3. Un natale diverso (1)

Ho raccontato piccoli squarci di una storia, senza mai soffermarmi su alcun dettaglio. Il John di cui vi ho narrato era piccola, un bambino di cinque o dieci anni, molto diverso dal me di cui sto per narrare:

Un adolescente come tanti, fissato con la musica, amante del baseball e molto suscettibile -come già mi ero dimostrato da ragazzino-, ma non vedrete niente di tutto ciò in quel che sto per raccontare, non ancora. La mia vita da quindicenne fu solcata da una ferita profonda e indelebile, che mi portai appresso per una vita intera.

Prima di farvi accostare a questo John, però devo dirvi di quell'anno, l'anno in cui compii quindici anni... fu il peggiore per me, per la mia famiglia. Andavo a scuola e i professori mi prendevano in simpatia, ignorando la mia persona, pensando alla mia storia. La mia personalità - dettata dal desiderio di non angosciare troppo nessuno, dal non costringere alcuna persona a provare pena - mi proibisce di scendere in quei dettagli, nei dettagli sul patibolo che fu per me l'intero periodo e non perché fossi un terribile pessimista; il mio carattere influenzava solo di poco quel tempo disastroso di vita e non di scuola... la scuola in confronto a ciò che c'era al di fuori era un piacevole conforto obbligatorio, di voti pessimi e sguardi penosi.

Il momento in cui credetti di non poter più sorreggere quelle pene su un unico corpo giunse assieme alla neve, al natale e alla gioia che aveva varcato gli animi di ogni peccatore.

Per la prima volta non festeggiai la vigilia nella piccola topaia che era casa mia, davanti a un piatto di merluzzo congelato e mal presentato, ma a Brighton, nella villa con piscina di zia Titty. La cugina di mio padre era una di quelle donne con lo sguardo da micetta, attenta, in attesa di fare la sua mossa, una di quelle a cui il cervello frulla veloce, senza mai fare una pausa. Sono costretto a immaginare che fu a causa di quel suo modo di essere che il ventuno dicembre il telefono a disco trillò e fu annunciato un invito a casa Dixon per mio padre e tutta la sua prole.

Di tre figli che eravamo, nessuno acconsentì senza replicare. Walter fu l'unico a spuntarla, confessando di esser già stato invitato dalla sua fidanzata e che non potesse proprio declinare la cortesia di quella famiglia. Michael aveva tentato di svincolarsi con la scusa di un mal di gola e io mi ero giocato la carta del: "Ma il giorno dopo è il mio compleanno!"

Niente aveva funzionato.

Sì, sono nato lo stesso giorno del bambinello nella mangiatoia, solo che a me fu data una culla nel venticinque di dicembre di tanti anni prima. In quella fredda notte invernale, durante cui la neve scendeva in tempesta al di là degli infissi dell'ospedale, dalle pareti filtravano i cori intonati dei canti cristiani e il mio pianto si univa in melodia con il loro. Questa storia mi era sempre stata raccontata sotto l'albero, da mia madre fra le lacrime di commozione, quell'anno fu ben diverso.

Il giorno della vigilia giungemmo a casa di zia Titty in anticipo, con due scadenti bottiglie di vino e un paio di regali rimediati all'ultimo momento.

Mio padre passò la prima mezz'ora di quel tempo  in casa Dixon a ringraziare sua cugina per l'ospitalità e scusarsi per essersi dimenticato il pandoro che aveva confezionato per loro - non che a zia Titty mancassero le leccornie natalizie... La sua credenza imperlata straripava di torroni e panettoni artigianali, che, in confronto, il dono che le avremmo offerto sarebbe stato un nichelino nel bottino di un ladro -.

Riuscì a interrompere quel suo sproloquio solo quando i primi ospiti suonarono al campanello e io evitai con attenzione ogni loro sguardo, ormai conscio che dei ricchi parenti acquisiti di mia zia non mi importasse proprio nulla.

Lasciai il salone e quel pallido cadavere che era diventato mio padre negli anni, curiosando per l'enorme villa di zia Titty. Un mobilio bianco su tappeti persiani faceva da sfondo a candelabri d'argento e vasi che contenevano tulipani rosati. Ignorai quei futili ricami, volti a coprire la povertà d'animo di quelle persone. Mi beai di questo pensiero per evitare di sprofondare nel risentimento per chi aveva tanto, quando io avevo poco e nulla.

