「01/02/1867」
42.
Stranamente, secondo Ménétios, Taehyung ci stava mettendo più del dovuto a realizzare il quadro che raffigurava la luna. Sbagliava ogni volta le luci e ogni qualvolta gli indicava dove aggiustare, ecco che il ragazzo dava una pennellata di troppo e guastava tutto quanto: l'uomo fu sul punto di avere un esaurimento nervoso almeno cinque volte in tutto, specialmente nelle ultime settimane.
Taehyung era partito come un razzo per realizzare la base, mettere i primi colori e aveva capito in un niente come realizzare un dipinto ad olio. Un vero prodigio, ma sembrava che fosse diventato incompetente sul punto di mettere i dettagli.
Lambert sapeva che ne era in grado e non capiva perché non stesse collaborando.
Gli mancava casa? Era forse un dispetto per non avergli lasciato scrivere alcuna lettera?
«Hai sbagliato ancora.»
La voce dura dell'uomo, in tono basso, risuonò per tutta la stanza in bassa e sovrumana frequenza: Taehyung giurò di aver sentito le pareti vibrare.
«Sono qui per imparare, qui accanto ho un grande maestro.» ribatté, con allegria in viso. La sua solita allegria che lo faceva apparire stolto.
Lambert lo guardò severo e si alzò in piedi dallo sgabello sul quale era stato per tutta la giornata.
«Facciamo pausa.»
Taehyung allora si alzò in piedi, poggiò la tavolozza dei colori in corrispondenza del gancio del cavalletto, il quale era in grado di sorreggerla, e si tolse il grembiule, stiracchiandosi esausto.
Osservò il suo dipinto, inclinando il capo di lato: per lui era perfetto da almeno un paio di settimane e proprio non capiva perché gli artisti erano così puntigliosi.
«Penelope ha preparato il castagnaccio,» disse Ménétios, avvicinandosi alla sua borsa, dalla quale fuoriuscì un piatto coperto con uno strofinaccio.
Taehyung scosse il capo, allungando la mano in gesto di rifiuto. «Sono a posto così.»
Lambert ripose il dolce a posto, senza neanche prenderne un pezzetto. Non si era offeso, anzi: si poggiò alla parete, con le braccia incrociate, fissando il ragazzo che a sua volta era concentrato nel contemplare la propria opera.
«Ho solo nostalgia di casa, maestro. Se mi lasciassi scrivere a Jungkook solo una volta... non sa che fine abbia fatto e ho paura che sia in pena per me, ed io in pena per lui. No, non voglio quel dolce e te ne prego, che non sia motivo di offesa, ma sento la mancanza dei cornetti appena sfornati che mangiavo con Kookie, ed erano i nostri preferiti. Anzi, sono ancora i nostri preferiti.»
Emise una risatina malinconica e si avvicinò al quadro che raffigurava la bellissima Luna. Incantevole, ipnotica.
Lambert annuì. Sapere qualche dettaglio in più era sempre ben accetto.
«Non puoi tornare a casa adesso, lo sai, vero?»
Tae annuì, sussurrando un "lo so" strozzato. Neanche lui sapeva quale sarebbe stato il suo futuro lì, poiché certo che sarebbe tornato a casa dopo quei brevi mesi, ad aprile; non aveva ancora tirato in ballo la possibilità di ritornare a Firenze per starci chissà quanto altro tempo.
Era lì, che faticava ad imparare e falliva nel fare ciò che amava. Si giustificava dicendo che fosse il suo primo quadro, ma le ore impiegate divenivano sempre di più.
Quella sera teneva gli occhi che gli si chiudevano a causa della stanchezza, poiché il giorno prima era stato tanto impavido da provare a rimanere sveglio al fine di osservare la Donna dietro le nuvole, la quale però non si mostrò mai ai suoi occhi. Egli, difatti, crollò dal sonno verso le cinque di mattina e fu un miracolo che il cinguettio di qualche passero lo avesse svegliato, tanto che fu in grado di arrivare in orario alla bottega senza che Lambert si preoccupasse della sua fine.
Era così stanco che neanche riuscì a posare gli occhi sulla strada senza sentire l'impulso di sdraiarsi per un riposino. Le retine gli bruciavano, così come le palpebre e la testa gli provocava un dolore insopportabile.
Andava ondeggiando da una parte all'altra del sentiero, e si sentì lui stesso un ubriaco, poiché un paio di volte trascinò il proprio capo sulla parete. Non era proprio abituato e non aveva intenzione di riproporre l'idea fino a quando non l'avrebbe compiuta in compagnia.
No, non è vero, lui e Jungkook sarebbero finiti comunque per dormire, ormai erano troppo abitudinari.
Se avesse saputo il nome della via in cui si trovava, sarebbe stato più facile orientarsi, poiché aver imparato la cartina di quel centro di Firenze era stata la prima cosa compiuta appena arrivato. Ma, stando lì, tutte le strade gli parevano la stessa, con palazzi dello stesso colore o lo stesso numero di balconi ed abiti stesi ad asciugare.
Le varie botteghe erano chiuse con un'insegna che al buio pareva la stessa, senza neanche una flebile luce proveniente da una candela solitaria.
C'era giusto una figura che avanzava come un'ombra: non si spaventò, poiché era ben visibile la mantella indossata da quell'uomo, dello stesso colore di quel cielo annuvolato, e notava il riflesso dei suoi capelli.
Socchiuse gli occhi, al fine di scrutarlo meglio, ed accelerò il passo: avrebbe chiesto all'uomo dove si trovasse la celebre via dei Servi, ma gli sembrò che si fosse messo a correre proprio dopo aver percepito i passi di Taehyung che si propagavano in un eco in quelle strade desolate.
