2. Un giorno al parco
Ho detto che avrei raccontato di Mela e del perché avesse attirato l'attenzione del me a cinque anni, ma quel momento non è ancora giunto e se siete qui solo per conoscere quell'aspetto della mia vita mi dispiace deludervi... Sarete consolati, forse, sapendo di non essere i primi a rimanere delusi da me e dalla mia vita, ma forse lo sarete di più nel sapere che quel momento - il momento in cui parlerò di Mela come una persona in carne e ossa e non come una dea - giungerà di sicuro, ma per arrivarci mi è necessario parlare di un altro me, il me a dieci anni.
Avete presente quell'età in cui si inizia a sapere di essere persone vere, in carne e ossa, le cui azioni hanno conseguenze reali... Quando conobbi la vergogna e la frustrazione avevo dieci anni e pensavo di continuo a un modo per rendere semplici tutti quei pensieri che ancora non capivo a pieno, però mi sentivo grande abbastanza da fare tutto a parere mio.
A scuola ci andavo a suon di schiaffi e grida. A mia madre sarebbe piaciuto avere almeno un figlio studioso e invece si era ritrovata uno come me: poco volenteroso, distratto, interessato al mondo per quel che era e non per quel che fu o che sarebbe stato.
A dieci anni presi un sacco nero da sotto il lavello della cucina e iniziai a infilarci dentro tutti quei giochi da fanciullino che avevo, non che fossero molti, soldi per i giocattoli a casa mia non ce ne erano mai stati. Eppure io raccolsi la mia sola macchinina rossa, le lego che un tempo erano di Micheal e un paio di peluche brutti, che non saprei dire se fossero riproduzioni di uccelli o di alieni.
«Sono un uomo» avevo detto a mia madre, passandole quel sacco nero, in cui tintinnavano tutti miei vecchi giochi.
Lei aveva riso, chiedendomi cosa volessi farci con tutti quei preziosi cimeli che avevano accompagnato periodi della mia vita che già avevo dimenticato. In tutto ciò non afferrò il sacco e lo lasciò fra le mie mani da bambino, a contemplarli con la mente di un uomo.
«Buttiamoli» era stata la mia risposta ingenua, ancora convinto che lei avrebbe afferrato il sacco per lanciarlo in un cassonetto.
«No, li venderai.»
Così feci, un giorno di metà settembre accompagnai mia madre a Londra, pensando che lì avrei trovato tre volte gli acquirenti che ci sarebbero stati nella minuscola pinetina affianco a casa mia e, mentre lei se ne stava chissà dove a fare chissà cosa, - anche se ero grande, non mi era ancora permesso sapere i veri fatti di famiglia, quelli erano riservati a mamma, papà e Walter - io allestii la mia bancarella. Poggiai su un telo di un parco la macchinina rossa, vecchia e senza una ruota, una scatola di cartone con dentro le lego sbiadite di mio fratello e i miei peluche brutti.
I calcoli della mia mente da grande erano sbagliati o forse giusti... alla mia miserabile bancarella non si accostò nessuno quel giorno, né i ricchi, a cui facevo pena, né poveri, che provavano invidia per me che avevo tanto e lo rinnegavo a quel modo. Ciò mi rese invidioso e penoso allo stesso tempo, così che abbandonai tutti i miei averi e raggiunsi un gruppetto di bambini più grandi che giocavano a pallone.
Erano sudati e lerci di terra, urlavano parolacce come se non ci fosse un domani e chiamavano femminiccia i bambini che venivano colpito dai loro tiri destri, veloci come missili. Non riuscii a fare a meno di pensare che crescendo un po' di più sarei voluto essere come loro: sporco e arrabbiato.
«Posso giocare?» chiesi a un paffutello, che stava concentrato davanti la porta a molleggiare sulle punte.
«Sei bravo, ragazzino?»
«Discreto» risposi.
Non avevo mai giocato in una vera squadra di calcio, ma ero l'ultimo di tre figli maschi e i miei fratelli amavano la Tedesca.
«Va bene, sta' in porta. Il portiere muove il culo per acchiappare la palla fuoricampo» rispose, contento di poter abbandonare quel ruolo per lasciarlo a me, il povero sfigato più piccolo.
Non presi neanche un pallone, ma neanche ne feci passare nessuno attraverso la porta. Quel gruppo di ragazzini giocava a modo suo, senza delle regole precise e io, piccolo e gracile com'ero, non mi azzardai a dire loro come si giocasse. Eppure, nonostante non fossi un espero di calcio, sapevo bene che le mani non fossero ammesse e che un calcio ai testicoli potesse essere considerato un fallo...
«Ragazzino, alza le chiappe e va' a prendere la palla» mi disse un tipo con due incisivi enormi che, per quanto erano grandi, non gli entravano nella bocca e lo rendevano simile a un castoro.
Feci come chiesto e andai a raccogliere il pallone che si era infilato all'interno di un tronco cavo di un albero. Quando uscii da quella buca ero sporco di terra dalla testa ai piedi e la fanghiglia umida mi sgocciolava dalla punta delle dita. Gli porsi il pallone, unto di lerciume almeno quanto me, e rimasi lì, giocando ma non giocando a calcio, in attesa che giungesse qualcuno più schiappa di me a cui affibbiare quel finto ruolo di portiere.
