con qualcuno che non conosceva neanche.
«Oggi ho suonato, ma ho fatto schifo. Sarà perché Jimin mi ha rifiutato, ma non posso farci nulla. Che posso farci se è piombato nella mia vita in tutta la sua perfezione indescrivibile e mi ha fatto andare fuori di testa? Mi ha rifiutato per paura. Paura? Non lo biasimo, ma non mi ha detto se gli piaccio o meno. Ah! Andasse al diavolo. Che dovevo fare, dire al mio cuore di smettere di funzionare? Non sono scemo, voglio vivere e Jimin non si è reso conto che senza di lui sono un uomo proprio morto.» il tizio sbuffò, guardando le nuvole su nel cielo e non curandosi delle gocce che gli scivolavano sul viso. «Non è affar tuo, lo so, ma è da stamattina che voglio parlarne con qualcuno. Con qualche collega di lavoro no, mi accuserebbero di essere omosessuale e mi starebbero alla larga. La mia famiglia? No, non mi ricordo l'ultima volta che mi sono incontrato con loro senza sbraitarci contro. Con i miei amici no, non ho amici con cui parlare e confidarmi. Per cui tu, per stasera, sei mio amico, non giudicarmi. Per favore, di' un gran "vaffanculo" con me, poi smetto di importunarti, promesso.»
Come faceva una persona ad aver detto metà della sua vita e spiegato tutta la psicologia in meno di un minuto a qualcuno di cui non conosceva neanche il nome?

«Vaffanculo.»

«Grazie, chiunque tu sia. Sei un grandissimo amico per questa serata.» Il tizio si alzò in piedi e si stiracchiò, non curandosi del freddo causato da acqua e vento. Solo i suoi capelli scompigliati se ne rendevano realmente conto, ma avevano poca voce in capitolo.
Prese un gran respiro e portò le mani alla bocca, in modo da amplificare la voce, urlando con tutto il fiato che aveva in corpo, seppure avrebbe potuto strapparsi le corde vocali: «TI- O-DI-O MO-N-DO!»
Namjoon alzò lo sguardo verso di lui, rendendosi conto per prima cosa dei suoi capelli stirati sugli occhi dalla pioggia a dirotto.

Perché risparmiare la propria voce? Anche lui ce l'aveva con quel mondo ingiusto, troppo gratificante verso i ricchi, in panciolle sul loro divano, e troppo burlone per chi moriva di fame e di passione.
Si alzò in piedi e ripeté le azioni dell'altro «TI-O -DI -O- MO-N-DO!»
Lo odiava per tutto, per aver rovinato la sua vita fin dal principio. E fanculo alle sue mani, alla società, ai suoi sentimenti.
Erano i propri: perché era incapace di controllarli? Le mani poste a coppa gli tremavano per la rabbia e fu anche sul punto di scivolare, per quanto le sue gambe non riuscivano a reggersi in piedi.

«IL MONDO È ABOMINEVOLE, SEI ABOMINEVOLE!»

«TI ODIO, POVERTÀ!»

«RIPRENDITI LA MUSICA, TI ODIO, MUSICA!»
Stritolò tra le mani uno spartito già accartocciato che aveva nella sua tasca, con denti stretti e trattenendo il clamore di aspetto demoniaco che era nascosto profondamente.

«MANI, VI ODIO, MANI!»

Un botta e risposta, nella quale uno urlava qualcosa e l'altro lo stesso, sempre non rivolgendosi una parola.
Solo in quel momento l'uno porse gli occhi verso l'altro, guardandosi per la prima volta e, quasi leggendosi della mente, presero l'ultimo respiro, per urlare, più forte degli altri, un "Ti odio, società", la loro vera nemica.
Non riuscirono a trattenere un sorriso verso l'altro.

Namjoon non aveva potuto desiderare un primo incontro così bello e poetico, che lo fece stare bene, perché da quel momento in poi si dimenticò cos'era la tristezza, quella che aveva provato fino a quel momento.

Aveva chiesto al mondo di riprendersi la musica tanto odiata, ma lui stesso era musica, almeno per le orecchie di Namjoon. Era la stessa melodia dell'universo.