Tae volle richiamarlo, ma dalla sua gola non fuoriuscì neanche un suono: il suo cervello non poteva compiere così tante allo stesso momento, non in quelle condizioni. La vista, sebbene stesse forzando le palpebre il meglio che poteva, era il senso che più si focalizzò sulla vicenda, squadrando al buio quella figura dalla corporatura familiare.
Come se lo avesse avuto accanto ogni giorno.
L'uomo entrò dentro un portone e lo chiuse di forza, provocando un tonfo, che gli fece sgranare gli occhi e fu in grado di fargli passare quel sonno che lo stava distruggendo. La testa continuava a fargli male, ma dalla strada poté osservare la fiamma di una candela venir accesa, prima che la mano della figura chiudesse le tende, le quali, dietro quel calore, parvero verde smeraldo.
Tae aggrottò le sopracciglia, allontanandosi di qualche passo per sbirciare di più al primo piano; invano, dato che la luce dell'altra stanza era completamente spenta, seppur le tende erano spalancate e non erano riparate da nessuna serranda.
Si guardò intorno: che diamine gli era appena venuto in testa di fare? Eppure stava ancora cercando un modo per mettere in pratica il suo assurdo piano.
No, no, non doveva fingersi un ladro, si scusò con se stesso: era certo che l'uomo avesse capito che lo stesse seguendo e quindi avesse deciso di scappare.
Posò lo sguardo sulla muratura del palazzo: tra una mattonella e l'altra vi era un profondo solco.
Rinsavì: era un'idea stupida, causata dalla stanchezza, poiché l'uomo non si era mai né girato per fissare il suo volto, né poteva biasimarlo se l'avesse fatto e avesse deciso di correre a casa, dato che anche lui si sarebbe dato dell'ubriaco per la sua andatura di notte.
Forse era meglio andare a dormire e trovare la giusta strada velocemente.
Chiuse gli occhi, tentando di visualizzare la figura dell'uomo che era appena scappato. Lo vedeva davanti ai suoi occhi.
Possedeva dei capelli scuri e probabilmente erano anche abbastanza lunghi, come quelli di Jungkook.
Come quelli di Kookie.
Rifletté qualche secondo, in mezzo alla strada deserta, senza neanche il lontano rumore degli zoccoli di un cavallo, concentrandosi nel ricordare il suo volto.
Non aveva cappuccio e il viso era anche di un colorito abbastanza bianco, lo aveva notato di lato.
Si ricordò di un particolare di qualche mese prima: lui e Jungkook che stavano scherzando e prendendosi in giro a vicenda, ed in particolare Tae aveva preso come oggetto i capelli lunghi dell'altro, incolti e che sembravano avessero l'ambizione di diventare della stessa lunghezza di quelli di una giovane donna. Si ricordò di come quel giorno erano anche abbastanza lisci e gonfi, e lo immaginò con una coda di cavallo bassa, con qualche ciuffo allentato.
Aveva messo il proprio pollice sul suo volto, scambiandolo con l'immaginaria faccia dai tratti femminili.
Adesso che ci pensava, il mantello copriva fino a terra e non era tanto sicuro di ciò che aveva visto. Non c'era un abito ampio, tipico tra le donne, ma era certo di aver notato uno scorcio di pantaloni dal colore chiaro e degli stivali che stringevano la gamba della figura fin sotto al ginocchio.
Tenne chiuse ancora per un po' quegli occhi, tanto non era più in grado di addormentarsi, ma solo di ragionare. Era proprio sicuro che non avesse visto il suo volto quando le palpebre combattevano tra il sonno e la veglia?
Certissimo che per una frangente di secondo la figura non fosse girata completamente e avesse deciso di scappare via?
Sgranò gli occhi, li rivolse verso la casa non molto lontana dove quella figura si era andata a rifugiare.
Nella sua mente vi era un unico colore, che era stato in grado di identificare sotto la luce che la Luna gli aveva concesso per qualche secondo. Solo il rosso delle labbra, il quale, forzatamente, era finalmente impresso nella sua mente, indelebile.
Una volta arrivata nella propria abitazione, quella ragazza respirò affannosamente: percepiva i suoi polmoni esplodere e il proprio cuore battere all'impazzata, come se non avesse alcun freno. Le gambe le tremavano: per cui, dopo aver chiuso le tende a fatica, cadde per terra causando un tonfo con le ginocchia, che risuonò per tutta la stanza.
Si portò una mano tra i capelli, togliendo quell'elastico di troppo e che la faceva sentire imprigionata.
Non poteva averla notata, era stata bravissima a non farsi vedere: ogni sera andava dalla strada opposta a quella di Taehyung per tornare a casa. Allora che cosa ci faceva lì a quell'ora di notte?
Se l'avesse riconosciuta sarebbe stata la sua fine.
Si tolse il mantello, facendolo cadere per terra, come fosse una coperta morbida. Nel suo soffice materiale desiderava solo affogare le lacrime che stavano opprimendo per uscire.
Si sfilò il corpetto che le stava stringendo la vita provocandole un forte dolore — le coste erano oppresse e non era più in grado di respirare correttamente.
Fu il turno anche della sua camicetta dal tessuto doppio e pesante, adatto per l'inverno, e subito sotto vi era il sottile strato di intimo, opprimente.
La sua pelle desiderava così tanto avere uno sbocco di ossigeno. Non ci volle tanto per sfilare la stoffa bianco candido, gettarla per terra assieme a tutto il resto, rimanendo con nulla in corpo.
Tutti i vestiti che indossava erano una prigione e le cicatrici dietro la schiena le facevano ancora male, poiché ravvivate da poco. Tremò, pensando alla punizione che le sarebbe stata inflitta se Lui si fosse accorto che la colpa del loro fallimento non era altri che la propria.