Sprofondai con il viso su un giornale che era poggiato sul tavolino del salone - l'unica stanza che ancora non era stata invasa da quei visi vuoti di finti sorrisi -, senza neanche far caso al fatto che la data del quotidiano risalisse al mese precedente. Fu mio fratello a farmelo notare, con un tono annoiato: «Le elezioni negli Stati Unici ci sono state il mese scorso, idiota».

Mi voltai a guardarlo, mentre giocherellava con le dita, seduto sul morbido divano di pelle, e a quel punto girai il giornale fino a giungere alla notizia. «Ops» ridacchiai, arrossendo lieve.

«Posa quel coso. È già abbastanza patetico senza il tuo fingere che sia tutto a posto.»

«Ma è tutto a posto» affermai con decisione, ignorando la sua espressione truce.

«Certo» canzonò la risposta, «come se gli ultimi quattro anni non siano stati una merda.»

«E tu che ne sai, Mike, siamo stati io e Walt accanto a papà, mentre tu eri al college.»

Strinsi i pugni e trattenni le lacrime al pensiero di quel terribile periodo. Mi alzai dal divano, sentendo il vuoto sotto le suole appena iniziai a percorrere a ritroso gli ultimi mesi: io, papà e Walt. Sempre noi, solo noi, in quella piccola casa che pareva sempre più vuota, più spoglia. Le nostre parole risuonavano nei corridoi della catapecchia come eco, si scontravano con le pareti di cartongesso e ricevevano sempre le stesse risposte, sempre dalle solite persone: me, papà e Walt.

«Ringrazia Walt per aver lasciato l'università, sennò saresti stato solo, Johnny» soffiò, dando voce al suo unico pensiero. Decisi di lasciarlo solo, come lui aveva fatto con noi per tutto quel tempo.

Mio fratello maggiore aveva vissuto con me quel patibolo. La figura di mio padre era stata assente, risucchiata dagli eventi, e Micheal si era reso conto troppo tardi che fosse il momento di fermarsi, di osservare e stringerci gli uni nelle braccia degli altri. Vedere mia madre brancolare nel buio era stato tremendo. Le sue mani fredde, il suo corpo, sorretto dalla presa afflitta di papà, si era dimostrato troppo debole. Fu un masso nel cuore del genitore che era rimasto con noi, una presa di coscienza che non meritava, quella di non aver potuto fare niente, con quei pochi soldi che aveva, tranne che osservare sua moglie spegnersi come fosse una candela consumata.

Quando tutto fu finito e vidi l'espressione pacata sul viso smunto e pallido, privo di vita, che riposava nella bara, mi odiai per la sensazione di pace che iniziava a diffondersi nel mio petto - era finita, mia madre era morta - e continuai a odiarmi per giorni. Mentre mio padre crollava e mio fratello cercava di sorreggerlo, io, il più piccolo e debole, l'unico che aveva vissuto ogni singolo istante della malattia della mamma, iniziavo finalmente a collegare ogni filo: le volte che mi aveva portato con sé a Londra, senza dirmi il motivo, senza farmi accostare a nessun ospedale, abbandonandomi come se non fossi figlio suo, i giorni in cui piangeva per il futuro in cui lei non avrebbe mai vissuto...

«John, ti ricordi del signor Dixon?» domandò mio padre, con un sorriso tirato all'estremo, quando mi vide sbucare dal corridoio.

Voltai il mio sguardo verso l'uomo impettito, con i capelli laccati e il sorriso fin troppo perfetto, ricambiando uno sguardo benigno. «Sì, certo che sì» mentii, porgendo la mia mano a quel signorotto che mi degnò di appena uno sguardo, dicendo con voce impastata: «Allan, non signor Dixon... Signor Dixon è troppo formale per i familiari, non credi, ragazzo?»

Non ebbi il tempo di rispondere, ma sul mio volto lui lesse lo stupore per quel termine confidenziale. In quell'esatto momento il campanello suonò di nuovo e mio padre aprì la porta con la spontaneità di un padrone di casa. Un altro uomo, identico a quello che aveva appena lasciato l'ingresso per raggiungere la sala in cui avremmo consumato la cena, si presentò a mio padre. Io lo guardai come se non avessi mai visto il gemello di nessuno in vita mia, ma fu solo un attimo, prima che zia Titty si fiondasse verso di lui.