Ritornati al presente, nella casetta della defunta zia, Yoongi poggiò una mano sopra la spalla, facendolo distrarre dai suoi pensieri.
«Vorrei proporti una cosa che è nella mia testa da diverso tempo e mi assilla senza tregua.»
Nam annuì, facendogli segno di continuare.
«Wagner terrà una prima assoluta di una sua opera a Monaco di Baviera, questo ottobre. Il re ha richiesto i suoi servigi e sarà al teatro Cuvilliés: mi farebbe piacere sentire il suo estro ancora una volta.»

«E ci andrai?» l'artista alzò gli occhi verso di lui, incredulo, ma sconfortato dell'ipotesi di non vederlo per qualche settimana e rimanere nella malefica solitudine.
Frenò le sue preoccupazioni avvolgendogli la mano, che era stretta a pugno sul pantalone, con una dolce e rassicurante presa.
«Se volessi andare da solo, non te lo avrei mai chiesto. Devi dimenticarti di questo schifo di casa e schifo di vita: vieni con me.»

I dodici rintocchi del campanile del Notre Dame, al centro di Parigi, fecero ritornare protagonisti Jimin e Jungkook, coinvolti in un gioco di sguardi proibiti: si desideravano,  perché avevano bisogno di qualcuno su cui sfogarsi.

La verità era che Jimin non avrebbe mai amato Jungkook, poiché il suo cuore apparteneva a qualcun altro, e che a Jungkook ribrezzava essere così tanto vicino ad un uomo.

Come poteva uscire fuori dal labirinto apparentemente senza fine?
Sebbene tutto, non se la sentiva di dir di no a Jimin. Seppure ripensava sempre al fatto che fosse tra coloro che avevano molteplici volte rifiutato ogni suo romanzo ㅡ magari proprio Jimin l'aveva fatto, scartandoli fin dalla prima paginaㅡ lui era l'unico in quel momento che potesse aiutarlo a non pensare.
Insomma, erano in grado di aiutarsi entrambi senza rivolgersi una parola, perché esitavano a cogliere l'occasione?

«Jimin...» lo chiamò a bassa voce, in modo che soltanto lui potesse sentirlo.
«Jungkook...?»

«E se... stessimo facendo qualcosa di sbagliato? Tu ami Yoongi, questo l'abbiamo appurato, perché allora non lo rincorri in qualsiasi maniera...»

Jimin scosse il capo, abbassando gli occhi verso il petto di Jungkook e stringendosi di più a lui, avvolgendo le braccia attorno al collo del ragazzo. «Mi chiedi di fare una cosa impossibile. Il cuore di Yoongi adesso è di qualcun altro ed io ho perso il mio treno. Posso soltanto rimpiangere quel che ho fatto, non rincorrerlo.» il suo tono era triste, quasi da far tenerezza a Jungkook.

«Jimin, se tu adesso provassi a dimenticare Yoongi attraverso me, non arriveresti a nessun traguardo. Quel che ti dissi la scorsa volta a riguardo... insomma, era una mia idea momentanea. Ti aiutava a distrarti, ma non a dimenticarlo. Dimenticare fa male, più di quanto faccia male la nostalgia.»

«Me lo consigli a mio rischio e pericolo. Preferisco farmi male dimenticando piuttosto che farmi male ricordando.»

E fu in quel preciso istante che Jungkook si rese conto delle parole che aveva appena detto: era realmente lui? No, il vero se stesso, quello di qualche mese prima, non avrebbe mai detto una cosa del genere.
Il suo fine? Pubblicare il libro.
Il suo mezzo? Jimin.
In quel momento era come diventato diverso, come se avesse acquisito una corazza sensibile ed empatica. Non l'aveva mai voluta, eppure eccola lì, che dava consigli a Jimin su come star bene, quando di quel ragazzo, che molto probabilmente aveva rifiutato le sue opere, non gliene importava nulla.

La cosa peggiore era che sapeva chi l'avesse reso un altro uomo.

«Jungkook, ti scongiuro. Te lo prometto, dopo oggi smetterò di avanzare questo tipo di richiesta, non voglio costringerti in alcun modo, è solo... una richiesta.»
Jimin sospirò, tornando a guardare negli occhi Jungkook.

«Qualcosa in particolare ti ha reso triste, oggi.»

L'altro annuì, confermando la sua ipotesi. «L'ho visto questa mattina mentre passeggiava con a fianco il suo amante.»