Strinse i denti, trattenendo un singhiozzo, e portò il volto tra le mani, trasformando tutto quanto in una risata.
Della stoffa della camicia le copriva le parti intime, non rendendola completamente esposta. Inoltra faceva così freddo in quella giornata.
«Soojin? Sei tornata?» sentì una voce cupa provenire dall'altra stanza e nuovamente i brividi le percorsero tutto il corpo. D'istinto, prese il grande mantello e decise di usarlo per coprirsi, poiché non voleva che quell'uomo la vedesse ancora senza nulla addosso. I suoi passi erano sempre più prossimi alla sua stanza e desiderò urlare.
Non era in grado di mentire davanti al volto dell'uomo che le aveva provocato tanto male, per cui si conosceva abbastanza da sapere che si sarebbe inventata qualche scusa che non stava abbastanza su due piedi. E poi lui era troppo furbo, era in grado di capire solo dal tono quando qualcosa non andava.
Le ferite le facevano male e il tessuto doveva averle irritate.
«Soojin?»
«Sì, sì, Ménétios, sono tornata! Adesso mi sto cambiando, potresti entrare più tardi?»
«A luci spente?»
Si vedeva da sotto la porta che era tutto buio e il panico la avvolse.
«Avevo intenzione di andare a dormire, ma se dopo devi entrare, le accendo.»
«Dormire senza neanche avermi dato la buonanotte?»
Le venne il rigurgito, come sempre, ripensando a quell'uomo che la teneva stretta tra le sue braccia. Si chiedeva cosa avesse fatto per meritarsi quello.
Chi era lei? Seo Soojin, una giovane donna di Parigi che era stata strattonata in Italia da quel viscido uomo. Aveva ventiquattro anni, quando sua madre le aveva presentato quell'uomo, più giovane di lei di qualche anno: si stavano frequentando, all'epoca, ma non passò molto tempo prima che Ménétios decidesse di corteggiarla, lasciandole delle rose sul portico della casa, con su scritto "Per S. S."
La madre era felice che avesse un ammiratore segreto, ma era troppo cieca da non rendersi conto che quella fosse la stessa scrittura di Lambert.
Per un po' fu davvero divertita dalla situazione e aveva trovato interessante quell'uomo, specialmente per le sue proprietà e la sua ricchezza.
Una sera decise di uscire con lui, giusto per sapere come sarebbe stato quell'incontro proibito: egli le donò degli orecchini ed una splendida collana, il cui cameo si poggiava al centro del suo petto, valorizzandolo, rendendolo il letto di quel gioiello.
Era affascinata inoltre dalle sue conoscenze letterarie e dall'abilità nel realizzare dei quadri ad olio. Aveva sorriso quando le aveva proposto di farle in ritratto, per incorniciare la sua eterna bellezza. Dopo cinque anni non sembrava affatto invecchiata, sembrava ancora giovane e splendente come una perla, ma quel che era certo erano i solchi sotto gli occhi che si erano formati a causa delle notti insonni.
Sua madre la aveva cacciata di casa quando era giunta a sapere, un giorno in cui era andata dalla modista, che girava la voce che quell'uomo avesse deciso di lasciarla per sua figlia. Era adirata con lei: Lambert, a quei tempi, era veramente bello, da togliere il fiato, e quella decina di anni in più non si notava affatto, poiché accanto a Soojin parevano coetanei. Il suo modo di vestire era affascinante e calamita per le donne, eppure aveva scelto lei, quella giovane donna che era appena apparsa nella società come donna fertile e ancora nubile, pronta per trovare marito.
In un battibaleno, non ebbe più la possibilità di incontrare i suoi fratellini più piccoli, né di avere un posto per dormire.
L'unica casa dalla quale poteva sperare pietà era proprio quella di Lambert: non aspettarono altro per rendere ufficiale la loro unione, giacendo assieme sullo stesso talamo.
Se per un po' si era sentita innamorata, tutto quanto cambiò una sera, quando Ménétios la attese a casa con gli occhi rossi sia dal pianto sia dalla rabbia. Adirato come non mai, il suo cambiamento mutò sempre di più.
Il suo sguardo colmo di fascino aveva assunto quel suo ormai solito ghigno, che gli aveva tramutato completamente il volto, rendendolo più anziano di giorno in giorno.
Rovinato e lei ne capiva il motivo.
Ma girare tutta Europa per cosa, qual era il loro scopo? Perché aveva deciso di spendere gran parte del suo denaro per inseguire una vendetta che non aveva alcun fine?
Un giorno si era provata ad opporre, dopo diverso tempo. Stettero a Madrid, quel mese, e desiderava tanto ricordarsi la permanenza per le bellezze del luogo, la storia, la civiltà: non per essere stata la prima volta, in quella villa lussuosa avvolta da piante rampicanti, ad aver subito una violenza dopo l'altra.
Non poteva parlare, non poteva fare altro che essere sua aiutante per l'operazione che aveva organizzato e che aveva un suo fine.
Lo aveva sicuramente, prima o poi ci sarebbe riuscito, a realizzare la sua vendetta, ma se lei non collaborava era solo d'intralcio.
"Lasciami!" Aveva urlato, graffiando il pavimento sul quale era stesa, tentando di scappare via. Fu troppo faticoso e si ritrovò a pancia in giù, col respiro mozzato e la schiena scoperta, vulnerabile.
Il suo cuore smise di battere al suono dell'amore quando le unghie dell'uomo la raschiarono, come solo fa un leone affamato. Una lacrima cadde per terra e probabilmente è ancora oggi intrappolata nelle travi del pavimento della villa iberica.
Doveva abituarsi a quella vita diversa dalla sé di ventiquattro anni.