«Joseph, sei solo?»

Lui annuì con un sospiro. «Jamie sarà qui più tardi. Scusami, Elizabeth, ma sai com'è... questi figli» disse, facendo un occhiolino alla pancetta appena evidente, che zia Titty non nascondeva affatto, con un vestito succinto, il quale sembrava voler gridare al mondo intero: sono incinta, finalmente!

Ma non mi curai dei suoi commenti, quando sentii nominare i figli e il fatto che quelli degli altri potessero permettersi di essere ribelli, mentre io ero lì, incatenato alla caviglia di mio padre, con il costante terrore che lui crollasse e troppo oppresso da tale pensiero per permettermi di crollare a mia volta.

Avevo quattordici anni - ancora per qualche ora -, eppure sentivo di non averli mai avuti. Mi erano stati strappati via quando avevo visto mia madre con la flebo al polso, distrutta dalla chemioterapia, che continuava a guardarmi come se il giorno seguente mi avrebbe sgridato dopo aver annusato una maglia dal puzzo di tabacco o aver preso un'insufficienza in algebra.

«John» mio fratello sgusciò dal corridoio, mi voltai verso di lui e sorrisi, fingendo di non essermi perso nei pensieri di quell'orfano che ero diventato. «La cena è pronta, vuoi far fare una figura di merda a papà o intendi venire a tavola?»

Seguii Micheal senza rispondere e raggiunsi con lui la sala grande in cui, imbandito per la vigilia, c'era un tavolo dai toni dorati. Mi accomodai a uno dei posti liberi, senza far caso al fatto che, una volta che tutti eravamo in procinto di assaggiare le pietanze, servite dai camerieri di zia Titty, ci fosse ancora una sedia vuota al tavolo.

Osservai quel quadretto familiare a cui non appartenevo. Mia zia, seduta accanto al marito, che negli anni si era fatto più paffuto, gli altri due signori Dixon, gemelli - identici e distinguibili solo dalla presenza di una donna accanto al più curato tra i due -, che mangiavano sincroni, maneggiando le forchette con un'eleganza invidiabile da gente come quella che era all'altro capo del tavolo... Me, mio fratello e lo sprovveduto di mio padre.

Per quanto tentassimo di fare come se conoscessimo le accortezze di quelli che erano loro, non riuscivamo proprio ad abituarci all'idea che ci fossero camerieri tutt'intorno a soddisfare ogni nostro desiderio. Uno di questi era lì per empire i calici di vino, me ne resi conto quando iniziò a calare nel mio bicchiere il quarto infuso di liquido frizzantino e mi promisi che non avrei bevuto più, non quella sera, non davanti a quelle persone composte.

Nel mentre che assaggiavamo fasolari e tartare di gambero le chiacchiere si spostavano da argomenti di politica a bramosi progetti economici. La notte si era fatta più scura, man mano che i camerieri poggiavano vassoi di primi sopraffini e secondi piatti ben decorati. Al di là dell'ampia vetrata su cui era affacciato il salone i canti natalizi avevano preso a rumoreggiare nel vicinato, che dalla postazione da conti che avevamo era uno spumeggiante dipinto di luci e colori piacevoli.

«Oh, Zack, caro! È mezzanotte» disse zia Titty, pulendosi la bocca di rosa con un delicato tovagliolo color perla.

«Buon natale!» esclamò quel che ormai avrei dovuto definire mio zio. Il suo tono era basso e melenso, tinto dal fiato dolciastro del vino che gli era stato versato senza sosta per tutta la sera. Gli auguri di tutti, tranne che i miei, rumoreggiarono nella sala.

«Tanti auguri, Jonnhy» sussurrò mio fratello, aprendo bocca per la prima volta da quando si era seduto a tavola.

Sorrisi senza rispondere. Avevo quindici anni e tra tutto quel che avrei potuto aspettarmi, successe una cosa che a quei tempi mi stupì ben poco, per quanto potesse essere poco incontrare Mela.

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