Namjoon?

«E dove sono andati?»

«Non lo so, prendevano una strada che porta fuori città. Li ho solo incrociati, ma ho fatto finta di non vederli. D'altronde non hanno visto me.»
Jungkook interruppe i suoi pensieri riguardo il suo amico e tornò a concentrarsi sui dolori di Jimin, col suo sguardo sconsolato e adesso dagli occhi lucidi.
Si stava davvero aprendo davanti ad una persona che conosceva meno che niente su di lui? Evidentemente sì, e questo dimostrava quanto Jimin amasse Yoongi, poiché non accennava a tenerlo nascosto a nessuno, così come Yoongi non aveva nascosto il suo amore al primo sconosciuto trovato per strada.
Forse perché agli sconosciuti si possono dire così tante cose, dato che non si ritroveranno mai più e mai si conoscerà il loro pensiero.
Il maggior nemico, dunque, non è la società in sé, ma la parte di società che più è amica, il che è un paradosso.

Jungkook non era amico di Jimin, ma comunque non lo giudicava come avrebbe contrariamente potuto farlo un suo famigliare. In sostanza, Jimin e Jungkook erano sconosciuti e l'unico modo per dimenticarsi delle amicizie era cogliere il momento prima di diventare dei conoscenti.

E di giudicarsi.

Jungkook non era il vero se stesso davanti a Jimin, sentiva di essere cambiato a causa di Taehyung, poiché conoscendolo, aveva imparato a comportarsi in base al suo giudizio. A lui non importava il giudizio degli altri, al Jungkook vero bastava solo lui stesso. La sua carta, la sua penna e la dannatissima priorità di pubblicare un libro.
Jimin era uno di strumento, uno sconosciuto che non pensava nulla di lui e che poteva usare a suo piacimento prima di diventare dei conoscenti.

E si sa, il fine giustifica i mezzi: se il fine era arrivare all'egoistica felicità, poteva usare qualsiasi mezzo pur di ottenerla.
Taehyung era il giudizio, la critica, la confusione e la falsità della sua persona, nascondendo il suo vero se stesso.

«Sai una cosa, Jimin.»
L'apatia pervase il suo volto e il biondo credette di non conoscerlo più, cambiato all'improvviso. Jungkook strinse la camicia nivea come l'indole del vice direttore e mosse la mano con prepotenza per avvertire la sua pelle da sotto il cotone.
«Lascia stare quello che ti ho detto.»

E con questa frase fece combaciare le loro labbra, avvertendo nuovamente, dopo diversi mesi, quei piccoli cuscinetti far pressione sui propri sottili. Allungò le dita a stringere i capelli biondi di Jimin fin dalla cute, volendo avvicinarsi il più possibile. Sentì i mugugni che esprimevano sorpresa, ma che man mano si abituavano alla situazione: il biondo socchiuse gli occhi, abbandonandosi al tocco deciso di Jungkook sul proprio corpo.

Lo spinse verso il tavolo della scrivania e lo fece sedere su di essa, portando le proprie mani prima sui pantaloni del più grande, abbassandoli e sfilandoli via ㅡ dopo che Jimin si era tolto le scarpe da séㅡ e facendolo rimanere in soli calzoni. Furono molteplici gli ansimi che il biondo emetteva, buttando la testa all'indietro poiché eccitato dal soffio caldo che l'altro ragazzo emetteva sulla pelle delle proprie cosce, toccate sensualmente da sotto l'intimo tramite la presa ferrea. Ogni suo boccheggio era quasi una preghiera che chiedeva a Jungkook di muoversi a spogliarlo e a spogliarsi.

Stando seduto sulla scrivania, Jimin arrivava alla stessa altezza dell'altro, una situazione che fece leggermente ridacchiare Jungkook, ma subito dopo lui avvolse le proprie mani attorno al busto del biondo mentre lo stava baciando nuovamente, ma lì non ci rimase a lungo, poiché le celeri dita si erano già accinte a muoversi verso il basso, abili.