Diventò un'abitudine farle del male, ogni qualvolta che non seguiva come lui diceva di fare. Persino i vestiti: era di sua competenza decidere cosa si sarebbe dovuta indossare e quanto la sua vita dovesse essere stretta, per soddisfargli la vista. "La mia donna deve essere bella", parole che spesso le rivolgeva.
Era bella, lei, bellissima, dal volto che non era in grado di invecchiare, ma triste come qualcuno che sa che incontrerà la morte domani.
Ménétios era il suo incubo: "Non hai famiglia, non hai denaro, non sei nessuno senza di me. Dove intendi andare?"
Era grata di aver salvato sua madre da quel pazzo, logorato dalla sete di vendetta.
Indossò l'intimo della notte, per quanto poteva in quel breve tempo che le era concesso, e strinse i lacci del corpetto stretti così come Ménétios desiderava osservare. Infine arrotolò la stoffa al fine di scoprire la gamba destra, quasi in modo involontario: chissà se ciò lo avrebbe reso meno acido.
Si legò nuovamente i capelli, questa volta in una crocchia, e spinse tutte le vesti sotto il grande letto, dallo spazio adatto per due persone, che però lei usufruiva singolarmente.
Almeno la maggior parte delle notti era lasciata in pace.
Sprofondò con la schiena nel soffice materasso, tra quelle coperte invernali.
«Posso entrare? Vedo che hai ancora deciso di andare a dormire.»
Si morse il labbro, tirandosi su, tentando di pensare a una frase scaltra, sebbene il suo tangibile timore.
«Mi piacciono di più spente. Non le preferisci anche te così?»
L'uomo ridacchiò, poggiando la fronte sulla porta, ancora chiusa, che lo separava di così poco da quella splendida ragazza: di solito era lui che programmava i loro incontri, era davvero una grande sorpresa che fosse una sua iniziativa. Dunque entrò in quella stanza e la ragazza finse, il meglio che poteva, il sorriso più sensuale che conosceva.
A lui piaceva tanto quando lo aveva in volto e anche Soojin, a volte, si sorprendeva. L'unico motivo per cui era in grado di mostrarlo, era qualcosa di completamente diverso davanti ai suoi occhi e non il suo viscido volto e le sue unte mani.
Credeva di avere pazzia ed essere seducente, come fosse un personaggio di una novella o un'opera epica, simile alle donne o divinità dalla bellezza così indescrivibile da contenere tutta la loro meraviglia nel singolo attributo che possedevano.
Musa, dea, regina, fingeva di essere sensuale come loro, in grado di far perdere la testa a chiunque.
Lei lo era, lei lo era, ammattita.
"Il diavolo", non era il diavolo, così come era chiamata da Lambert: era una divinità, perché le divinità hanno origini più antiche di esso.
Alzò un sopracciglio e si morse il labbro, portando le mani sulla testa e poi facendole scendere lentamente lungo il petto. Non brava a parole a fingere, ma sublime con i gesti.
L'uomo chiuse la porta.
Chiunque mi stia ascoltando adesso, che mi aiuti.
In tutta la casa, dei passi, eseguiti in punti di piedi, ci mettevano tutto loro stessi per non venir uditi, come fossero zampe di un agile gatto. Persino le scarpe si era tolto, ma questo non fermò il pavimento nel cigolare, suono che gli fece rizzare tutti i capelli, impaurito da cosa i proprietari avrebbero potuto pensare se avessero visto un estraneo in casa.
Ma quella ragazza, quella ragazza che aveva visto a Parigi era talmente impressa nella sua mente che non era proprio in grado in lasciar perdere. Era solo una coincidenza, che lei, che quella Soojin, si trovasse in Italia proprio dopo che era partito? Il suo volto era inconfondibile, adesso che la mente si era schiarita. Le sue labbra carnose, tinte dal rosso del sangue, non erano scambiabili con quelle di nessun altro.
Si ricordava il nome e le fattezze: ci aveva riflettuto, su quella ragazza e su quanto pericolosa fosse stata la loro azione, nel dire lei i loro nomi così facilmente. Era una strega? Una dea?
«Soojin, alzati, vammi a prendere un bicchiere d'acqua, sono stanco.» sentì dire Taehyung, dalla porta proprio accanto a sé, e sgranò gli occhi, saltellando da un piede all'altro in preda al panico: si rifugiò nella stanza aperta e vuota più vicina, ovvero quella accanto che da fuori aveva notato spenta.
La voce dell'uomo era ovattata e non distinguibile, ma era certo che fosse affannata.
L'intruso deglutì, sperando che non fosse entrato in casa in quel momento abbastanza delicato. Eppure anche egli aveva il respiro affannoso, poiché alla fine decise di scalare le pareti esterne della casa, da un solo piano, fortunatamente, ed entrare dal tetto. Si trattava di una piccola villetta semindipendente immersa nella città ed era intuibile dal portone di ingresso tanto grande e sfarzoso.
La finestra del tetto era aperta per far circolare l'aria e ringraziò di essere abbastanza magro per passarci.
"Ma che sto facendo?", si chiese, nascondendosi dietro la porta dello studio, aspettando che i passi della ragazza sfumassero nella lontananza. Quando lei sarebbe tornata nell'altra stanza, allora avrebbe acceso una candela con un fiammifero posto da qualche parte e avrebbe potuto curiosare un po', per scoprire di più di quella donna.
Per strada lo aveva visto, nessuna scusa, e se lo conosceva stava scappando da lui e doveva sapere perché. Chi era? Che ci faceva lì?
Sperava di non starsi sbagliando e di non aver visto male, si sa che il sonno fa brutti scherzi: ma in quel momento si fidò anche del suo istinto.
«Va bene, non ti disturberò più.»