Il pallone volò con un calcio del bambino-castoro e io lo osservai sorvolare il cielo, chiazzato di nuvole bianche candide, e quella fu la seconda volta che vidi Mela, in una circostanza in cui avrei - di sicuro - preferito vedere chiunque tranne che lei.
Seduta su una panchina, sola soletta, Mela se ne stava ferma a dondolare le gambe e guardare pacifica il cielo, beandosi del sole che a Londra appariva di rado. Indossava un vestitino verde a balze e stringeva un libricino fra le mani pulite, leccandosi l'indice ogni due o tre pagine che girava.
Era graziosa e principesca, proprio come quando la vidi al matrimonio di zia Titty, peccato che a dieci anni non ero ancora abbastanza riflessivo da poter ricordare quel che vidi a cinque anni... Magari avrei capito prima che nel mio modo di esistere e nella mia intera vita ci fosse qualcosa di strano.
Il calcio del ragazzo castoro lo seguii con lo sguardo attento di un'aquila, anche perché sarei dovuto andare io a raccattare il pallone in qualche strano luogo del parco. Con gli occhi piccoli e stretti a delle fessure constatai - con profondo dispiacere - che, di tanti posti in cui quella sfera infernale potesse accasciarsi, fosse finita addosso a quella ragazzina ordinata e composta, che leggeva seduta su una panchina: Mela. Come un cucciolo indifeso il pallone lercio di terra le si era posato accanto, facendole perdere il segno sul libro. Lei si era alzata in piedi sgomentata, stringendo quella palla sgocciolante fra le dita.
«Ragazzino!»
«Ragazzino?»
Mi voltai verso il bambino-castoro e il suo amico cicciottello. «Vado» sbuffai, muovendomi nolente verso Mela, che per me ancora non era Mela, ma lo sarebbe diventata presto.
Raggiunsi la bambina vestita di verde, che si guardava attorno confusa e attonita dal razzo che l'aveva colpita. Mi chiesi se le avesse fatto male, ma dal suo sguardo severo mi risposi da solo con un no.
Mi guardò con una smorfia di sano e limpido disgusto, prima di chiedere: «È tua questa palla tutta sporca?»
Il petto mi si strinse in una morsa e feci fatica a rispondere. «Sì, è mia.»
Allungai le braccia per afferrare il pallone, con le mani tremanti, e udii la voce del bambino-castoro chiamarmi: «Avanti, caghetta, vogliamo giocare.»
«Posso averla?» azzardai a chiedere, ricevendo una seconda smorfia dalla bambina.
«Mi hai sporcata tutta, guarda.»
Si voltò di poco e tirò il tessuto del suo vestito, su cui compariva una chiazza di terra lurida, che era come una nota stonata in orchestra.
«Scusa.» Fu la risposta semplice, di un bambino che era un misto di frettoloso imbarazzo.
Mela mi ignorò, passandosi una mano, che si tinse di sporco, sulla chiazza di terriccio umido.
«Ti do una mano» proposi, non abbastanza sveglio da capire che non fosse l'idea migliore in quel momento.
Avevo le mani sporche di terra, come i calzoni, su cui avevo strusciato i palmi, odiando la sensazione di umido sulla carne viva delle mie dita.
Lei indietreggiò. «Rozzo maleducato, stai lontano.»
Osservai la rabbia sul suo volto, mentre il suo vestitino a balze verdi svolazzava per un tiepido vento a cui non feci troppo caso, concentrato sull'osservare le sue labbra muoversi nel pronunciare l'insulto e ad ascoltare il suo tono di astio e superiorità.
Potevo sembrare uno di quei bambini che si faceva scivolare le cose addosso, ma non sempre - o almeno non con le femmine -. Dove vivevo io, nel mio paesino microscopico nell'East Sussex, termini come quelli si usavano di rado e solo in casi estremi e forse perché, in fondo, eravamo tutti un po' rozzi e un po' maleducati.
«Zitta, che così conciata sembri una fottuta mela verde.»
Sputai a terra e vidi lei tingersi di stupore, il che fece spuntare sul mio viso un sorriso malsano. Me ne andai, senza pallone e senza vergogna, pensando al modo in cui credevo di averla umiliata. A dieci anni si fanno cose per cui si prova rimorso, ma in quel momento di rabbia io non lo capii.
Mi voltai a osservare la bambina pallida nel vestito verde. Quel verde acceso che sapeva di speranza o di invidia, la stessa invidia che provavo io, nell'inconsapevole speranza di essere più simile a lei, che a me stesso. Verde, verde come una succosa mela che attendeva il morso di un predatore, che in quel caso si identificava con un nome: John, io... che me ne andavo via fiero della mia rispostaccia.
Mela divenne Mela proprio quel giorno, siccome il me a dieci anni avrebbe potuto dimenticare tante cose di quell'infanzia quasi scaduta, ma non il cipiglio di puro disgusto e gli occhi colmi di stupore di una ragazzina che, anziché giocare con la terra e rotolarsi nella vita innocente, giudicava la mia vita come quella di un rozzo maleducato... e la cosa su cui non mi perdono è che aveva ragione.
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