Lui, che aveva continuato a definire poco piacevole una sensazione che includesse effusioni con qualcuno del suo stesso sesso, in quel momento sentiva i propri calzoni essere stretti, delle gocce di sudore scendere lungo la fronte a causa del calore e un paio di mani che non accennavano minimamente a voler smettere. Le allungò verso la giacca di Jimin, sfilandogliela via senza problema; poi fu il turno della camicia, i quali bottoni furono tolti dalle loro asole in meno tempo della media, per quanto era impaziente. Davanti a lui rimase soltanto un Jimin dalla biancheria intima, così come era successo la volta precedente. La differenza sostanziale stava nel fatto che qualche mese prima quella era per lui una sorta di tortura al fine di riuscire ad avere qualche risultato concreto per il suo libro; questa volta, oltre a farlo per il libro, lo faceva perché la prima era stata così piacevole che avrebbe voluto rifarlo un centinaio di volte e in tutte quante avrebbe voluto dirigere la situazione. E, Cristo, quanto era bello quel ragazzo.

Jungkook non era omosessuale però, c'era ancora un gran divario tra le due cose e avrebbe continuato ad affermarlo.

Adesso era il suo turno a spogliarsi: iniziò dalle scarpe, che gettò via, per poi passare ai pantaloni, assieme alle calze, strette con un laccio sopra al polpaccio, e poi al gilet e alla giacca e infine alla camicia. Durante tutto ciò Jimin era rimasto ad osservarlo attentamente e poté rendersi conto dall'impazienza di Jungkook data la velocità con la quale si era svestito. Non appena finito, portò le sue mani sopra al bacino di Jimin, sfilando via il suo intimo e, subito dopo, fece la stessa identica cosa con il proprio.

Erano di nuovo nudi l'uno davanti all'altro. Jungkook portò una mano alla sua testa per tirarsi i capelli all'indietro e utilizzò di quel momento per riprendere aria dalla situazione che gli faceva andare il cuore a mille.
Poi, celermente, si tuffò di nuovo sul volto di Jimin, mangiando le sue labbra e assaporandole per intero, quasi timoroso che gli venissero sottratte da un momento all'altro.

Era così dannatamente bello riuscire a non pensare a niente, assolutamente a niente.
Si sentiva una persona superficiale ed egoista, in grado di approfittarsi della gentilezza degli altri o, ancora peggio, delle loro debolezze.
Si sentiva, per una volta, come una di quelle persone che, fin da piccolo, aveva sempre odiato e che aveva sempre sperato non diventassero il suo esempio di vita.
Eppure, in quell'ultimo anno, divenire un essere del genere era l'unico suo appiglio per non sprofondare in un abisso fatto di emozioni, che lo avrebbero trascinato, trascinato, trascinato, fino a che non avrebbe visto più un raggio di luce del sole nella più remota lontananza.
Poteva giurare sul fatto che era stata soltanto una necessità quella di diventare quel tipo di persona, ma tanto superficiale.
Non era davvero subdolo: erano state le sue necessità che l'avevano portato ad essere tale.

Eppure si sentiva bene. Eppure non sapeva più chi era.
Non era se stesso quando provava ad aiutare Jimin, non era se stesso quando si comportava superficialmente.
E allora chi diamine doveva essere? In che modo era se stesso?

Forse, gli unici momenti recenti in cui era stato se stesso, erano stati quando aveva visto le stelle.
Quei dolci corpi luminosi, assieme al cielo notturno, erano la metafora della sua vita: dei bagliori di consapevolezza in un mare di dubbi su chi era lui veramente.

Se avesse sentito ogni suo pensiero si sarebbe accorto di quanto fosse contraddittorio in ogni suo filo logico. D'altronde, è così che si è sul palcoscenico della vita: lui era soltanto uno dei tanti attori che non sanno star recitando, in preda alle loro preoccupazioni e mossi dalla loro indole del trovare il miglior modo per salvare se stessi, impauriti dalla morte.

Patetico. Patetico come nessuno riesca a trovare il vero se stesso in nessun istante della propria vita e patetico come ci si frammenti in migliaia di pezzi.

Per cosa stava facendo tutto quello Jungkook, in sostanza? In cosa credeva? Che cosa voleva fare?

Avrebbe così tanto voluto non prendere alcuna decisione ed essere collocato tra gli ignavi: la titubanza non gli avrebbe causato problemi, ma egli non la conosceva e avrebbe sempre preso le scelte sbagliate.

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