Sentì dire, dopo vari minuti in cui era rimasto in attesa. «Buonanotte, tesoro.»
Che stava succedendo? Perché lei non rimaneva nel suo stesso letto?
I passi delicati giunsero accanto a sé e a separarli era solamente quella lastra di legno della porta.
Soojin sospirò e Taehyung sentì il tonfo delle sue ginocchia incontrare il pavimento, esausta: inoltre, percepì anche dei singhiozzi, che parevano delle risate soffocate.
Taehyung non poteva proprio rimanere immobile, non era affatto nella sua morale: era gentile e chiunque meritava una mano, se era in difficoltà.
Non gli importò se poteva denunciarlo alla polizia per aver varcato suolo privato, ma in quel momento aveva bisogno d'aiuto. Le porse la mano e lei alzò gli occhi verso quel ragazzo che si era presentato come un angelo in quella stanza. Il suo sorriso ampio e rassicurante era l'unica cosa che era in grado di identificare a causa degli occhi colmi di lacrime.
«Mi scusi, se sono qui in casa vostra,» le disse in francese, dato che sapeva fosse la sua lingua madre «ma credo che in certi casi, la legge non vada rispettata. Mademoiselle Soojin?»
La ragazza perse un battito e sgrano gli occhi, asciugandone gli angoli e le guance, notando effettivamente Taehyung, dal quale aveva tentato di scappare in precedenza.
«No no no no... no, vai via di qui, scappa via, se ti vede finirò in un mare di guai, e anche tu!» si mise in ginocchio, stringendosi i capelli dalla cute e guastandosi la sua arrangiata acconciatura.
«Perché?»
Deglutì. Quel ragazzo non era Ménétios, per cui una scusa poteva trovarla più facilmente. «Il signore non desidera degli sconosciuti.»
«Non è vero, dimmi perché sei qui: perché stavi scappando da me? Sei tu la ragazza che mi ha detto il nome l'ultimo dell'anno, me lo ricordo. Soojin, me lo ricordo, e conosco il tuo viso, impossibile da dimenticare.»
«Scappa via da questa casa, scappa via o mi farà del male! E farà del male a te, più di quanto ti immagini! Il leone, attento al leone...» farfugliò.
Gli balenò nella mente un frangente di mesi prima.
«Soojin! Eri tu, eri tu anche in Austria!» Taehyung indietreggiò di qualche passo mentre lei abbassò la testa, poggiandola sul pavimento, in segno di preghiera. «Vai via di qui. Vai via, quei segni che hai visto quella sera me li ha procurati lui, se te ne vai oggi mi risparmierà. Te ne prego, sono stanca di tutto questo.»
Le prese la mano, intrecciando le loro dita, al fine di poterla rassicurare.
«Scappa via di qui, conosco un uomo che ti potrà aiutare: lui e sua moglie Penelope potranno aiutarti, Ménétios è un bravo uomo, sono brave persone, possono tenerti al sicuro-»
No!
Dalla gola di Soojin fuoriuscì quella negazione tanto raschiata da graffiarla, quasi i suoni emessi fossero degli artigli. Si accorse troppo tardi che il suo urlo era stato avvertito per tutta la casa.
Lambert stava ingannando tutti loro, Taehyung in primis e Soojin era una sua alleata in quella casa chiusa con un lucchetto dorato.
Attendeva di essere trascinata all'Inferno, luogo molto meno tormentoso della Terra dei vivi.
«Scappa. Taehyung, scappa di qui, ti prego, scappa, prima che arrivi.»
«Soojin? Che succede?» avvertì la voce dall'altra stanza: l'uomo si era alzato dal letto e probabilmente si stava precipitosamente vestendo, per andare a vedere cosa stesse accadendo lì accanto.
La ragazza gli lanciò l'ennesimo sguardo di supplica e allora lui indietreggiò verso la finestra, dalle tende aperte, che svolazzavano a causa del vento che si era appena alzato.
Guardò verso il basso. Così alto.
Deglutì. Doveva solo aggrapparsi alle tubature e alle mattonelle come fatto per salire, niente di che. Non aveva tempo per avere paura, ma in quel frangente di tempo in cui si aggrappò all'esterno, sebbene percepì i propri piedi non saldi e lui sul punto di precipitare, un foglio che era poggiato sulla scrivania gli volò dritto in mano. Prontamente, ma anche involontariamente, lo afferrò, al posto della mattonella.
Sentì il suo corpo cadere giù per la palazzina, con quella dannata pergamena, proprio nel momento in cui vide la testa dell'uomo che cominciava a mostrarsi.
I suoi capelli svolazzarono al vento e il suo collo andò all'indietro, il vento gli scalfì la pelle.
Non lo aveva visto.
Non si era schiantato al suolo.
Riuscì a scivolare per una tubatura, scottandosi la mano destra ed entrambe le ginocchia.
Alla fine piombò sulla strada in un tonfo, emettendo colpi di tosse, ma ciò non lo fermò dal rialzarsi in piedi scattante prima che il proprietario decidesse eventualmente di affacciarsi dalla finestra.
Perché aveva ancora il foglio tra le mani? Gli era rimasto quasi incollato, per cui decise di dargli un'occhiata veloce.
Intanto a qualche metro di distanza Ménétios sbraitava contro la ragazza, poiché aveva lasciato la finestra aperta, la sua lettera gli era caduta giù e non sapeva che fine aveva fatto e poi lei aveva urlato in piena notte.
«Lasciami, non è stata colpa mia, ho cercato di prenderla, ma è volata! Ti prego, non di nuovo, non voglio che mi raschi ancora, ho i solchi!» indietreggiò.
«Sai, anche le prede urlano, prima di essere divorate.»
Le sue unghie, in quei momenti, erano lunghe, molto più lunghe della realtà.
Ciao, Jungkookie!
Oggi come stai, amico mio? Ho approfittato per scriverti per chiedere una cosa: che ne dici se vieni a trovarmi a Firenze, qua in Italia, per un po' di giorni? Il mio appartamento in via dei Servi è fantastico, la cupola di Santa Maria del Fiore è più bella ogni giorno che passa, sarebbe magnifico vederla all'alba con te. Poi, vorrei che tu mi raccontassi del tuo libro, mi manca averti accanto. Vorrei mostrarti il mio quadro
Taehyung sgranò gli occhi dal primo rigo, ma la lettera non era completa.
Le cadde dalle mani e fu spazzata via dallo sbuffo delle nuvole, volando via in un luogo indeterminato, lontano, in quella bufera di freddo e terrore.
Fu allora che collegò tutti i punti: la paura di Soojin quando lui pronunciò il nome di Lambert, le unghie di quell'uomo peculiari poiché abbastanza lunghe tanto temere ogni volta che gli avrebbe forato la tela, le sue domande su Kookie, il loro soggiorno in Austria.
Chi era quell'uomo con cui si erano scontrati, correndo, lui e Jungkook, quel giorno tanto lontano, dimenticato?
Ménétios Lambert.
Tutto quanto combaciava alla perfezione ed era caduto nella sua trappola come se l'arte fosse del formaggio e lui il topolino affamato.
Non sapeva quali fossero le sue intenzioni, ma fatto sta che gli aveva rivelato ogni cosa, troppo buono e fiducioso. Tutto, tutti i dettagli della sua vita, il suo passato, le sue passioni. Persino riguardo Kookie, si era confidato, ma della grande storia che li coinvolgeva, aveva omesso il dettaglio più importante: i due erano amanti.
Chissà, forse per vergogna? Timore che poi non sarebbe stato considerato alla stessa maniera? Sulle relazioni sentimentali che lo coinvolgevano e circondavano era stato silente, perciò ringraziava il cielo.
A Parigi, quattro giorni dopo, vedere davanti a sé il "capitolo 20", fu un grande traguardo. La carta riempiva due cassetti della scrivania, le bozze invece stavano tutte nell'angolo della sua stanza, accartocciate e lanciate all'indietro, rese spazzatura.
Ad ogni pergamena scritta con il giusto movimento di stilografica e i giusti segni di inchiostro, Jungkook faceva quel suo solito sorrisetto soddisfatto. Ogni tanto prendeva tutti i fogli tra le mani e ne contemplava la quantità. Scriveva in stanza, in biblioteca, nel salone, nella stanza dedicata alle arti, tra cui la pittura e la musica — quando Yoongi suonava il pianoforte, si creava l'atmosfera perfetta per buttare giù le idee più colme di sentimenti.
Jimin lo aveva anche sorpreso in cucina, sotto il tavolo, che insinuava che quella luce e quell'ispirazione fossero i migliori in quel momento.
Kook era talmente elettrizzato dall'idea che presto avrebbe mostrato le bozze al suo capo, a Seokjin, e non stava proprio nella pelle. Il suo amico biondo, quando parlava di quel tale con tanta euforia, roteava sempre gli occhi al cielo, invidioso che avesse così tante attenzioni, quando invece era Jimin stesso ad essere quasi il capo della Mabillon. Ma adesso che erano amici, non sarebbe stato più semplice pubblicare grazie a lui un suo libro qualsiasi, senza starsi a dannare l'anima?
«Significherebbe barare, ed io non baro, perché non sarei soddisfatto di me.»
Sapeva benissimo di essere un'ipocrita e bugiardo, dato che quell'errore lo aveva compiuto così tante volte, in passato, che era stata anche la causa per cui si era avvicinato a Jimin.
«Quand'è che ti devi incontrare?» chiese esasperato, quando tutti e tre erano in sala da pranzo per gustarsi questa volta della carne.
La risposta fu un breve, ma colmo di emozione, "questo pomeriggio".
«Secondo me non ti serve Seokjin. Te lo dico e lo ripeterò allo sfinimento: un qualsiasi manoscritto, se lo trovo adatto, lo leggo attentamente e ne correggo gli ultimi errori. Lo sai che non avevo la più pallida idea che li tenesse chiusi nel suo studio ad aspettare il momento adatto per farsi avanti. Che razza di pazzo scarta un ragazzo talentuoso perché ha un progetto in testa a cui non sa neanche se potrà partecipare? È stato davvero fortunato a trovare almeno te. Ma, per cortesia, ti chiedo di non dargli più retta: non scrivere nessuna continua, non ne vale la pena.»
Jungkook ridacchiò, osservando lo sguardo imbronciato di Jimin, che se ne stava dall'altra parte del tavolo con le braccia strette al petto.
«Invidioso della mia pubblicazione?» alzò un sopracciglio, sapendo che così lo stuzzicava.
«Io? Invidioso? Perché dovrei essere invidioso? Dovresti essere tu invidioso di me: io sono ricco, ho una bella casa, ho un lavoro che rende il mio nome rinomato per la città. Sono nobile, non posso essere invidioso di te, che vai farfugliando?»
Suscitò le risa in Jungkook, che scosse il capo ed armeggiò con coltello e forchetta.
«Allora sei infastidito che sia un altro a gestire la mia pubblicazione.» sussurrò, abbastanza che potesse sentire la frase.
«Non è affatto vero!» Jimin si mise sulla difensiva, lanciandogli un tovagliolo addosso, il quale non arrivò mai al bersaglio, ovvero il suo naso, ma cadde a metà del tavolo.
«Hah! Sei infastidito da questo. Invidioso di lui? Perché sono troppo fantastico e volevi essere tra i miei gioiellini.»
Si vantò, alzando il mento altezzoso.
Yoongi nel frattempo se ne stava in silenzio, a sentire quei due che avevano appena cominciato quella conversazione dai toni infantili, preferendo dedicarsi a sorseggiare quel bicchiere di vino rosso con sguardo da intenditore e provando ad eliminare dalla mente quegli schiamazzi. Adorava quando aveva il ruolo di spettatore annoiato.
Mentre i due bambini stavano litigando, il maggiore ne approfittò per alzarsi dalla sedia e andare verso la porta di ingresso, dalla quale era certo provenisse il rumore di qualcuno che ci bussava. Intimò silenzio, anche se divertito, perché c'era la possibilità che avessero disturbato qualcuno del vicinato, giunto a lamentarsi.
Sul punto di farsi due risate, si dovette ricredere dato che dietro quella porta c'era solo Seokjin, giunto per lavoro e non per ottenere fastidio. «Kook, ti cercano.»
«Signor Kim, quale piacevole sorpresa!» lo accolse lo scrittore con le braccia aperte in simbolo di cordialità. «Prego, prego, entri, stavamo giusto per terminare il pranzo con una tazza di caffè, vuole per caso unirsi a noi?»
L'altro scosse il capo, però varcando la soglia. «Dovevo anticipare l'incontro delle sei, dato che ho degli affari importanti da sbrigare, per cui sono giunto io stesso da te per vedere come va la tua storia. Mi potresti dare i primi capitoli? Devo controllare se siano fatti a dovere.»
Nel frattempo Jimin era rimasto in disparte, non tanto a suo agio nel presentarsi davanti al suo superiore, almeno non quando non era a lavoro. Poi, Kim che era piombato in casa loro da un giorno all'altro, dopo essere stato un fantasma per più di un anno in quella casa editrice, era tanto strano quanto poco credibile e losco. Magari si preoccupava inutilmente, poteva essere solo invidia per quell'uomo che ancora non gli aveva lasciato il posto da capo assoluto.
Yoongi si avvicinò a lui, poggiando una mano sulle sue spalle mentre Jimin rimaneva nella sala da pranzo, seduto all'estremo del tavolo, evitando Seokjin che nel frattempo era entrato in salone e si era posizionato su un divanetto.
«Chim, so che ti dà fastidio che quell'uomo sia ritornato tutt'a un tratto nella tua vita, soffiandoti il posto da quasi superiore, te lo si legge negli occhi.» si sedette accanto a lui, carezzandogli la schiena. «Non essere scortese, perché può ancora decidere la tua fine, se essere licenziato o rimanere alla tua scrivania. È un bene che ti abbia dato così tanti compiti e, anche se adesso se li sta riprendendo, non devi essere triste. Prima o poi tornerà tutto ad essere come prima: non starà lì per sempre, è abbastanza ricco da vivere di rendita. Tecnicamente anche tu, ma vuoi arrivare ad un certo traguardo, ed ecco perché non molli e sei ancora lì, come sua spalla.»
Era vero, Seokjin qualche giorno prima gli aveva tolto anche il privilegio di controllare le assunzioni e i licenziamenti e ciò che temeva di più era che Yoongi fosse cacciato dalla sua stessa stanza.
«È che non capisco affatto perché mi abbia illuso in questa maniera. Nel senso, certo che non penso che sia io il soggetto principale: non voleva illudere me, sicuramente, ma ci devono essere state delle motivazioni. Perché Kim Seokjin è sparito per più di un anno in quella casa editrice e ha lasciato a me le redini su tutto quanto, permettendo solo a me e a pochi di andare a parlare con lui in circostanze molto limitate?»
Jimin si morse il labbro, aggrottando le sopracciglia e fissando un punto indefinito sul pavimento, avvertendo il flebile brusio delle conversazioni dei due nell'altra stanza.
«Anche per me c'è qualcosa di strano. Compare proprio quando deve ricercare Jungkook e, stranamente, è l'unico di quei fessi che ha chiamato ad accettare. Chi è che si fa sfuggire l'occasione di essere assunti dalla casa editrice più importante di Parigi e forse di tutta la Francia? Nei dintorni non ha rivali e chiunque avrebbe accettato sicuramente. Qualcosa qui non quadra, un dettaglio che Kim non ci ha detto.»
Yoongi e Jimin si guardarono, entrambi che esprimevano della preoccupazione riguardo quella vicenda. La scusa del "rimanere chiuso sempre nel suo studio a formulare quel grande progetto che aveva in testa non reggeva affatto". Conoscevano bene i tempi nelle quali le idee venivano partorite e, a meno che Seokjin non l'avesse scritto per conto proprio, il libro, non ci avrebbe messo più di un anno, contando che non prendeva più parte alla vita dell'azienda. E Jimin, quando giungeva da lui, non aveva mai visto che facesse qualcosa di simile.
«Yoon, sai qual è la cosa che non mi quadra, più di tutte?»
L'altro aprì le orecchie, scuotendo il capo in attesa di una risposta, mentre Jimin possedeva ancora quello sguardo perso nel vuoto. «Che negli archivi non c'è traccia di Jeon Jungkook, neanche di lettere e pacchi arrivati da parte sua. Ho controllato qualche giorno fa, mentre tu stavi nel nostro studio a finire di leggere un manoscritto, come al solito. Non te l'ho detto, perché per un attimo ho pensato che Seokjin avesse preso tutto quello che Jungkook gli aveva inviato e lo avesse conservato.»
«Magari l'ha fatto, l'ha nascosto in qualche cassetto, in qualche cassaforte. Oppure l'ha portato a casa sua.»
Il biondo scosse il capo. «No, Yoon, ieri sera ho avuto un abbaglio: mi sono ricordato di un signore che lavorava tempo fa all'ingresso che mi disse che comunque sia tutto quanto andava segnato, di ogni nome si prendeva nota. Ma di Jungkook non c'è traccia, neanche una singola virgola. Sembrava che non fosse mai esistito, in quella casa editrice. Per cui ho pensato ad una eventualità, che sembra abbastanza azzardata, ma posso assicurarti che non è così.»
Yoongi era sempre più attento al ragionamento di Jimin e voleva che lui continuasse, interessato a condurre la questione verso un punto specifico.
«E se i manoscritti di Jungkook non fossero mai arrivati alla Mabillon e Seokjin ci stesse mentendo? Se non li avesse mai realmente letti?»
Il corvino rifletté per qualche secondo su quell'idea, non valutandola effettivamente senza senso, anzi: era l'ipotesi più probabile di tutte. «Rispiegami perché Jungkook ha deciso di scrivere e pubblicare in modo così ossessivo.»
«Suo padre, lo ricattava, voleva che trovasse abbastanza soldi per pagare il suo silenzio su una questione, e tra gli impieghi che gli propose quello era il migliore.»
Il maggiore inclinò il capo verso destra, nettamente confuso dalle sue parole, quasi fossero surreali. Jimin credette che fosse tanto perplesso per la decisione del padre presa nei confronti del figlio, ma fu sorpresa dalla seguente considerazione.
«Se l'avessi ricattato, avrei cercato di fargli trovare dei soldi celermente, eliminando ogni lavoro che avrebbe previsto troppo tempo. Diciamoci la verità, poi, quanti soldi vuoi che si facciano da una casa editrice? Solo se ti va bene, allora può darsi che funzioni. Mi sarei rivolto all'imperatore, sperando nella sua benevolenza, ma perché proprio la Mabillon? Suo padre deve avergliela consigliata come unico modo per guadagnare; Jungkook è furbo, ho avuto modo di conoscerlo abbastanza da capire che non si sarebbe limitato. Poi, lo ha detto anche Seokjin: gli altri hanno mandato i loro manoscritti ad altre casi editrici. Perché Jungkook non l'ha fatto? Che cosa aveva di tanto speciale il posto dove quell'uomo, Kim, lavora?»
Jimin alzò lo sguardo verso le teste di quei due, che riusciva a notare in lontananza.
«La faccenda, secondo me, non quadra fin dall'inizio, e nessuno, nessuno, se ne è mai reso conto.»
Continuò a fissarli: stavano ridendo fra di loro e parlavano come due borghesi colti, di argomenti che solamente quel ceto sociale poteva comprendere. Faceva a stento a credere che le loro teorie non fossero campate per aria.
«Jeon, mi diverto proprio a colloquiare con te: sei un bravo dipendente e sarei molto contento se proseguirai con la scrittura dei prossimi libri di questa collana. La storia è veramente avvincente, sono fiero del giovane scrittore che ha deciso di darmi retta.»
Kook arrossì, poiché non si sarebbe mai aspettato sentir pronunciate da Seokjin quelle parole: ancora faceva fatica a credere che quello non fosse un sogno, ma la pura e nitida realtà. Le parole di Kim, a tratti, gli apparivano annebbiate, come in una nuvola di fumo, confuse come se appena immaginate o estratte dai sogni. Erano vere, sebbene tutto ed era la felicità a mandarlo su di giri in quella maniera.
Più difficile era non darlo a vedere, anche se avrebbe voluto saltare dovunque quando era in sua presenza.
Sarebbe stato un sogno scrivere altri libri per lui, adesso che lo stava riempiendo di complimenti.
Tutte quelle parole stavano alimentando la sua autostima e finalmente si reggeva su due piedi, a riguardo, senza bacillare, ed era certo di poter continuare a fare belle figure come quelle. Ci stava mettendo tanta passione in ciò che stava organizzando e sperava che anche il pubblico sarebbe stato entusiasta delle sue opere.
Si congedarono, dopo circa un paio d'ore che Seokjin era stato nella loro casa a parlare liberamente, e Kook alla fine non poté trattenersi dal gettarsi sul divano ed emettere qualche urletto di soddisfazione, con il volto immerso nei morbidi cuscini verde selva.
«C'è una lettera per te. È comparsa quando Seokjin se ne è andato. Dal nulla, era sull'uscio.» gli disse Jimin, porgendola con sguardo serio: l'aveva già aperta.
Jungkook la prese tra le mani, ancora troppo scosso per concentrarsi completamente sul mittente.
Fu ancora peggio, quando si rese conto del nome scritto lì sopra, e per la casa vennero propagate grida di gioia, per cui si buttò nuovamente sul divano, questa volta a pancia in su.
Adoro la vita qui a Firenze,
Io vorrei rimanere qui per tutta la mia vita.
Utile: perché imparerei tante cose,
Tutto darebbe i propri frutti, no?
Oppure sbaglio? Vorrei rincontrarti, qui.
Mai sarei felice se senza te, Jungkookie, per questo
Lascia Parigi e vieni da me, al sicuro.
Per Kookie.
Lasciare Parigi? Proprio adesso?
Il suo sorriso si spense: gli stava proponendo di giungere in Italia sebbene fosse stato quello il motivo per cui si erano separati, ovvero il dover rimanere nella sua città natale.
Taehyung aveva scritto la lettera, alla fine, con varie preghiere verso il suo maestro e sotto consiglio opprimente del contenuto, ma sperava che Jungkook capisse.
Jungkook, ti prego, fai come ti ho detto di fare.
Ogni notte, da quando la lettera era partita, aveva pregato affinché Jungkook riuscisse a leggere nella maniera giusta.
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